mercoledì 5 ottobre 2022

Pancia d'asino (di dubbi e sconcerto)

 


Permettetemi di postare alcune incerte
riflessioni su un romanzo letto questa estate. Il mio testo è diviso in due parti: la prima stesa durante la lettura, la seconda alla fine della stessa. Spero che altri abbiano letto questo piccolo romanzo nella speranza di confrontarmi. Il turpiloquio non è mio, cito semplicemente. Se dovesse disturbarvi, potete eliminare il post.

Sto leggendo un breve romanzo che, secondo la traduttrice, dovrebbe restare nell'animo. 146 pagine scarne in tutto. Molti gli spazi bianchi, compreso numerose pagine finali per ragioni editoriali.

Sono a pag. 90 e non si muove nulla. Vita quotidiana ed erotica di due bambine, in età scolare in un preciso Barrio, avverte la quarta.

A me sembra impossibile che una bambina possa avere quella consapevolezza, come il desiderio di entrare nel “culo” e nel “corpo” dell'amica e compagna di avventure. Ma non potrei giurarlo.

Un libro acchiappa lettori pruriginosi? Si cerca il target per vendere?

Salutato come novità, a me sembra invece che, rispetto al tema infanzia e crescita, abbia degli illustri precedenti in scrittori di ben più grande calibro. Penso al meraviglioso libro di Ray Bradbury, Un' estate incantata.

Forse sarà stata una novità per la letteratura canaria? Oppure la novità è da ricercare nel linguaggio privo di qualsiasi censura o filtro? Non c' è trama, non c'è sviluppo tranne che nel capitolo finale.

La narrazione appare poco credibile, ripetitiva, senza prospettive; nutro il dubbio che l’adulta voce dell’autrice si sia sovrapposta per esasperare e rendere più appetibile una mera cronaca.

Quindi una cronaca legata alla vita del barrio e all'amicizia tra due bambine, se di amicizia si può parlare. A me pare che l' amicizia sia invece un innamoramento totale della protagonista, succube della personalità dell’amica Isora. Della prima non sappiamo il nome, Isora invece scritto ora in maiuscolo, ora in minuscolo campeggia in tutto il racconto: sfrontata, caparbia, ostinata, avventurosa. Non so se arriverò alla fine, vincendo la noia di una ripetitività narrativa, ambientale, terminologica assai defatigante.

Con tutto il rispetto per il gran lavoro della traduttrice che ha scritto una nota esplicativa alla fine del racconto. E che abbia sentito questa esigenza è di per sé significativo.

Magari un piccolo glossario avrebbe aiutato a capire. Ci sono termini che sfuggono alla comprensione.

Il libro è Pancia d' asino di Andrea Abreu, Ponte alle Grazie.


Sono arrivata alla fine.

Mi sono convinta che il racconto è estetizzante a suo modo, che proceda da una costruzione fatta più per stupire, negando ogni aspetto di ingenuità dell'infanzia e con riflessioni non alla portata dell'esperienza e della capacità di astrazione dei bambini e bambine di quella età.

Non so se la mia impressione possa supportata dalle scienze psicologiche e sociali, ma tutto mi sembra esagerato per costruire un mondo mitico, folkloristico. Un esempio: due bambine si incontrano (non Isora), l' una propone di giocare, finiscono per mordersi reciprocamente la "patata", il termine fica è riservato solo a Isora. Strusciarsi, cioè masturbarsi, è la norma. Hanno le "barbi", ma i giocattoli non costituiscono il loro strumento di gioco, prevalgono gli strusciamenti. È pur vero che in certe realtà si cresce in fretta, ma il racconto non dà spazio alla crescita, registra ciò che accade nel momento e stop.

Assenza di madri e padri, una è morta, bambine affidati alle nonne, alle zie, alle vicine. I maschi adulti non esistono proprio come genitori. Non sono poveri, hanno la tv, il "gemboy", i panini al formaggio e prosciutto, ma vivono ai margini della città e del mondo dorato dei turisti, dei “griturismi", attività che permette la sopravvivenza di molte famiglie, ma ne scompiglia la vita. Le piccole non hanno regole, vivono selvaticamente come il cane Sinson, "cacano" e "pisciano" dove si trovano, come lui; le bambine vanno a scuola saltuariamente, frequentano il corso di informatica solo per chattare e provocare l' interlocutore che non aspetta altro che mostrare un enorme pisello senza che il maestro se ne accorga o le guidi nel lavoro.

Non c' è traccia di educazione sentimentale o sessuale, ma nei discorsi delle adulte le bambine sentono spettegolare le zie, le nonne, su quindicenni già incinte. Sanno cosa succede, ma ne ignorano il perché, chiuse nel loro mondo di desideri spiccioli, come andare al mare.

Sognano di uscire dal barrio, ma ne sono prigioniere: un elemento questo che riporta paradossalmente all’unica nota di credibilità. La conclusione è tragica, fulminante. Del resto i sogni dell' infanzia spesso sono contraddetti dalla realtà della vita. Si cresce attraverso il dolore indicibile che spezza e annienta.

Se doveste provare a leggerlo, mi piacerebbe conoscere le vostre impressioni.

Non mi ha convinta per nulla.






Noterelle su Il lavatoio di Sophie Dahl

 



Mi era stato detto: ti appassionerà, vedrai. Non avevo motivi pregiudiziali per dubitare. E direi che è una buona disposizione cognitiva ed emozionale per iniziare a leggere un libro.

In effetti l’incipit del romanzo in questione, Il lavatoio di Sophie Dahl, accompagna, dispone, presenta i personaggi (che io ho denominato Lui e Lei, rispettando l’avvicendamento dei capitoli): un uomo, alla fine della giornata lavorativa vede alla tv un volto di donna ("appuntito": è caratterizzante e ripetuto) che arriverà a Nogent- le Rotrou per presentare un libro in cui parlerà della figlia sedicenne morta.

L’operaio giardiniere, ex ergastolano, riconosce in quella signora la figlia della donna che lui aveva massacrato con quarantuno coltellate, dopo averla violentata con una pala da neve in una notte di gennaio.

Roba forte, roba pesante.

L’aria è di truce tragedia (la tragedia greca verrà citata nel corso del romanzo a svelare un côté colto ed erudito), ma non la vediamo in atto. Sospesa sulle nostre teste, non si realizza nella narrazione.

Ci si addentra in un territorio oscuro, fatto di morti, di fantasmi, di “cloaca, di dolore putrido, di amnesia forzata, di confusa rimozione”; sono le parole della voce narrante che sembrerebbe identificarsi nella convergenza tra auctor e agens.

 Chi scrive ha vissuto realmente quella esperienza, e decide che il “Lui” sarà quindi il giardiniere municipale. Per liberarsi della zavorra della memoria scriverà le pagine che seguono: di qui il Il lavatoio; nulla a che vedere col luogo della tradizione contadina d’antan, il lavatoio come luogo di pulizia e candeggio, di canti e chiacchiere incrociate di donne al lavoro, con le maniche rimboccate e i grembiuli bagnati, chine sulle “assi” di legno o di pietra a strofinare vigorosamente i panni; ma una risorsa della finzione per giungere a un’auspicata catarsi, come nella tragedia, appunto.

Nel racconto si snocciola la vita quotidiana del giardiniere, il suo cibo, il suo lavoro, la sua unica amicizia con Gilbert, il capo; di lui sappiamo quasi tutto, degli acquisti alimentari a Ma vie bio, del suo essere vegetariano, delle sue notti di sballo, del suo rifugiarsi nel Traxène (stesso tranquillante di lei, la figlia dell’assassinata) per fugare le ombre; di “Lei” sappiamo molto meno: è insieme persona e personaggio, e le due figure confondono il lettore. 

Gli interventi dirigistici sui personaggi (“Il tizio che ha ucciso mia madre può tranquillamente fare il giardiniere in un romanzo”, “gli do la mia lingua, il mio amore per i fiori e la mia simpatia per le cittadine di provincia”, “gli invento un collega affabile”, “ha diritto persino a un Microonde”) fanno smarrire il filo della narrazione che diventa più fluida verso la fine, ma anche lì per poco.

La narrazione è cucita male, frammentaria, non mantiene quello che promette.

I due si incontreranno in libreria: lui ha letto il libro e va al firmacopie; Lei prende dalle sue mani (che non si sfiorano) la copia e gliela restituisce, non si sa nemmeno se abbia firmato. Siamo in attesa dell’evento risolutivo, invece nulla.

 L’unico episodio rimarchevole e denso di promesse (su cui conviene tornare) è quello dell’immersione del giardiniere (una morte cercata? un’espiazione fallita? ) nella polvere del tiglio fatto a pezzi e polverizzato; ma anche qui nulla si conclude: il giardiniere si scuote dalla polvere e va via.

Da dove è arrivata la sua violenza? Da che cosa è scaturita la sua efferata crudeltà? Vive il presente quasi con gratitudine verso chi lo vuole riabilitato, ma il passato rimane celato; annegato nelle sbornie e nei tranquillanti, intriso del vomito che macchia la “panoplia” (termine ripetuto come anche altri), il mucchio di panni in cui è avvoltolato durate il sonno, tutto vestito.

Che senso ha il tutto? Ci sono intenzioni non esplicitate col racconto. Chi legge si trova davanti a un armadio con molti cassetti: apre uno, e poi un altro, un altro… senza poter stabilire con immediatezza il nesso.

La lettura è faticosa, c’è qualcosa (forse l’enfasi del linguaggio) che impedisce l’empatia o anche solo la conoscenza dei perché e dei percome.

Se la letteratura, la finzione, è un lavatoio, viene da dire che l’autrice ha messo in azione una lavatrice forse sbagliando tempi, temperature e programma. Apri l’oblò e ti trovi un bucato multicolore, e non capisci dove hai sbagliato, pur avendo usato l’acchiappa colore.

C’è un eccesso di stratagemmi stilistici, le varie epigrafi/citazioni letterarie sparse nelle pagine o l’elenco di fiori e piante prima e dopo una pagina bianca, il diverso carattere grafico dei capitoli (uno per Lui, uno per Lei).

La storia viene fuori a rigurgiti, spezzata, interrotta, ripresa. Capisco il dilemma della traduttrice, lei definisce il romanzo “corale”. Io vedo solo il protagonismo di una sola “voce”, pretenziosa; leggo quasi con fastidio la dichiarazione della protagonista sul depistaggio messo in atto nella scrittura (ne parla col libraio): “io provo a dirigerli verso una terza soluzione. Il passo di lato, il terzo tempo del valzer, quello che zoppica un po’”. Perché? La vertigine che ne consegue è sterile. E il valzer è quello degli ignari moscerini/lucciole, un “fenomenoche tutti gli astanti alla presentazione presagiscono (anche loro rimarranno a bocca asciutta) e che chiude (simbolicamente? liricamente?) una storia attesa e mai raccontata.

Stavolta, e con dispiacere, è un NO.




domenica 10 luglio 2022

Inseguendo l'orizzonte






Fabio si sta guardando intorno e ogni tanto mi interroga con gli occhi, fa smorfie di disappunto. Stiamo aspettando il nostro amico Angelo. Ci ha gridato un ‘arrivo subito’ dalla finestra, ma sono almeno dieci minuti che siamo lì, appoggiati alla macchina, gettando uno sguardo seccato, di tanto in tanto, a quel portone che non s’apre ancora. Ci accendiamo una sigaretta e fumiamo nervosi. Le cicche, schiacciate a terra col tacco, aumentano a vista d’occhio. Si sta facendo tardi. Abbiamo messo giù una precisa tabella di marcia, e lui si fa aspettare. Pazienza, partiremo con qualche minuto di ritardo.

Siamo troppo eccitati per questo viaggio. Il nostro viaggio. Ne parlavamo già dalla quarta superiore.

‒ Ragazzi, tra un paio d’anni,‒ aveva detto Giulio ‒ faremo il giro dell’Europa.

‒ Sempre esagerato tu, a me basterebbe andar via da questo merdoso quartiere ‒ aveva commentato Angelo, in genere il più taciturno di noi. Mentre parlava aveva la mania di lisciarsi il ciuffo. Perdeva un sacco di tempo davanti allo specchio prima di ogni uscita per fissarlo con l’ultima gommina in circolazione. Noi lo prendevamo in giro per questo. Giulio ed io invece portavamo i capelli cortissimi alla marine. Era l’unica cosa che ci distingueva da lui.

Giulio, Angelo ed io, Fabio , eravamo diventati per tutti i nostri compagni quelli del GAF e con questo nome diventammo noti nel quartiere, all’oratorio, nel campo di Rugby. Il GAF. Un trio di sognatori: il primo posto nel campionato regionale di rugby, la conquista di Eliana, la ragazza più bella del liceo, l’automobile, una Cinquecento per me, un’Alfa per Giulio, una Spyder per Angelo. Lui diceva, ammiccando, che col suo ciuffo non poteva accontentarsi di nulla di meno. Quando ne parlavamo, facevamo notte sul muretto del giardino sotto il condominio dove tutti e tre abitavamo.

Ci passavamo le serate su quel muro a chiacchierare, a sparare cazzate, seguendo le volute azzurrine di fumo, soffiate fuori con spavalderia, rischiando, le prime volte, di soffocare, di rimanerci secchi. Questo accadeva soprattutto quando passava Eliana. Allora il GAF smetteva all’unisono di inspirare, le mani rimanevano in aria con la sigaretta che bruciava da sola.

Quando Eliana passava, la vita del GAF si sospendeva. Tutti e tre, imbambolati, seguivamo con gli occhi il dondolare dei suoi fianchi, il suo corpo sembrava emanava un profumo che ci rimaneva nelle narici anche dopo che lei si era allontanata, e dei suoi capelli neri e ricci non scorgevamo che una macchia indistinta. Dovevamo proprio sembrare ridicoli e tamarri.

Allora ci guardavamo e scoppiavamo in un risolino indecifrabile. Ognuno rideva per un suo motivo. Ma allora non pensavamo di ridere per la stessa ragione.

‒ Scommettiamo ‒ disse Angelo una sera ‒ Scommettiamo che con me ci sta!

Giulio gli diede una manata sulla schiena, che quasi gli fece sputare l’anima.

‒ Con te? Ma sei scemo? Cosa se ne fa una così di te, quella mira in alto!

‒ Sì, con me. Perché no? Io lo so che anche tu ci hai fatto un pensierino, di’ la verità.

Poi i due avevano guardato verso di me. ‒ Tu non dici niente?

Io avevo abbassato la testa. Mi guardavo insistentemente la punta delle scarpe. Se avessi alzato il viso, i due avrebbero capito tutto. Avrebbero capito che io dell’Eliana ero cotto marcio e che ogni sera, dopo averli lasciati, uscivo di nuovo e mi incontravo con lei ai giardini di via Oberdan, abbastanza lontano da dove abitavamo, proprio alle spalle del nostro Itg

Via Oberdan era un viale di tigli odorosi, discreti. Io ed Eliana ne avevamo scelto uno per i nostri incontri. Aveva il tronco che diramava abbastanza in basso, giusto giusto perché Eliana si appoggiasse al ramo più grosso, e io potessi mangiarla di baci, in un corpo a corpo che mi sfiniva e mi lasciava più affamato di prima e in uno stato di perenne nostalgia di ciò che ancora non avevo avuto.

Non so perché non glielo avevo detto ai miei amici. Probabilmente avevo paura che mi considerassero un traditore. Ma Eliana, con loro, non ero disposta a condividerla, com’era successo con altre ragazzine. Anzi non ero disposto a condividerla con nessuno.

Poi, una mattina Giulio e Angelo mi aspettarono davanti al portone della scuola. Non erano, come al solito, accoccolati su un gradino dello scalone di ingresso a copiare in tutta fretta il problema di fisica o a ripassare sul Bignami gli ultimi sei o sette capitoli di storia. Li vidi impettiti, rigidi e capii che avevano saputo. Sì, di me e di Eliana. Mi feci loro incontro e quando arrivai sotto, loro sputarono per terra e, senza una parola, si allontanarono.

Avevo disintegrato il GAF. Non mi diedero il tempo di spiegare. Di dire che tra me e quella smorfiosa era già tutto finito. Eliana mi aveva lasciato per uno tutto muscoli e niente cervello. Arrivava a scuola con una moto di grossa cilindrata, e le ragazze sul sellino cambiavano a una velocità incredibile. Noi lo guardavamo con un misto di invidia e disprezzo. Nel quartiere era conosciuto come sbruffone e non si sapeva come avesse trovato i soldi per quella moto. Suo padre gestiva un piccolo negozio di ferramenta, proprio sotto il nostro palazzo.

‒ Se ti vedo girare con quello lì, ti spezzo le gambe ‒ aveva tuonato mio padre dopo avermi visto parlare con lui. Mio padre parlava poco. Quando tornava dal cantiere, con addosso l’odore della calce e del cemento, si lavava in fretta e subito dopo era a tavola e, quando si mangiava, si stava zitti e attenti a non fare gesti che potevano scatenare la sua ira, quasi sempre immotivata. Almeno così sembrava a me e a mia sorella. Lei è più piccola di me, e per questo motivo che l’ira di mio padre si dirigeva quasi sempre contro di me o verso mia madre.

‒ Mi raccomando, arriva vostro padre, zitti zitti a tavola.

Più che un comando, una preghiera. Poveretta mia madre, anche lei temeva l’ira di mio padre. ‒ Che volete farci, lui è sempre stanco. Lavora come un mulo per non farci mancare niente. Anche la Domenica!

La storia che mio padre lavorasse tanto per non farci mancare niente mi innervosiva. Mi sembrava una cantilena stonata. Ci aveva messo al mondo lui. Lui aveva insistito perché io studiassi da geometra e mia sorella andasse a scuola alle magistrali, dalle Orsoline. Perché i nostri genitori continuassero a rinfacciarci di doversi occupare di noi figli, aspetto ancora di capirla.

Le Orsoline avevano di buono che il loro istituto si trovava proprio di fronte all’ Istituto tecnico geometri, la mia scuola. Molti aspiranti geometri si appostavano davanti alle Orsoline per vedere le ragazze entrare o uscire. In quel tratto di strada si firmavano patti, si sottoscrivevano promesse. Il giorno più bello era quello dello sciopero degli studenti. Pochi andavano in manifestazione. I più rimanevano a gironzolare attorno all’istituto magistrale ad aspettare le ragazze. Dalle Orsoline non si scioperava mai. Puntualmente le ragazze entravano e uscivano disciplinatamente alla stessa ora. Gli appostamenti erano facilitati.

Nel nostro condominio noi eravamo l’unica famiglia col padre operaio. C’erano impiegati alle poste, ferrovieri e piccoli negozianti. La piccola borghesia operosa e perbenista che per noi tre del Gaf stava diventando asfissiante.

Il nostro prof di italiano ci aveva fatto commentare per un compito in classe una canzone di un decennio prima. “Vecchia piccola borghesia, vecchia gente di casa mia, non so dire se fai più rabbia, pena, schifo o maliconia. Sei contenta se un ladro muore, se arrestano una puttana, se la parrocchia del Sacro Cuore acquista una nuova campana…” La canzone dipingeva il nostro mondo come noi non lo avevamo mai visto. I nostri padri e le nostre madri si immiserirono ai nostri occhi, il loro affaccendarsi per meschini traguardi cominciò farci storcere il naso. E fu da quel giorno che cominciammo a sognare “un orizzonte che non si ferma al tetto”. Ci rifiutavamo di ascoltare le canzonette del festival, snobbavamo le canzoni popolari, come quella che usciva da una finestra del primo piano, quella mattina.

Dove l'aria è popolare, è più facile sognare... Il nostro quartiere ci sembrava una palude, immobile, insidiosa. Una rete invisibile in cui cominciavamo ad aver paura di cadere e di rimanervi invischiati. E facevamo il verso alle nostre compagne, tutte innamorate di Eros Ramazzotti.

Adesso tu…


Quando anche Giulio e Angelo videro Eliana sfrecciare sulla moto del figo del quartiere, decisero di tornare a parlarmi e tutto avvenne con molta naturalezza. Fu allora che riprendemmo il vecchio progetto di partire insieme, noi tre, in macchina, verso il Nord Europa, a maturità conclusa. Giulio aveva appena preso la patente e suo padre aveva acconsentito a prestarci una vecchia e gloriosa Fiat 127.

‒ A patto che siate prudenti, che non facciate pazzie!


E stamattina eccoci qui scalpitanti, con Angelo che ancora non si decide ad arrivare.

‒ Apri il cofano, intanto ‒ dissi a Giulio ‒ così appena scende, si parte.

‒ Eccomi qui!

Angelo arriva con uno zaino enorme e con la sua solita faccia tosta.

‒ Ma che cazzo di bagaglio hai? ‒ gli faccio io.

Riusciamo a insaccare quel monumento
nel bagagliaio e partiamo.

La macchina sfila leggera nel silenzio della prima mattina. Il quartiere è praticamente ancora addormentato. Percorriamo il Viale dei Tigli, passiamo davanti al nostro istituto, chiuso per l’estate. Anche il portone delle Orsoline è serrato. Sorpassiamo una coppia su una grossa moto. Una fugace visione… Eliana? Un’ombra che svanisce alle nostre spalle.

Dal finestrino ad un tratto vedo, come in un cartone animato, i palazzi farsi più alti, inclinarsi verso di noi a chiuderci la strada. Le finestre come bocche e occhi aperti per intimarci di rimanere.

‒ Accelera, Giulio!

Rido come un matto, e Angelo si gira a guardarmi stralunato.

L’orizzonte si fa più lontano mano a mano che avanziamo. Anche il cielo ride. Ci sfida a raggiungerlo.

‒ Accelera, Giulio. Angelo, prendi la carta stradale. Che autostrada imbocchiamo?

martedì 31 maggio 2022

Ritorno a casa

 



Ritorno a casa


In cucina, sì, proprio in cucina, nel cuore della casa. Il dolce è lì sulla tavola a fare da tramite tra loro due. Come quando erano piccoli e si dividevano il dolce rubato dalla dispensa, appollaiati sul ramo più basso del ciliegio che solo una fragile staccionata separa ancora dal ciglio del fosso. Lei rimane con le braccia incrociate sul tavolo come non sapesse dove metterle. Le scioglie soltanto quando suo fratello le passa il cucchiaino.

‒ Ne vuoi? E spinge il vassoio verso di lei

Lisa si ritrae. Ha un vestito di cotonina a fiorellini, con una sfilza di bottoncini sul davanti. Si tiene dritta sulla sedia senza appoggiarsi allo schienale. Sospesa. Negli occhi tristezza sconfinata. Lui fissa come ipnotizzato i bottoncini del suo vestito. Non osa alzare gli occhi e guardarla in viso.

“Non capisco cosa ci sia in questo dolce. Cos’è”?

La domanda di lui la coglie di sorpresa. Vorrebbe dirgli: ma sei scemo? È il solito cheese cake, dolce di famiglia. Non te lo ricordi? Lo faceva la mamma. La mamma. Parlare con lui è faticoso, il solo vederselo davanti è quasi insostenibile.

Lui si è messo in bocca il cucchiaino più volte, il dolce è praticamente dimezzato. Già, il dolce. Ma i discorsi tra loro sono ancora taciuti. Nemmeno iniziati veramente.

“Sono qui solo perché mi hai chiamato”.

Lui posa il cucchiaino sulla tavola. Il cucchiaino luccica, tra i residui di crema bianca. Luca lo riprende nervosamente, ma gli sfugge di mano, e gli cade risuonando su pavimento. Adesso la guarda direttamente negli occhi ed è lei che abbassa lo sguardo come a trovare dentro di sé la forza di rispondere.

Ha davanti a sé un fantasma, il fantasma del fratello allegro e scanzonato di una volta.

“Vuoi sapere ancora perché l’ho fatto?”

Lei alza una mano per interromperlo. “No, zitto, non voglio sentire niente”.

Le braccia si sono strette al seno. C’è qualcosa dentro di sé che Lisa non vuol lasciar andare. Rideva Lisa quella sera, di ritorno dal cinema. Ha suonato il campanello prima di infilare le chiavi nella toppa, come d’abitudine. “Sono qui, sono tornata!” L’immagine dei suoi, riversi sul divano in salotto, la tempia di suo padre insanguinata, il petto di sua madre macchiato di sangue… E poi l’arrivo della polizia. “Signorina, cosa è successo…”

Era stato Luca a telefonare, due giorni dopo. “Sono io, venite a prendermi”.

Il carcere lo ha segnato, ma forse sarà l’età, si sorprende a pensare Lisa. Ci sentiamo tutti vecchi e stanchi. Luca ha perso i capelli prima che diventassero bianchi, ma i suoi occhi sono ancora febbricitanti, lo stesso delirio di tanti anni prima. La stessa frenesia nei gesti.

Piano, fa piano”: la voce esasperata di sua madre, quando lui entrava in casa come un ciclone e gettava per terra lo zaino con i libri, correndo al piano di sopra. Musica a gogò nella camera invasa dal fumo, e la sguardo sconfitto di sua madre che si chinava a raccattare lo zaino, il giubbino e tutto quello che Luca Pollicino seminava intorno con allegra spudoratezza.

Sì, c’era stata allegria nella loro famiglia, ma erano tempi di leggenda quelli.

“Quando arrivano i tuoi figli da scuola?”

“Oggi non torneranno a casa. Andranno dalla nonna, dall’altra nonna”

“Temevi che mi incontrassero? Che incontrassero il mostro, l’assassino dei suoi genitori?”

“Sì, loro sanno che sei in viaggio, lontano per il mondo. Anzi fanno domande curiose su di te, sui tuoi viaggi esotici.”

“Bene. Avrai parlato prima con tuo marito delle tue intenzioni.”

“Sì, è d’accordo con me”

“Vedo che non vuoi parlare, allora lo faccio io. Mi hai chiamato, sono venuto, eccomi. Ti avverto, non sono disposto a subire un altro processo.”

Sembra arreso alla vita, al suo destino di cattivo. Luca si china raccoglie il cucchiaino da terra, ci soffia sopra.

A Lisa, senza volerlo, scappa un cenno di sorriso. “Sei sempre lo stesso, te ne do uno pulito.”

“Andiamo fuori, sotto il ciliegio?”

Lui annuisce con lo sguardo perso. “Prendo un piattino, è buono questo dolce. Lo porto fuori e finisco di mangiarlo lì.”

Di nuovo. Ancora una volta loro due , Lisa e Luca, un dolce e il ciliegio. Lisa si anima, sente dentro di sé una forza, quella che per tanti anni non ha avuto. L’eco della voce di sua madre che le dice “bada a tuo fratello”. “Mamma, che cosa terribile mi stai chiedendo. Non ce la faccio.” E così che inavvertitamente gli prende la mano: “Va bene andiamo sotto il ciliegio.”

Non si chiede più cosa dirà o farà Luca, l’assassino, il reprobo, il fratello. Il ragazzino spensierato con cui ha condiviso risate e baruffe. Adesso è venuto il momento di riportarlo a casa.

Il piattino è vuoto, Luca ha raccolto fin l’ultima briciola del dolce.

Si guardano negli occhi adesso. “Vuoi rimanere un po’ con noi? So che non hai un posto dove stare.”

“Perché mi inviti a stare qui, in questa casa, proprio qui?” Giocherella col piattino, poi lo poggia a terra e rimane con le mani appoggiate sulle ginocchia a guardarlo.

Lisa sente su di sé il peso della vergogna e del dolore di lui. “Pensaci, rimani qui almeno per questa notte almeno e domani mattina ne riparliamo”

Luca china più volte la testa per dire va bene, ma le parole gli si strozzano in gola.


È mattino, la luce entra prepotentemente dalla finestra. Luca sente arrivare dal piano di sotto le voci dei bambini di Lisa che salutano. Vanno a scuola. “Ciao, mammina”. Già, ciao mamma.

In cucina lei sta rassettando, mettendo a posto il caos mattutino di tre bambini che fanno colazione “Ah, sei qui. Ti sei svegliato tardi. I bambini sono già andati”. Non gli chiede cos’ha deciso, non gli chiede niente. Aspetta che sia lui a dirle qualcosa.

“Lisa”

“Sì?”

“Ho visto che il ciliegio ha bisogno di una potatura” Deglutisce Luca, parla sottovoce. “Potrei farlo io, se vuoi.”

“Va bene” risponde piano Giulia, controllando l’affanno del cuore.


Bada a tuo fratello. Va bene, mamma.