domenica 13 settembre 2020

Spaccare la roccia

 


Sono a pag. 532 del poderoso volume di racconti di Flannery O’ Connor, una scrittrice statunitense morta a soli 39 anni nel 1964. Un delizioso (pensavo) malloppo di 710 pagine, che mi avrebbe intrattenuto durante le lunghe vacanze in semi isolamento in Grecia, assieme ad altri tomi più o meno impegnativi.

Si tratta di una raccolta di trentatré racconti di varia lunghezza, che squarciano e dissezionano la società statunitense nei quarant’anni che intercorrono tra la nascita e la morte di Flannery. La chiamo per nome perché mi viene più facile. Flannery è ben più lieve suono di quell’irlandese O’ Connor. Flannery mi richiama la figura del flaneur, ma non ne conserva la soavità del sogno, la leggerezza dello sguardo, anzi. Dirige la sua osservazione verso gli abissi della società: alle perversioni educative, alle mentalità che si piegano malamente, fino al rifiuto, alle evoluzioni sociali.

Con Flannery non si sale, si scende; si scende nell’inferno del quotidiano della gente di paese, quasi sempre di campagna. 33 racconti, una sorta di cantica dantesca nei gironi della malvagità, dell’ignoranza, del pregiudizio, della violenza mascherata, della presunzione. Del disamore della gente cosiddetta normale. Del normale orrore celato nei gesti e negli atti di persone dalla vita asfittica, dove le rare prospettive si allontanano fino a diventare trappole da evitare.

Un solo racconto sarà sufficiente a dare la cifra esatta della scrittura implacabile di Flannery: Gli storpi entreranno per primi. Il primo rimando è sicuramente evangelico, gli ultimi saranno i primi, ma nel contempo stabilisce un paletto comunicativo chiarissimo, gli storpi entreranno per primi. C’è un’azione, quella dell’entrare, una modalità, quella della precedenza sugli altri. Rimane non detto il dove, elemento che incatena il lettore alla sua curiosità, alla sua voglia di capire. Un monito per gli scrittori di racconti, che si incatenano ai precetti delle scuole di scrittura senza deragliare dalle “regoline” producendo risultati afasici e deboli anche nella costruzione. Gli storpi entreranno per primi ci avverte che la narratrice sa bene dove andare, ha un focus narrativo preciso; al lettore/lettrice non resta che seguirla, affidarsi, sospendere la credulità. Pare ci dica, Flannery, di non avere fretta di capire, di non giudicare strano o eccentrico ciò che accade perché tutto verrà rivelato nel momento opportuno per chi saprà e vorrà comprendere. Diciamocelo pure: se una narrazione non ti svela nulla, non ti smuove il cervello o i sensi, non ti costringe a “vedere” l’altro da te, ad ammettere esistenze inimmaginabili, allora è perfettamente inutile, persino noioso leggere.

Fin dall’incipit abbiamo chiara l’ambientazione, i protagonisti. Il triangolo relazionale che muove tutto il racconto è formato da un sistema trinitario, il Padre Sheppard, Il Figlio Norton, e Rufus, lo Spirito malvagio e irredimibile.

Mi piace notare alcuni particolari: siamo in cucina, il padre mangia cereali inumiditi direttamente dalla scatola, il figlio sopraggiunge e si prepara la colazione. Rufus viene visto la sera prima rovistare nel cassonetto, ergo avrà fame. Norton fa colazione con una fetta di torta al cioccolato, spalmata di crema di noccioline e ketchup. Finirà per vomitare. Non vi vengono i brividi? Non notate le dissonanze? Il padre non attribuisce il vomito alla mistura orrenda che Norton ingerisce, ma al fatto che ha mangiato troppa torta (stantia) e invece il povero storpio Rufus ha fame. Apparentemente il quadretto c’è, ma sia l’assenza della madre sia le modalità della colazione ci mettono in guardia. Non siamo in uno spot pubblicitario, nessuna musichetta allegra, ma il ritornello di un padre che vorrebbe fare del figlio un bambino virtuoso e altruista e lo martella in continuazione con la sua pedagogia della bontà, dello scrupolo, del senso di colpa. Non sa nulla della sofferenza del bambino (ha perso da un anno la madre), lo redarguisce: bisogna andare avanti. E basta. Norton vive all’ombra ingombrante del padre, lo vede portare in casa Rufus che è appena uscito dal riformatorio e si è identificato nel ruolo negativo di Satana, lo vede dormire nella camera della mamma e fare scempio della biancheria gelosamente custodita nei cassetti. Un braccio di ferro tra Sheppard e Rufus sulla egemonia da esercitare su Norton. Ci si avvia verso un triplice tragico fallimento. Ogni azione viene capovolta nell’effetto contrario. Fate caso alla storia della scarpa ortopedica.

Alla fine del racconto c’è soltanto una parola che mi viene in mente: terribile! La verità è terribile. Ti atterra con la durezza del suono delle stesse lettere che la definiscono. Secca come la T, rombante come la R che accelera verso l’accento. Terribile verità. Flannery O’Connor atterra, ma non ri-suscita, affanna , ma non consola. Nemmeno quando parla della parola di Dio che Rufus mastica e ingoia, dopo aver strappato una pagina della Bibbia, come Ezechiele il miele. Rufus il malefico svela a Sheppard la falsità della sua bontà, la trappola di chi ti vorrebbe plasmare come sé stesso senza avvicinarsi davvero alle storie e al sentire altrui. Nulla va per il verso giusto, quando la folgorazione coglie Sheppard, ed è il bagliore malvagio degli occhi di Rufus a rivelarglielo, tutto è compiuto. Rufus è stato per Norton un maestro migliore di suo padre, gli ha insegnato a credere nella vita dei morti sulle stelle, dandogli motivo e slancio per un volo finale.

E tutto questo senza alcun compiacimento stilistico, con una prosa che procede affilata e precisa a dissezionare corpi e anime pietrificate. La prosa di Flannery scava imperterrita la dura superficie seguendone le crepe e le sedimentazioni per arrivare al cuore oscuro, al magma incandescente.

Domanda finale: con tutti i grandi scrittori che hanno svelato il cuore nero del loro paese, come abbiamo fatto a pensare che proprio quel paese potesse diventare un riferimento importante nelle nostre vite? Te la do io l’America, sembra dire Flannery con parole grondanti dolore e stupefazione.



giovedì 27 agosto 2020

Piccole ordinarie follie







Non ho mai sperimentato lo stato di ebbrezza, quello di vera assoluta libertà, ho sempre vissuto le mie sensazioni con moderazione, qualità che non mi arriva dal carattere notoriamente impetuoso e istintivo, ma da un lungo esercizio di controllo derivante dall’educazione ricevuta. Non rinnego nulla, credo di aver vissuto con pienezza la mia vita. Ma continuo a scoprire nuove possibilità di percezione, di immersione in esperienze sensoriali per me sorprendenti. Il risultato è la continua meraviglia, l’immersione nel mio io più profondo e ci scopro il mio lato leggero, una stupidità di bambina. Non a caso stupidità ha la stessa radice di stupore, quindi stupida a chi? In questa mia ritrovata stupidità, o meglio sarebbe stupefazione, ocaggine, istupidimento, se non suonasse così pomposamente accademico, c’entra la solitudine.
Ogni mattina incontro il mare, la spiaggia, gli alberi, gli uccelli, le pietre in solitudine. Mi prende dapprima un senso di estraneità: che ci faccio qui? Che c’entro io in tanta (stupefacente) armonia? Poi lo sguardo scivola verso l’orizzonte e mi smarrisco ulteriormente: la massa viva e palpitante delle acque del mare infinito che racconta storie ineffabili. Tutto mi parla, ma non intendo le lingue molteplici degli elementi, se non una voce di accoglienza. Non mi sento più rifiutata e comincio a parlare da sola alle tamerici, ai passerotti, alle pietre. Ad ogni cosa che incontro nella mia passeggiata, piedi in acqua, nell’ora mattutina. Non c’è nessuno, nemmeno un cane, per dire. E questa è una fortuna, altrimenti mi sentirei ridicola, sciocca o amens, fuori di testa. Ma non sono mai stata io così come sono in questi momenti miracolosi. E canto senza freni, in omaggio a una delle tante carriere che avrei voluto percorrere. Dicono che sono intonata, ho una voce di contralto che è stata la mia croce a scuola: mi scoprivano sempre quando tentavo di suggerire le risposte di una interrogazione alla mia compagna di banco, che se la stava facendo sotto e balbettava; la mia voce di contralto che un direttore d’orchestra mi esortò a coltivare perché “di voci come la sua ce ne sono ormai poche”. Chissà perché. Sua moglie, una soprano annuì e io ci credetti a quelle mie qualità canore misconosciute, pur nella consapevolezza di aver consunto le mie corde vocali nel lavoro logorante (per le corde) di insegnante. Dicevano che quando spiegavo, mi si sentiva dal piano di sotto. E allora controllo! E ancora controllo.
Tocca al mare, alla tamerice, e ai pescetti che sgusciano tra le mie gambe, ascoltare rochi gorgheggi, cantatine di arie, e lucean le stelle, all’alba vincerò, ti si fatta ‘na vesta scullata, dimmi quando tu verrai, i giorni perduti a rincorrere il tempo, e con le mani amore per le mani ti prenderò e senza dire parole nel mio mando ti porterò… ohi vita ohi vita mia… tu che mi hai preso il cuor… a mano a mano...
E rido da sola, mi prendo in giro, ma imperterrita continuo. E mi sento ebbra, fatta anch’io di acqua e di vento, di sabbia e di fronda. Chi sono io per sentirmi diversa? Canto senza curarmi di nulla, mentre qualche incauto bagnante comincia ad arrivare in spiaggia. E solo allora la mia felicità panica si interrompe troncandomi in gola l’ultimo acuto o il suo fantasma. Ma proprio adesso arrivi, incauto spiaggista? Qui non siamo su una spiaggia da abbronzatura, stattene a casa. Le urla di due bambine che si gettano fra le onde rovinano il resto.
Ma cosa stavi facendo? La voce stupita (stupefatta, istupidita, stupida?) del filosofo mi riporta alla realtà: non sono più sola. Sembrava avessi qualche problema, ma stai male?
Ridatemi la mia ebbra solitudine, razionalisti scellerati. Se bruciasse la città, da te, da te, da te (non) io correreiiiiii...


venerdì 3 luglio 2020

La terapia




Quando Liliana avvertì il dolore, lei e Gigi erano a letto. Se si poteva chiamare letto l’incerata crepitante su pile di vecchi giornali, addossato all’inferriata del giardino comunale. Liliana si toccò la pancia: le trafitture arrivavano di sorpresa, feroci e determinate come zanne di una belva assatanata.
Cominciò istintivamente a massaggiarsela con movimenti circolari. Tredici volte come le aveva suggerito Giuditta. Quella che si dava tante arie solo perché aveva un carrello e un riparo sul marciapiede davanti a una farmacia dalle cui vetrate lei seguiva un programma di medicina naturale, senza soluzione di continuità, zittito solo quando il titolare calava le serrande. Aveva rimedi per tutto, lei.
- Solo pubblicità! - aveva replicato Liliana in una delle loro conversazioni.
L’amica aveva sgranato gli occhi, sulla bocca una smorfia acida.
E da quel giorno non si erano più cagate, come aveva riferito Liliana al suo Gigi.
Il suggerimento però era aggratis, quindi lei non aveva nulla da perdere. Ripassò mentalmente le regole. Liliana faceva sempre un po’ a casaccio. Un massaggio, e da sola. Bah!

Sdraiati e mettiti una mano sul basso ventre, sotto l'ombelico si situa il centro della nostra energia! L'altra mano, di piatto, sopra lo stomaco. Respirando piano, fai un movimento come le lancette dell’orologio.

Arrivò l'attimo di tregua, le allargò il cuore e la mente. La pancia aveva smesso di ruggire. Le pieghe distese, le nervature allentate. Bene. Si voltò sul fianco e desiderò tanto riaddormentarsi. Glielo impediva il ronfare sonoro di Gigi, che al suo fianco, emanava fiotti di respiro rasposo come bitume fumante. Andava peggio quando il fiato sapeva di aceto, quello del vino scaduto da tempo, buono per lui.
Liliana non seppe se fu colpa della sinfonia sgangherata del Gigi o che altro: si ritrovò sveglia con le mani aggrappate alla pancia, le dita afferrate alla molle e grossa piega di carne.
- Gigi, svegliati!
Gigi tentò una debole resistenza, poi s’alzò. Non è che dovevano cambiarsi d’abito! Liliana estrasse dal mucchio di carabattole una bomboletta di deodorante alla rosa, rubato in una specie di bazar, e se lo spruzzò abbondantemente, sollevando la maglietta di cotone slabbrato.
- Che cazzo fai? - le disse Gigi.
- Dal medico si va in ordine, succedesse qualcosa…

All’accettazione li fecero accomodare. Liliana piegata in due sul sedile e Gigi ipnotizzato dalla visione del display sulla parete. Due o tre volte, lui si avvicinò titubante al vetro dietro il quale c’era la faccia annoiata dell’infermiera.
- Dovete aspettare! C’è chi sta peggio.
Gigi si strinse nelle spalle e ritornò da Liliana. La vide accartocciata su sé stessa. Dal groppo dei capelli lo spillone di legno sfuggiva all’architettura pericolante dell’acconciatura. Le toccò la spalla. Ne ottenne un flebile grugnito.
Finalmente l’infermiere con la sedia a rotelle la spinse per corridoi lunghissimi e deserti. Gigi gli caracollava dietro come un brocco sfiatato. Li lasciò in anticamera ad aspettare la dottoressa. Così disse l’infermiere, di aspettare.
- Occhèi - biascicò Liliana agitandosi e rischiando di cadere: un piede le si era incastrato sotto la predella. Fortuna che Gigi era lì, ogni tanto serviva anche lui.
Due ore dopo Gigi ronfava sulla barella accostata al muro, lei, sveglia, sulla carrozzella. Per distrarsi Liliana cominciò a guardarsi attorno, allucinata. La teca della posta pneumatica, le icone uomo/donna sulla porta della toilette, tre porte chiuse, un divanetto e la macchina distributrice di merendine e bibite. A fianco la macchina del caffè. Espresso, espresso macchiato, decaffeinato, non zuccherato. Cappuccino, cappuccino decaffeinato. Cappuccino al cioccolato. Ecco, un cappuccio l’avrebbe bevuto volentieri. O una camomilla? In tasca non aveva un tolino, e figurati Gigi! Un morto, con la testa all’indietro e la curva prominente dell’addome disegnata nell’aria. Gli esplorò una tasca dei pantaloni senza esito.
- Che bestia!

Liliana si assopì. Quando riaprì gli occhi, la macchina del caffè friniva, e un’infermiera occupava il suo campo visivo, impegnata ad estrarre il bicchiere di plastica, ricolmo di liquido fumante.
- Scusi, – disse Liliana - e la dottoressa?
- Arriverà, si metta tranquilla! - E scappò via come se avesse timore che Liliana potesse chiederle qualcosa, scroccarle qualcosa, per la precisione.
Liliana prese a guardare con amorosa persuasione quel ben di dio. Individuò anche i croccantini, piccoli dischi di pane abbrustolito. Di quelli che si buttano nella minestra calda e si ammorbidiscono, assorbendo il brodo. Chiuse gli occhi. Un brodo le avrebbe rimesso a posto la pancia.
Fu durante un’altra spasmodica contorsione che Liliana si illuminò. Aprì la bocca, spalancò gli occhi. Una chiave per l’erogazione dei prodotti era infilata nella fessura. Piccola, nera, mimetica, invisibile ma non per Liliana. Fece per alzarsi dalla sedia, ma non ci riuscì: le sfuggiva da sotto il sedere. Allora con entrambe le mani diede una spinta alle ruote e arrivò ai distributori.
Febbrile, estrasse la chiavetta, la reinserì e compose il numero della brioche all’albicocca. Al diavolo il mal di pancia e alla faccia dell’infermiera schifiltosa. Mangiò due brioche, un pacchetto di cracker, uno di noccioline, una bottiglia d’acqua e una coca-cola. Si spostò leggermente: un bel caffè. Poi ci aggiunse trionfante una cioccolata. Fu a quel punto che si ricordò di Gigi.
“Credito esaurito” lampeggiava chiaramente in rosso.
- Peccato - borbottò Liliana.
Mentre si scuoteva le briciole dal grembo, si accorse di sentirsi meglio. Mai stata così bene. Si mise in piedi. Un calore liquido prese a scenderle tra le gambe. Un fiume catartico. L’urina scivolava allegra, accarezzandole la pelle delle cosce, dei polpacci. Le arrivò ai talloni, allagò le scarpe scalcagnate. Liliana ebbe un attimo di sconcerto, ma si riprese subito. Tirò un profondo sospiro di sollievo, alzando le spalle e si accostò a Gigi. Lo scosse energicamente.
- Andiamo via.
Gigi aprì gli occhi. A quel comando imperioso non si poteva dire di no.

Quando la dottoressa arrivò, vide l’anticamera deserta, una sedia a rotelle e una chiazza sospetta di liquido sul pavimento, proprio davanti alla macchina del caffè.
- Ho dimenticato la mia chiavetta - disse l’infermiera sopraggiunta in quel momento.
- Capita – rispose seccata la dottoressa e sparì nell’ambulatorio.
Rimasero le luci di ghiaccio a fare compagnia al silenzio.