Fabio
si sta guardando intorno e ogni tanto mi interroga con gli occhi, fa
smorfie di disappunto. Stiamo aspettando il nostro amico Angelo. Ci
ha gridato un ‘arrivo subito’ dalla finestra, ma sono almeno
dieci minuti che siamo lì, appoggiati alla macchina, gettando uno
sguardo seccato, di tanto in tanto, a quel portone che non s’apre
ancora. Ci accendiamo una sigaretta e fumiamo nervosi. Le cicche,
schiacciate a terra col tacco, aumentano a vista d’occhio. Si sta
facendo tardi. Abbiamo messo giù una precisa tabella di marcia, e
lui si fa aspettare. Pazienza, partiremo con qualche minuto di
ritardo.
Siamo troppo
eccitati per questo viaggio. Il nostro viaggio. Ne parlavamo già
dalla quarta superiore.
‒ Ragazzi, tra un
paio d’anni,‒ aveva detto Giulio ‒ faremo il giro dell’Europa.
‒ Sempre esagerato
tu, a me basterebbe andar via da questo merdoso quartiere ‒ aveva
commentato Angelo, in genere il più taciturno di noi. Mentre parlava
aveva la mania di lisciarsi il ciuffo. Perdeva un sacco di tempo
davanti allo specchio prima di ogni uscita per fissarlo con l’ultima
gommina in circolazione. Noi lo prendevamo in giro per questo. Giulio
ed io invece portavamo i capelli cortissimi alla marine. Era
l’unica cosa che ci distingueva da lui.
Giulio, Angelo ed
io, Fabio , eravamo diventati per tutti i nostri compagni quelli del
GAF e con questo nome diventammo noti nel quartiere, all’oratorio,
nel campo di Rugby. Il GAF. Un trio di sognatori: il primo posto nel
campionato regionale di rugby, la conquista di Eliana, la ragazza più
bella del liceo, l’automobile, una Cinquecento per me, un’Alfa
per Giulio, una Spyder per Angelo. Lui diceva, ammiccando, che col
suo ciuffo non poteva accontentarsi di nulla di meno. Quando ne
parlavamo, facevamo notte sul muretto del giardino sotto il
condominio dove tutti e tre abitavamo.
Ci passavamo le
serate su quel muro a chiacchierare, a sparare cazzate, seguendo le
volute azzurrine di fumo, soffiate fuori con spavalderia, rischiando,
le prime volte, di soffocare, di rimanerci secchi. Questo accadeva
soprattutto quando passava Eliana. Allora il GAF smetteva all’unisono
di inspirare, le mani rimanevano in aria con la sigaretta che
bruciava da sola.
Quando Eliana
passava, la vita del GAF si sospendeva. Tutti e tre, imbambolati,
seguivamo con gli occhi il dondolare dei suoi fianchi, il suo corpo
sembrava emanava un profumo che ci rimaneva nelle narici anche dopo
che lei si era allontanata, e dei suoi capelli neri e ricci non
scorgevamo che una macchia indistinta. Dovevamo proprio sembrare
ridicoli e tamarri.
Allora ci guardavamo
e scoppiavamo in un risolino indecifrabile. Ognuno rideva per un suo
motivo. Ma allora non pensavamo di ridere per la stessa ragione.
‒ Scommettiamo ‒
disse Angelo una sera ‒ Scommettiamo che con me ci sta!
Giulio gli diede una
manata sulla schiena, che quasi gli fece sputare l’anima.
‒ Con te? Ma sei
scemo? Cosa se ne fa una così di te, quella mira in alto!
‒ Sì, con me.
Perché no? Io lo so che anche tu ci hai fatto un pensierino, di’
la verità.
Poi i due avevano
guardato verso di me. ‒ Tu non dici niente?
Io avevo abbassato
la testa. Mi guardavo insistentemente la punta delle scarpe. Se
avessi alzato il viso, i due avrebbero capito tutto. Avrebbero capito
che io dell’Eliana ero cotto marcio e che ogni sera, dopo averli
lasciati, uscivo di nuovo e mi incontravo con lei ai giardini di via
Oberdan, abbastanza lontano da dove abitavamo, proprio alle spalle
del nostro Itg
Via Oberdan era un
viale di tigli odorosi, discreti. Io ed Eliana ne avevamo scelto uno
per i nostri incontri. Aveva il tronco che diramava abbastanza in
basso, giusto giusto perché Eliana si appoggiasse al ramo più
grosso, e io potessi mangiarla di baci, in un corpo a corpo che mi
sfiniva e mi lasciava più affamato di prima e in uno stato di
perenne nostalgia di ciò che ancora non avevo avuto.
Non so perché non
glielo avevo detto ai miei amici. Probabilmente avevo paura che mi
considerassero un traditore. Ma Eliana, con loro, non ero disposta a
condividerla, com’era successo con altre ragazzine. Anzi non ero
disposto a condividerla con nessuno.
Poi, una mattina
Giulio e Angelo mi aspettarono davanti al portone della scuola. Non
erano, come al solito, accoccolati su un gradino dello scalone di
ingresso a copiare in tutta fretta il problema di fisica o a
ripassare sul Bignami gli ultimi sei o sette capitoli di storia. Li
vidi impettiti, rigidi e capii che avevano saputo. Sì, di me e di
Eliana. Mi feci loro incontro e quando arrivai sotto, loro sputarono
per terra e, senza una parola, si allontanarono.
Avevo disintegrato
il GAF. Non mi diedero il tempo di spiegare. Di dire che tra me e
quella smorfiosa era già tutto finito. Eliana mi aveva lasciato per
uno tutto muscoli e niente cervello. Arrivava a scuola con una moto
di grossa cilindrata, e le ragazze sul sellino cambiavano a una
velocità incredibile. Noi lo guardavamo con un misto di invidia e
disprezzo. Nel quartiere era conosciuto come sbruffone e non si
sapeva come avesse trovato i soldi per quella moto. Suo padre gestiva
un piccolo negozio di ferramenta, proprio sotto il nostro palazzo.
‒ Se ti vedo
girare con quello lì, ti spezzo le gambe ‒ aveva tuonato mio padre
dopo avermi visto parlare con lui. Mio padre parlava poco. Quando
tornava dal cantiere, con addosso l’odore della calce e del
cemento, si lavava in fretta e subito dopo era a tavola e, quando si
mangiava, si stava zitti e attenti a non fare gesti che potevano
scatenare la sua ira, quasi sempre immotivata. Almeno così sembrava
a me e a mia sorella. Lei è più piccola di me, e per questo motivo
che l’ira di mio padre si dirigeva quasi sempre contro di me o
verso mia madre.
‒ Mi raccomando,
arriva vostro padre, zitti zitti a tavola.
Più che un comando,
una preghiera. Poveretta mia madre, anche lei temeva l’ira di mio
padre. ‒ Che volete farci, lui è sempre stanco. Lavora come un
mulo per non farci mancare niente. Anche la Domenica!
La storia che mio
padre lavorasse tanto per non farci mancare niente mi innervosiva. Mi
sembrava una cantilena stonata. Ci aveva messo al mondo lui. Lui
aveva insistito perché io studiassi da geometra e mia sorella
andasse a scuola alle magistrali, dalle Orsoline. Perché i nostri
genitori continuassero a rinfacciarci di doversi occupare di noi
figli, aspetto ancora di capirla.
Le Orsoline avevano
di buono che il loro istituto si trovava proprio di fronte all’
Istituto tecnico geometri, la mia scuola. Molti aspiranti geometri si
appostavano davanti alle Orsoline per vedere le ragazze entrare o
uscire. In quel tratto di strada si firmavano patti, si
sottoscrivevano promesse. Il giorno più bello era quello dello
sciopero degli studenti. Pochi andavano in manifestazione. I più
rimanevano a gironzolare attorno all’istituto magistrale ad
aspettare le ragazze. Dalle Orsoline non si scioperava mai.
Puntualmente le ragazze entravano e uscivano disciplinatamente alla
stessa ora. Gli appostamenti erano facilitati.
Nel nostro
condominio noi eravamo l’unica famiglia col padre operaio. C’erano
impiegati alle poste, ferrovieri e piccoli negozianti. La piccola
borghesia operosa e perbenista che per noi tre del Gaf stava
diventando asfissiante.
Il nostro prof di
italiano ci aveva fatto commentare per un compito in classe una
canzone di un decennio prima. “Vecchia piccola borghesia, vecchia
gente di casa mia, non so dire se fai più rabbia, pena, schifo o
maliconia. Sei contenta se un ladro muore, se arrestano una puttana,
se la parrocchia del Sacro Cuore acquista una nuova campana…” La
canzone dipingeva il nostro mondo come noi non lo avevamo mai visto.
I nostri padri e le nostre madri si immiserirono ai nostri occhi, il
loro affaccendarsi per meschini traguardi cominciò farci storcere il
naso. E fu da quel giorno che cominciammo a sognare “un orizzonte
che non si ferma al tetto”. Ci rifiutavamo di ascoltare le
canzonette del festival, snobbavamo le canzoni popolari, come quella
che usciva da una finestra del primo piano, quella mattina.
Dove l'aria è
popolare, è più facile sognare... Il nostro quartiere ci
sembrava una palude, immobile, insidiosa. Una rete invisibile in cui
cominciavamo ad aver paura di cadere e di rimanervi invischiati. E
facevamo il verso alle nostre compagne, tutte innamorate di Eros
Ramazzotti.
Adesso tu…
Quando anche Giulio
e Angelo videro Eliana sfrecciare sulla moto del figo del quartiere,
decisero di tornare a parlarmi e tutto avvenne con molta naturalezza.
Fu allora che riprendemmo il vecchio progetto di partire insieme, noi
tre, in macchina, verso il Nord Europa, a maturità conclusa. Giulio
aveva appena preso la patente e suo padre aveva acconsentito a
prestarci una vecchia e gloriosa Fiat 127.
‒ A patto che
siate prudenti, che non facciate pazzie!
E stamattina eccoci
qui scalpitanti, con Angelo che ancora non si decide ad arrivare.
‒ Apri il cofano,
intanto ‒ dissi a Giulio ‒ così appena scende, si parte.
‒ Eccomi qui!
Angelo arriva con
uno zaino enorme e con la sua solita faccia tosta.
‒ Ma che cazzo di
bagaglio hai? ‒ gli faccio io.
Riusciamo a
insaccare quel monumento
nel bagagliaio e partiamo.
La macchina sfila
leggera nel silenzio della prima mattina. Il quartiere è
praticamente ancora addormentato. Percorriamo il Viale dei Tigli,
passiamo davanti al nostro istituto, chiuso per l’estate. Anche il
portone delle Orsoline è serrato. Sorpassiamo una coppia su una
grossa moto. Una fugace visione… Eliana? Un’ombra che svanisce
alle nostre spalle.
Dal finestrino ad un
tratto vedo, come in un cartone animato, i palazzi farsi più alti,
inclinarsi verso di noi a chiuderci la strada. Le finestre come
bocche e occhi aperti per intimarci di rimanere.
‒ Accelera,
Giulio!
Rido come un matto,
e Angelo si gira a guardarmi stralunato.
L’orizzonte si fa
più lontano mano a mano che avanziamo. Anche il cielo ride. Ci sfida
a raggiungerlo.
‒ Accelera,
Giulio. Angelo, prendi la carta stradale. Che autostrada imbocchiamo?