martedì 10 agosto 2021

 


Preservare la capoccia

Non vorrei che i miei pochi lettori e le sgamate lettrici pensassero che io sono tutta nei pomodori a seccare e nei tramonti da stalkerare, porelli anche loro. Per questo ho deciso di rianimare il mio blog, da tempo negletto, e rivelare una delle delle tante professioni che mi sarebbe piaciuto esercitare, oltre quella deamicisiana nella scuola, il più dinamico scouting immobiliare.

In verità la scelta di fare l’insegnante divenne mia e solo mia quando, a dodici anni conobbi la mia insegnante delle medie, una “signorina” piccola di statura, ma così autonoma e determinata nelle sue scelte da diventare il mio modello. Mia madre approvò perché si illudeva in quel modo di preservare le virtù domestiche e nello stesso tempo sottrarmi al destino di cuocalavapiattipuliscicasafaieallevabambinimogliefidataequantaltro, con uno stipendio che mi avrebbe garantito l’indipendenza economica. Non so perché la mamma avesse questa fissa, ma credo fosse il suo desiderio inespresso e soffocato senza lamenti. Non ho mai conosciuto altra persona così capace di trarre profitto dalle condizioni più cogenti come lei, quel poco che la vita offre, diceva. Proiettò, oggi si direbbe progettò, quella strada e la calzò su noi figlie come un calzino ristretto su un piede in crescita, senza tanti complimenti. Che ci piacesse o no.

Sull’isola mi perdo dietro cartelli reali o immaginari delle case in vendita. Mi piacerebbe avere una piccola a pelo d’acqua, due camere e servizi, mica una roba da Onassis, dove stare con tutta comodità… seeee, a seccare pomodori, direbbe qualche irriverente.

L’ultima casa, oggetto delle mie farneticazioni, in realtà è una bella villa col culo sulla strada e il seno sulla spiaggia (ciao, Guccini). È sempre serrata. Due piani circondata da un lussureggiante giardino. Misteriosa. Nel giardino dorme da oltre sette anni una bella imbarcazione, il telo che la ricopre è offeso da lacerazioni profonde. Appare sempre uguale a sé stessa, talvolta una luce fioca all’interno rivela una presenza umana, così come le due auto parcheggiate negli spazi dietro la casa. Non un’anima viva che s’affaccia sulle terrazze che circondano il quadrilatero della solitudine. Una casa così mi spaventa, non ci vivrei: io vorrei una casetta chiassosa, con gli amici che verrebbero ad accamparsi, qualche amaca in giardino o sulle terrazze risolverebbero il problema dell’alloggio. E la sera chiacchiere e risate e Mithos a fiumi. Allora propendo per una piccola casa, naturalmente bianca e le finestrelle azzurre, direttamente sulla spiaggia, protetta dalle ultime tamerici (selvaggiamente eradicate altrove) col terreno intorno invaso dai gigli di mare e tanta spazzatura aliena. Per questa casa mi sono informata: oggetto di annose dispute ereditarie rimane lì a consumarsi ogni anno di più ; pare sia stata utilizzata come ristorante senza successo. E poi ce n’è un’altra più piccola, sotto il livello stradale e guardata da due gelsi come due corazzieri davanti al Quirinale (sono lì?). Mezza diroccata, dà rifugio ogni tanto a qualche misterioso personaggio che vi si accampa incurante delle porte sfondate e delle finestre vedove di ogni gelosia.

Non mi interessa la proprietà. Penso sia un peccato che tanta bellezza vada in rovina. Vorrei una legge che imponesse ai proprietari di preservare, pena il sequestro. L’isola ne è piena.

Ma siamo nel mondo libero e democratico, dove si può fare scempio e devastazione ambientale senza che nessuno intervenga.

Che faccio? Scrivo al sindaco di Samo o viriamo su un bel crowdfunding e ce la spassiamo tutti insieme?

Preservo la capoccia e abbandono ogni ricerca immobiliare?

Vada per la prima. Sta capoccia la preservo davvero, con i sogni vani e un cappellino da “donna eccellente” (ricordate Barbara Pym?) che una dannata neuropatia delle piccole fibre mi costringe a calzare. Era di un bel rosa fucsia acceso, ora per fare il pari con le dimesse casette agognate, si è sbiadito come se vi avessero sopra urinato i conigli.


domenica 24 gennaio 2021

Case parlanti

 


La casa delle madri di Daniele Petruccioli, Terrarossa edizioni, 2020


L’incipit tiene fede al titolo, ci porta immediatamente nel cuore pulsante della narrazione con i termini “casa” e “madri”. Mi piacciono i titoli che costituiscono una fulminante sintesi di tutto ciò che si dipanerà attorno, dentro e dietro due parole comuni, piane nel loro significato immediato; nel romanzo, così semanticamente pregnanti, gravide nel loro grembo dei tanti “universi” rappresentati e offerti con dovizia di dettagli al lettore.

La casa delle madri, non diversamente dalle “altre” della storia, quella dei bambini e quella delle onde, è una casa borghese, una struttura solida e articolata a seconda del tempo e degli abitanti, infine anche dei compratori. Una Casa parlante che risuona di voci, di vivi e di morti; di vecchi, di giovani e bambini, con i quali entrerà in relazione: prosopopea di notabili, saloni per ricevere, luogo di festeggiamenti e di funerali, di gioie (pochissime), di malattie e patimenti (tanti e diversificati). Tolstoj ci ha avvertito per tempo della peculiarità letteraria delle famiglie infelici.

Il narratore si pone nei confronti della casa quasi come un moderno Omero foscoliano, indugia a interrogare le ombre, a raccogliere echi, a calpestare le polveri dei pavimenti. La Casa, lo sappiamo da subito, sarà smembrata. La Casa ha (o aveva o avrà) membra e memoria.

Nella sua cucina si consumano riti fanciulleschi: le caramelle d’orzo, fatte dalla “portiera brava” per consolare i bambini dalla tristezza del lutto (è morto il nonno, la nonna lo ha preceduto, quella nonna che lo scansava per la sua puzza di fumo e di altri afrori corporei, al momento di mettersi a letto), agiscono sui lettori come me da madeleine proustiana. (Ho conosciuto anch’io quell’odore, quel vapore torrido, ho risentito quel bruciore infernale come se avessi di nuovo toccato lo zucchero caramellato, appena versato “sopra il tavolo di marmo” prima unto di olio). Così come la magia delle significazioni dei suoni consonantici della parola zucchero, mi riporta al famoso, ormai archetipico, Lo-li-ta nabokoviano.

Mentre scrivo queste note mi accorgo materialmente che la scrittura labirintica, onnivora di Petruccioli si riverbera come un sortilegio nelle mie annotazioni. Parentesi che si aprono e si chiudono quasi senza volerlo, necessarie, ineludibili.

Nel testo, lungo tutto il romanzo, le analessi e le prolessi (la cucina è ancora bianca, non sa che un giorno diventerà blu e poi più niente… pezzi di azzurro dissolti in tante case…) fanno le capriole per costruire una sorta di eterno presente, alla maniera del celeberrimo Cent’anni di solitudine; e non è un caso se il titolo provvisorio del romanzo di Marquez fu La casa.

Marquez dichiarò in un’intervista: “Volevo che tutto lo sviluppo del romanzo avesse luogo dentro la casa e che tutto quello che avveniva all'esterno fosse descritto in termini d'impatto su di essa”.

Ne La casa delle madri il narratore mette in pausa e risveglia i personaggi come un Mangiafuoco nel teatro domestico: e sì, perché la materia del narrare è incandescente, e il tempo non trascorre e si dilegua vanamente, ma persiste nei nostri occhi di lettori nella relazione continua e contigua tra passato, presente e futuro. Nell’arco di tre generazioni si consumano le vicende del Notaio e della sua famiglia, di Sarabanda, la figlia, “ribelle fallica”, Speedy, il suo ignavo bellissimo compagno perennemente in fuga, i gemelli Elia ed Ernesto, schiantati da conflitti insanabili, tormentati da un feroce odio-amore reciproco (per Elia l’ossessione del “bada a tuo fratello”, per Ernesto il senso dell’abbandono da parte del fratello sano, per entrambi l’inscindibilità di un legame che non si ferma alla biologia), le nonne Ilide e Nina e altri frequentatori occasionali. Casa e famiglia sono i due poli narrativi intrinsecamente collegati, non solo perché la filologia mi ricorda che l’osco faama comprende probabilmente (la prudenza è d’obbligo) entrambi i significati , ma perché la Casa del romanzo non è puro involucro spaziale, incide sulla vita dei personaggi e, a volte, ne determina le emozioni (valga per tutti l’episodio delle urla di paura di Ernesto nell’attraversare un corridoio lungo e stretto al buio). Inoltre la Casa (e tutte le case) è abitata da spiriti irrequieti, e non serve cambiare “la boiserie”; dopo “il ripristino del ripristino”, le quiete macerie diventeranno rovine, “mentre fuori il sole sale e scende, secondo uno schema che non ha nulla di lineare”.

La casa delle madri è un romanzo impegnativo, colto e raffinato, chiuso a qualsiasi spiraglio di grazia che non sia la parola letteraria; a questo proposito ricordo la scena di sesso a tre dalla quale, nonostante la ginnastica dei corpi, delle mani, delle lingue, non scaturisce, secondo me un piacere appagante. La narrazione è una sfida a un corpo a corpo fino all’ultima sciabolata, a cominciare dalla struttura architettonica della medesima (un labirinto che costringe a tornare sui propri passi, illuminati tuttavia dalla voce narrante per nulla mimetica, quasi onnipresente nel condurre, riflettere, spiegare) per finire al linguaggio per nulla compiacente verso le tendenze egemoni di tanta produzione odierna verso uno stile “facile”, infine poco significativo. È quella sua voce il filo robusto che conduce fuori dal groviglio della vita attraverso la finzione narrativa.