giovedì 27 agosto 2020

Piccole ordinarie follie







Non ho mai sperimentato lo stato di ebbrezza, quello di vera assoluta libertà, ho sempre vissuto le mie sensazioni con moderazione, qualità che non mi arriva dal carattere notoriamente impetuoso e istintivo, ma da un lungo esercizio di controllo derivante dall’educazione ricevuta. Non rinnego nulla, credo di aver vissuto con pienezza la mia vita. Ma continuo a scoprire nuove possibilità di percezione, di immersione in esperienze sensoriali per me sorprendenti. Il risultato è la continua meraviglia, l’immersione nel mio io più profondo e ci scopro il mio lato leggero, una stupidità di bambina. Non a caso stupidità ha la stessa radice di stupore, quindi stupida a chi? In questa mia ritrovata stupidità, o meglio sarebbe stupefazione, ocaggine, istupidimento, se non suonasse così pomposamente accademico, c’entra la solitudine.
Ogni mattina incontro il mare, la spiaggia, gli alberi, gli uccelli, le pietre in solitudine. Mi prende dapprima un senso di estraneità: che ci faccio qui? Che c’entro io in tanta (stupefacente) armonia? Poi lo sguardo scivola verso l’orizzonte e mi smarrisco ulteriormente: la massa viva e palpitante delle acque del mare infinito che racconta storie ineffabili. Tutto mi parla, ma non intendo le lingue molteplici degli elementi, se non una voce di accoglienza. Non mi sento più rifiutata e comincio a parlare da sola alle tamerici, ai passerotti, alle pietre. Ad ogni cosa che incontro nella mia passeggiata, piedi in acqua, nell’ora mattutina. Non c’è nessuno, nemmeno un cane, per dire. E questa è una fortuna, altrimenti mi sentirei ridicola, sciocca o amens, fuori di testa. Ma non sono mai stata io così come sono in questi momenti miracolosi. E canto senza freni, in omaggio a una delle tante carriere che avrei voluto percorrere. Dicono che sono intonata, ho una voce di contralto che è stata la mia croce a scuola: mi scoprivano sempre quando tentavo di suggerire le risposte di una interrogazione alla mia compagna di banco, che se la stava facendo sotto e balbettava; la mia voce di contralto che un direttore d’orchestra mi esortò a coltivare perché “di voci come la sua ce ne sono ormai poche”. Chissà perché. Sua moglie, una soprano annuì e io ci credetti a quelle mie qualità canore misconosciute, pur nella consapevolezza di aver consunto le mie corde vocali nel lavoro logorante (per le corde) di insegnante. Dicevano che quando spiegavo, mi si sentiva dal piano di sotto. E allora controllo! E ancora controllo.
Tocca al mare, alla tamerice, e ai pescetti che sgusciano tra le mie gambe, ascoltare rochi gorgheggi, cantatine di arie, e lucean le stelle, all’alba vincerò, ti si fatta ‘na vesta scullata, dimmi quando tu verrai, i giorni perduti a rincorrere il tempo, e con le mani amore per le mani ti prenderò e senza dire parole nel mio mando ti porterò… ohi vita ohi vita mia… tu che mi hai preso il cuor… a mano a mano...
E rido da sola, mi prendo in giro, ma imperterrita continuo. E mi sento ebbra, fatta anch’io di acqua e di vento, di sabbia e di fronda. Chi sono io per sentirmi diversa? Canto senza curarmi di nulla, mentre qualche incauto bagnante comincia ad arrivare in spiaggia. E solo allora la mia felicità panica si interrompe troncandomi in gola l’ultimo acuto o il suo fantasma. Ma proprio adesso arrivi, incauto spiaggista? Qui non siamo su una spiaggia da abbronzatura, stattene a casa. Le urla di due bambine che si gettano fra le onde rovinano il resto.
Ma cosa stavi facendo? La voce stupita (stupefatta, istupidita, stupida?) del filosofo mi riporta alla realtà: non sono più sola. Sembrava avessi qualche problema, ma stai male?
Ridatemi la mia ebbra solitudine, razionalisti scellerati. Se bruciasse la città, da te, da te, da te (non) io correreiiiiii...


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