domenica 15 gennaio 2023

La custode

 




In principio fu l’Oleandro. Mi sedusse con le coccole di fiori carnosi di un rosa intenso e sanguigno, deliziosamente oscene. Sembravano labbra dischiuse in sorrisi e fremiti. Lo crebbi in vaso sul balcone fintanto che fu abbastanza adulto da essere felicemente trapiantato sotto la rampa di accesso al condominio. In breve, sparse la sua maestà e, col suo rigoglio, sfidava l’austero muro grigio del cemento, colore che doveva essere sembrato d’avanguardia all’architetto che stava concludendo la sua carriera, firmando la costruzione di case popolari. Cemento e infissi rossi d’alluminio laccato.

Una mattina, sporgendomi, constatai che l’oleandro era scomparso: l’avevano quasi raso al suolo con la consueta maestria nell’arte della potatura, di cui i nostri condomini, giardinieri improvvisati quanto improvvidi, facevano gagliardamente mostra. Gli stessi che negli anni avevano giustiziato un meraviglioso cespuglio di rose multicolori e le gialle Forsizie che sul finire dell’inverno cominciavano a pavoneggiarsi nel prato circostante. Troppo belle, troppo invadenti: ci voleva una bella pulizia.

Fu un colpo al cuore vederne le chiome giacere a terra neglette, destinate a marcire in piena fioritura. Le vidi tristemente trascolorare, impotente e rabbiosa. Per tre anni i fusti residui rimasero sterili e spogli. Nessuno mostrò di aver letto un cartello in cui spiegavo, con tanto di link di un noto giardiniere, come potare le forsizie, affisso alla bacheca condominiale. Sapevano leggere? Non ne sono sicura ancor oggi.

Quando arrivò la Datura, lo Stramonio, la tromba del diavolo, la custodii gelosamente come un collezionista un quadro d’autore: i miei condomini non erano degni di godere della bellezza e del profumo delle bianche coppe che si schiudevano di notte, una magia che cercai invano di catturare in mille fotogrammi, tentai di cogliere ogni piccola scossa, ogni piega che si apriva , ogni infimo sussulto che sapeva di miracolo, di dono grandioso ed effimero: il giorno di vita loro concesso spargeva tanta di quella bellezza che anche tutte le altre piante del balcone sembravano sospese, partecipando all’epifania gloriosa della loro venefica compagna.

Con l’avanzare dell’estate si formarono le capsule gravide di semi e ricoperte di spine, ebbi cura di raccoglierle in tempo, prima che scoppiassero e spargessero la loro progenie sul prato sottostante. I semi stranamente avevano una spiccata somiglianza con quelli del pomodoro o dei peperoni. La bellezza, bisogna meritarsela, e le stronze che portavano a defecare i loro cani sui tristi monconi dell’oleandro non meritavano la munificenza della Datura: a loro si addiceva il fetore delle deiezioni canine non raccolte che rendevano infido il passo di chi ci fosse, per sfortuna, passato sopra.

Non saprei quante estati fa, dio come passa il tempo, rimasi incantata da alcuni alberelli dalla ricca chioma, le cui foglie gareggiavano in cromatismi verderossastri, mentre i rami disegnavano righe vinaccia sullo sfondo cobalto del cielo. Riflettevano la luce come lo smalto fresco sulle unghie dei miei piedi. Non indulgo in certe banalità, ma l’insistere della mia nipotina Smaragda (Smeraldo: ve l'ho detto che i nomi mi ipnotizzano?), l’ebbe vinta sulla mia resistenza, e le unghie furono garbatamente decorate secondo l’ultimo grido dell’ultimissima moda, a onta della vecchiaia delle mie estremità trascurate. In contrasto con la lucentezza di tronco e foglie, le infiorescenze erano rosse, ma opache, si sarebbero tramutate in grappoli di capsule spinose che sfidando la gravità si ergevano ritte e agguerrite contro il cielo.

Avrei imparato, a spese dei miei polpastrelli, che contenevano ciascuna sei grossi semi lucenti. Non sapevo come si chiamasse (che tarlo), ignoravo la sua tossicità. Ma sapevo che quei semi sarebbero stati miei.

Chiesi il permesso a Despina, mamma di Smaragda, se sapesse il nome della pianta. Le sue spalle, leggermente scrollate, risposero per lei che si meravigliava della mia curiosità.

Sono sempre stata trascinata da questa mania di conoscere i nomi delle cose, che fossero oggetti, persone, animali o piante. Mi sarebbe piaciuto essere la nomoteta dell’universo, ma rimase una fantasia che soddisfacevo con ricerche maniacali. Qualcuno ci aveva pensato per me.

Fu così che in un ozioso pomeriggio assolato, approfittando di una felice quanto precaria connessione internet, scovai la mia pianta: il Ricino. L’immagine della pianta dalle larghe foglie palmate mi rimandava alla sua duplice fama: la famosa bevanda, spauracchio dei bambini della mia epoca e ancora più famosa per l’uso vigliacco di cui mio nonno aveva parlato, raccontandomi dei porcifascisti (l’espressione è sua, la mia sarebbe ben peggiore).

Una pianta bifronte, interessante: tossica nei semi, nelle foglie, nel fusto, ma dall’olio ingeribile e talvolta benefico. Lo si dava alle puerpere, io ebbi la fortuna di berlo dopo la truce e cruenta asportazione delle tonsille. Misteriose terapie di un tempo.

Nello snocciolamento dei semi di ricino ebbi un paio di volenterosi assistenti, Smaragda e Panaiotis, a cui ingiunsi di lavarsi bene le mani; i bambini si divertivano un sacco, ridevano ad ogni ahia quando si pungevano e inseguivano i semi rotolanti che ci sfuggivano sulle mattonelle della terrazza. Ora sapevano anche loro. Le piante che danno capsule spinose sono velenose, non si toccano.

I miei ricini hanno dimora sul balcone, in questa stagione sono un po’ spiumati come l’olmo, ma in primavera confido in una bella fioritura.

Per ultimo è arrivato l’Elleboro, tossico in tutte le sue parti. Non l’ho rubato dall’isola, è arrivato come regalo da un’inconsapevole donatrice. È destino.

Piccolo, tarchiato, coriaceo. Mi assomiglia, ma io non metto fiori, posso tuttavia nuocere, ferire in modo duro con le parole che libere tracimano dalla mia bocca. Ma anche consolare.

Ora sto aspettando la Digitale.

Pare che queste piante si giovino della mia custodia, mi accettano come giardiniera, cerco di essere accogliente, sollecita, prodiga di cure. Grata. Accetto il loro segreto, la loro natura, la loro eccentrica unicità. E quando parliamo, mi sento una di loro.

Perfette nella propria essenza, io ancora in cammino per trovare la mia.

Oggi l’ubriacone del condominio, quello del piano alto, quello che quando lo incontro in ascensore mi stordisce con la puzza del suo alito, lo ha rifatto: ha segato le forsizie quasi alla radice. Proprio ora che sono vicine alla fioritura, l’imbecille.

Le foglie di Datura si sono seccate bene nel forno, le ho sbriciolate grossolanamente e chiuse in un vaso di vetro. Sembra tè non fermentato. Domani gliene regalerò un sacchetto. Gli dirò che è un tè portentoso, arrivato dalla Cina. L'esotismo fa sempre colpo sui provinciali ignoranti. Che è disintossicante, energetico. Tanto, lui di piante non ne sa un cazzo. Me n'è avanzato un po', vado a prendere un mini vasetto nel mobiletto sul balcone. Che c'era dentro prima? Forse semi di girasole o più verisimilmente semi di prezzemolo. Sì, di prezzemolo. Quest'anno è stata eletto mister veleno dai botanici.





lunedì 2 gennaio 2023

Io e il professore

 




Io e il professore

La prima volta che lui entrò in classe, si fece un silenzio glaciale, nonostante l’ottobrata barlettana consentisse alle mie compagne di indossare, sui piedi nudi, vezzosi sandali estivi. Io portavo ancora i calzini corti bianchi. Primo: sembravo di quinta elementare, niente tette, niente culo, gambe da pulcino traballante; secondo: perché non avevo ancora, né mai l’avrei avuta più tardi, l’altezza giusta per le calze velate. Una questione tecnica, alla fine.

 Le mie compagne mi sembravano tutte avvenenti: gambe lunghe, grembiuli neri slacciati da cui sbocciavano tette ardimentose e opimi fianchi di donna. E tinture nei capelli di sedicenni all’assalto del mondo maschile.

Il mio incubo fin dalla prima elementare era rimasto quello di veder spuntare Suor Stefanina che voleva trascinarmi senza scampo fuori del banco nell’inferno dell’asilo, ma non mi sono mai sentita fuori posto. Il liceo (classico) sarebbe stato il mio mondo per cinque anni, ero decisa a esplorarlo con curiosità senza farmi ingoiare nella spirale della sgobbona, a guadarlo con piacere e non con ambizione. D’altra parte l’unica gloria di cui potessi fregiarmi era consistita nell’essere mandata in giro per le classi a leggere i miei temucci e i dieci in latino alle medie; la mia prof del ginnasio mi squadrava, arricciava le labbra a culo di gallina e ingoiava bile e disappunto. I figli, e tanto meno le figlie degli operai, come facevano a tradurre in quel modo? Non era cattiva, voleva solo risolvere un enigma.

Io continuavo a giocare in strada, le mie compagne si preparavano ai veglioni al circolo Unione, (ricettacolo di tutta la borghesia che contava) e confabulavano con una delle prof., loro concittadina, sottraendo tempo alla lezione.

Il prof, dicevo. Arrivò preceduto da una fama sinistra: severo, faccia truce, implacabile. Di statura mediocre (occazzo come me!), bruttino, camminava un po’ dondolandosi sui piedi che aveva piccoli forse troppo piccoli per lui. Vestiva un abito grigio, con cravatta neutra. Sembrò ignorarci dietro le sue lenti cerchiate d’oro. Avrei imparato più tardi che era un finissimo osservatore. Ma nemmeno io ero da meno. Mi faceva ridere il suo tic: quello di storcere il collo e spostare il mento di lato bruscamente, prima di alzarsi e cominciare a spiegare. Nell’ultimo anno smise di navigare per l’aula grandissima in lungo e in largo tra i banchi e, sollevando gli occhiali si avvicinava alla finestra. 

Bisogna alzarsi in piedi per leggere il Padre Dante! Non avrebbe mai denunciato il connubio tra miopia e presbiopia avanzante.

Capii che sarebbe stata una dura lotta tra lui e me. Tra la star del liceo e una sprovveduta pulce che veniva dal paese vicino, dalla polvere della strada.

Il primo duello sotterraneo lo avemmo alla prima versione di Latino. Distribuì i compiti corretti guardando da sopra gli occhiali ciascuna di noi. Non conosceva bene i nostri nomi: nessuno allora si batteva per classi umane, si era allegramente in trentacinque o trentasei.

Ci lesse la traduzione corretta e disse che una sola traduzione aveva capito la funzione di una struttura, e lesse il mio nome. Dovetti alzarmi in piedi.

Cosa fa tuo padre?

Io rimasi stranita. Non capivo la domanda. Anzi in mezzo a figlie di primari, avvocati, presidi e altri notabili mi sentii per un attimo a disagio. Durò davvero un attimo.

Mio padre fa il muratore: la mia voce ferma e chiara attraversò l'aula. Lui incassò senza battere ciglio. 

Non parlava quasi mai di sé, della sua famiglia, cose che tutti gli studenti del mondo vogliono saper (come conferma il grande Canetti ne La lingua salvata), non accennò mai al figlio che frequentava la stessa scuola, agitandosi fuori del portone la mattina nei gruppetti di studenti in attesa d’entrare, non ci disse di essere vedovo o di essersi risposato (le barlettane non erano avare di chiacchiere).

Arrivava in classe senza guardare nessuno, noi ci acquietavamo di botto, e lui iniziava la lezione imperterrito.

C’era chi lo odiava, chi faceva finta di ascoltare, chi avrebbe studiato tutta la notte (se ne vantavano), ma tutte ne avevano terrore.

Io no. Ne ero travolta, affascinata, annientata dal suo parlare perentorio e rivelatore di bellezza. Lui divenne il mio libro. Bevevo da lui come un’assetata nel deserto, come un uccellino l’ultima goccia di rugiada. E ne parlavo a casa, riempivo la testa di mia madre di parole su di lui.

Un giorno, nell’ultimo anno, il Prof sembrò aprire un varco nella sua impenetrabilità umana. Ci disse che aveva dovuto pagare un debito alla cittadinanza: una passeggiata sul lungomare di levante con sua moglie. Sornione, rise per la prima volta di una risata repressa, ci spiegò che quando erano ancora fidanzati, qualcuno raccontava in città di averli visti a braccetto. E che adesso che erano sposati, avrebbero pubblicamente messo a tacere le male lingue su quella passeggiata mai fatta, facendola davvero.

Le barlettane si guardavano sottecchi, qualcuna con la mano alla bocca, i gomiti che si toccavano.

Io capii, non so ancora come, che il discorso sarebbe continuato.

Oggi parliamo di Pirandello!

Mi aveva condotto per mano nella scomposizione delle identità, la faccia che mostriamo e quella nascosta, la faccia che tutti vedono o credono di vedere, il vizio volerci ingabbiare in una maschera e in un ruolo. Il giudizio fallace dei paesani pettegoli. La vendetta era consumata, risolta in una beffa. Non so quanti capirono il senso alto della sua storiella.

Anni dopo in tv vidi Personaggi in cerca di autore, rividi il vedovo, la nuova moglie, in abiti scuri che passeggiavano sul lungomare, come su un palcoscenico, maschere vere, per prendersi gioco della maligna superficialità di qualcuno, per ristabilire una verità.

Il mio Prof era un genio.









































































Il mio prof era un genio.