Non
ho mai sperimentato
lo stato di ebbrezza, quello
di vera assoluta libertà,
ho sempre vissuto le mie sensazioni con moderazione, qualità che non
mi arriva dal carattere notoriamente impetuoso e istintivo, ma da un
lungo esercizio di controllo derivante dall’educazione ricevuta.
Non rinnego nulla, credo di aver vissuto con pienezza la mia vita. Ma
continuo a scoprire nuove possibilità di percezione, di immersione
in esperienze sensoriali per me sorprendenti. Il risultato è la
continua meraviglia, l’immersione nel mio io più profondo e ci
scopro il mio lato leggero, una stupidità di bambina. Non a caso
stupidità ha la stessa radice di stupore, quindi stupida a chi? In
questa mia ritrovata stupidità, o meglio sarebbe stupefazione,
ocaggine, istupidimento, se non suonasse così pomposamente
accademico, c’entra la solitudine.
Ogni
mattina incontro il mare, la spiaggia, gli alberi, gli uccelli, le
pietre in solitudine. Mi prende dapprima un senso di estraneità: che
ci faccio qui? Che c’entro io in tanta (stupefacente) armonia? Poi
lo sguardo scivola verso l’orizzonte e mi smarrisco ulteriormente:
la massa viva e palpitante delle acque del mare infinito che racconta
storie ineffabili. Tutto mi parla, ma non intendo le lingue
molteplici degli elementi, se non una voce di accoglienza. Non mi
sento più rifiutata e comincio a parlare da sola alle tamerici, ai
passerotti, alle pietre. Ad ogni cosa che incontro nella mia
passeggiata, piedi in acqua, nell’ora mattutina. Non c’è
nessuno, nemmeno un cane, per dire. E questa è una fortuna,
altrimenti mi sentirei ridicola, sciocca o amens, fuori di testa. Ma
non sono mai stata io così come sono in questi momenti miracolosi. E
canto senza freni, in omaggio a una delle tante carriere che avrei
voluto percorrere. Dicono che sono intonata, ho una voce di contralto
che è stata la mia croce a scuola: mi scoprivano sempre quando
tentavo di suggerire le risposte di una interrogazione alla
mia compagna di banco, che
se la stava facendo sotto e balbettava; la mia voce di contralto che
un direttore d’orchestra mi esortò a coltivare perché “di voci
come la sua ce ne sono ormai poche”. Chissà perché. Sua moglie,
una soprano annuì e io ci credetti a
quelle mie
qualità
canore
misconosciute,
pur nella consapevolezza di aver consunto le mie corde vocali nel
lavoro logorante (per le corde) di insegnante. Dicevano che quando
spiegavo, mi si sentiva dal piano di sotto. E allora controllo! E
ancora controllo.
Tocca
al mare, alla tamerice, e ai pescetti che sgusciano tra le mie gambe,
ascoltare rochi gorgheggi, cantatine di arie, e lucean le stelle,
all’alba vincerò, ti si fatta ‘na vesta scullata, dimmi quando
tu verrai, i giorni perduti a rincorrere il tempo, e con le mani
amore per le mani ti prenderò e senza dire parole nel mio mando ti
porterò… ohi vita ohi vita mia… tu che mi hai preso il cuor… a
mano a mano...
E
rido da sola, mi prendo in giro, ma imperterrita continuo. E mi sento
ebbra, fatta anch’io di acqua e di vento, di sabbia e di fronda.
Chi sono io per sentirmi diversa? Canto senza curarmi di nulla,
mentre qualche incauto bagnante comincia ad arrivare in spiaggia. E
solo allora la mia felicità panica si interrompe troncandomi in gola
l’ultimo acuto o il suo fantasma. Ma proprio adesso arrivi, incauto
spiaggista? Qui non siamo su una spiaggia da abbronzatura, stattene a
casa. Le urla di due bambine che si gettano fra le onde rovinano il
resto.
Ma
cosa stavi facendo? La voce stupita (stupefatta, istupidita,
stupida?) del filosofo mi riporta alla realtà: non sono più sola.
Sembrava avessi qualche problema, ma stai male?
Ridatemi
la mia ebbra solitudine, razionalisti scellerati. Se bruciasse la
città, da te, da te, da te (non) io correreiiiiii...
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