mercoledì 5 ottobre 2022

Noterelle su Il lavatoio di Sophie Dahl

 



Mi era stato detto: ti appassionerà, vedrai. Non avevo motivi pregiudiziali per dubitare. E direi che è una buona disposizione cognitiva ed emozionale per iniziare a leggere un libro.

In effetti l’incipit del romanzo in questione, Il lavatoio di Sophie Dahl, accompagna, dispone, presenta i personaggi (che io ho denominato Lui e Lei, rispettando l’avvicendamento dei capitoli): un uomo, alla fine della giornata lavorativa vede alla tv un volto di donna ("appuntito": è caratterizzante e ripetuto) che arriverà a Nogent- le Rotrou per presentare un libro in cui parlerà della figlia sedicenne morta.

L’operaio giardiniere, ex ergastolano, riconosce in quella signora la figlia della donna che lui aveva massacrato con quarantuno coltellate, dopo averla violentata con una pala da neve in una notte di gennaio.

Roba forte, roba pesante.

L’aria è di truce tragedia (la tragedia greca verrà citata nel corso del romanzo a svelare un côté colto ed erudito), ma non la vediamo in atto. Sospesa sulle nostre teste, non si realizza nella narrazione.

Ci si addentra in un territorio oscuro, fatto di morti, di fantasmi, di “cloaca, di dolore putrido, di amnesia forzata, di confusa rimozione”; sono le parole della voce narrante che sembrerebbe identificarsi nella convergenza tra auctor e agens.

 Chi scrive ha vissuto realmente quella esperienza, e decide che il “Lui” sarà quindi il giardiniere municipale. Per liberarsi della zavorra della memoria scriverà le pagine che seguono: di qui il Il lavatoio; nulla a che vedere col luogo della tradizione contadina d’antan, il lavatoio come luogo di pulizia e candeggio, di canti e chiacchiere incrociate di donne al lavoro, con le maniche rimboccate e i grembiuli bagnati, chine sulle “assi” di legno o di pietra a strofinare vigorosamente i panni; ma una risorsa della finzione per giungere a un’auspicata catarsi, come nella tragedia, appunto.

Nel racconto si snocciola la vita quotidiana del giardiniere, il suo cibo, il suo lavoro, la sua unica amicizia con Gilbert, il capo; di lui sappiamo quasi tutto, degli acquisti alimentari a Ma vie bio, del suo essere vegetariano, delle sue notti di sballo, del suo rifugiarsi nel Traxène (stesso tranquillante di lei, la figlia dell’assassinata) per fugare le ombre; di “Lei” sappiamo molto meno: è insieme persona e personaggio, e le due figure confondono il lettore. 

Gli interventi dirigistici sui personaggi (“Il tizio che ha ucciso mia madre può tranquillamente fare il giardiniere in un romanzo”, “gli do la mia lingua, il mio amore per i fiori e la mia simpatia per le cittadine di provincia”, “gli invento un collega affabile”, “ha diritto persino a un Microonde”) fanno smarrire il filo della narrazione che diventa più fluida verso la fine, ma anche lì per poco.

La narrazione è cucita male, frammentaria, non mantiene quello che promette.

I due si incontreranno in libreria: lui ha letto il libro e va al firmacopie; Lei prende dalle sue mani (che non si sfiorano) la copia e gliela restituisce, non si sa nemmeno se abbia firmato. Siamo in attesa dell’evento risolutivo, invece nulla.

 L’unico episodio rimarchevole e denso di promesse (su cui conviene tornare) è quello dell’immersione del giardiniere (una morte cercata? un’espiazione fallita? ) nella polvere del tiglio fatto a pezzi e polverizzato; ma anche qui nulla si conclude: il giardiniere si scuote dalla polvere e va via.

Da dove è arrivata la sua violenza? Da che cosa è scaturita la sua efferata crudeltà? Vive il presente quasi con gratitudine verso chi lo vuole riabilitato, ma il passato rimane celato; annegato nelle sbornie e nei tranquillanti, intriso del vomito che macchia la “panoplia” (termine ripetuto come anche altri), il mucchio di panni in cui è avvoltolato durate il sonno, tutto vestito.

Che senso ha il tutto? Ci sono intenzioni non esplicitate col racconto. Chi legge si trova davanti a un armadio con molti cassetti: apre uno, e poi un altro, un altro… senza poter stabilire con immediatezza il nesso.

La lettura è faticosa, c’è qualcosa (forse l’enfasi del linguaggio) che impedisce l’empatia o anche solo la conoscenza dei perché e dei percome.

Se la letteratura, la finzione, è un lavatoio, viene da dire che l’autrice ha messo in azione una lavatrice forse sbagliando tempi, temperature e programma. Apri l’oblò e ti trovi un bucato multicolore, e non capisci dove hai sbagliato, pur avendo usato l’acchiappa colore.

C’è un eccesso di stratagemmi stilistici, le varie epigrafi/citazioni letterarie sparse nelle pagine o l’elenco di fiori e piante prima e dopo una pagina bianca, il diverso carattere grafico dei capitoli (uno per Lui, uno per Lei).

La storia viene fuori a rigurgiti, spezzata, interrotta, ripresa. Capisco il dilemma della traduttrice, lei definisce il romanzo “corale”. Io vedo solo il protagonismo di una sola “voce”, pretenziosa; leggo quasi con fastidio la dichiarazione della protagonista sul depistaggio messo in atto nella scrittura (ne parla col libraio): “io provo a dirigerli verso una terza soluzione. Il passo di lato, il terzo tempo del valzer, quello che zoppica un po’”. Perché? La vertigine che ne consegue è sterile. E il valzer è quello degli ignari moscerini/lucciole, un “fenomenoche tutti gli astanti alla presentazione presagiscono (anche loro rimarranno a bocca asciutta) e che chiude (simbolicamente? liricamente?) una storia attesa e mai raccontata.

Stavolta, e con dispiacere, è un NO.




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