lunedì 23 luglio 2012

Fra pastella e pastetta









A volte lo studio della filologia riserva grandi sorprese. Ho finora pensato, con la convinzione di un macigno, che pastétta e pastèlla (conservo gli accenti tonici perché già questo sarebbe potuto essere indizio di errore da parte mia, ma chi non vuol vedere non vede!) fossero due sostantivi etimologicamente apparentati, ma distanti anni luce nella semantica. Apprendo tardivamente (?) che sia l’una che l’altra significano la stessa cosa. Due varianti dell’impasto semiliquido di cui rivestire verdure e frutta da tuffare nell’olio bollente per saziare occhi e stomaci di golosi commensali. Ma l’uso vince sulla regola, e pastetta per me continuerà a significare la viscosità disonesta di accordi sottobanco, cioè illeciti, a danno di qualcuno.

In questo siparietto culinario si parlerà di pastella, quella nobile, fragrante, dorata e mangereccia, non della sua variante indigesta.
Io le ho provate tutte, alla ricerca di quella più croccante, di quella che ti permettere di friggere prima di sedersi a tavola e essere sicuri che le frittelle non si ammoscino  immantinente.

Quella con farina e acqua ghiacciata
Quella con farina, olio e uova intere
Quella con farina e albume e ghiaccio tritato
Quella con farina, tuorli e un pizzico di bicarbonato o lievito istantaneo
Quella con farina di riso e albume
Quella senza uova ma con farina e lievito di birra
Quella con acqua gassata, uova, farina e … quella con la birra e tutto il resto.
Insomma, nessuna variante, secondo me, salva la frittura dallo squallido ripiego già dopo pochi minuti dall’esecuzione.

Poi arrivò la tempura nipponica, molto cool, ma assolutamente in ritardo su tutte le pastelle conosciute. Mi sembrava la scoperta dell’acqua calda!
Nel nostro paese abbiamo la brutta abitudine di innamorarci perdutamente dell’esotico. Amanti del forestiero e denigratori del nostrano. Tempura fa immediatamente metropolitano e cosmopolita, pastella ci fa ripiombare nei secoli bui dell’Italia contadina.
Io non ho paura di essere tacciata di passatista e continuerò a preferire l’italica pastella, anzi la pastella del Lazio, che vanta una tradizione insuperabile: pastella con farina e acqua calda. Sì, proprio acqua calda in cui spegnere con vigorosi colpi di frusta della semplice farina. Se ne ricava una pastella chiara, ma sufficientemente collosa per attaccarsi a tutto quello che vorrete friggere, anche filetti di pesci dalla carne soda come il merluzzo.

Provatela con i fiori di zucca: lavati, asciugati delicatamente, farciti con un pezzo di mozzarella e un filetto di acciuga. 
Provatela con le foglie di salvia per l’aperitivo. Con i fiori di sambuco, con i fiori della robinia, con i fiori del glicine. 
Il sale (o lo zucchero nel caso di frittelle dolci) soltanto prima di mangiare. Mai nella pastella ( di qualsivoglia tipologia), mai prima di servire.
Il sale affloscia, infiacchisce inesorabilmente. E date retta a me: meglio l’acqua calda.

sabato 21 luglio 2012

Caduta


Volare in tondo
A larghi giri
Come rapace ferito
Nell’imbuto del mondo
Voragine silenziosa
Irta di rocce scure.
Precipitare nel cerchio
Che si restringe vorace
Fino al culo dell’universo.

Attraversare la nullità
Infinita
Del tutto.

Cade la stella più bella
Nell’opacità densa
Del proprio destino.
Ad una ad una
Le piume delle ali
Già libere
La precedono nella discesa
E si posano pietose sul fondo
Per accoglierla
Inerme.



giovedì 12 luglio 2012

Giorni



Ci sono giorni
Che vorresti recidere
matasse ingarbugliate
in labirinti ciechi
piume morte al volo.


Ci sono giorni
che vorresti chiudere 
in gabbia di fili d’oro
e ascoltare senza posa
il loro trillo gioioso.

Intanto tessi  le trame screziate
Di abiti buoni per tutte le stagioni.


mercoledì 4 luglio 2012

Vita agra ma non troppo



Come chiedere scusa ai miei lettori (fortuna che sono meno di venticinque!) per le mie elucubrazioni esistenziali? La domanda mi prende ogni qual volta lo spettro poetico prende le forme di geremiadi  in linea con la crisi corrente. Ho pensato che una ricetta minimal, tratta dal gran libro delle tradizioni famigliari, può recuperami la simpatia di chi ha l’ardire di leggere le mie nugae. Rerum coquinariarum fragmenta, parafrasando il grande Petrarca (a cui la modernità deve l’introduzione nella lirica italiana dell’io dolente e dubbioso), e un pochino anche Apicio e il suo Res Coquinaria.
Sicché (si toscaneggia senza pudore alcuno) ho deciso di condividere una fresca ed economica prelibatezza. Piatto unico o secondo che lo si voglia considerare.


Fagiolini in fricassea


Ingredienti per 4 persone
500 gr. di fagiolini, altrimenti detti cornetti (altro non sono che fagioli non giunti a maturazione, a metà strada tra la verdura e i legumi, con ridotto contenuto calorico rispetto ai fagioli adulti e disseccati)
Uno scalogno
3 uova
Succo di 1 limone
Foglie di menta
Sale, pepe q.b.
Olio Evo

Procedimento: Mondare i fagiolini, spuntandoli da entrambe le estremità e cercare di tirare “il filo” dei lati (se sono freschi e giovani, non dovrebbero averlo). lavarli e lessarli in acqua salata. Scolare. In un tegame basso o padella fate stufare lo scalogno, tritato finemente, in poco olio (passi anche una nocciola di burro) e lasciatevi insaporire i cornetti.


 






Frattanto sbattete le uova fino a amalgamare bene tuorli e albumi, un pizzico di sale, una presa di pepe, e il succo del limone e le foglie di menta (o prezzemolo o basilico o tutto il bouquet). Noterete che le uova monteranno. Aggiungere ai fagiolini e abbassare la fiamma affinché le uova non si trasformino in frittata, ma in una crema avvolgente. Spegnere e servire, anche tiepidi vanno bene, vista la calura della stagione.
Accompagnati da qualche bruschetta, leggermente tostata, diventano più appetitosi.

Insomma, direbbe qualcuno, hai trovato il modo di introdurre un po’ di aspro anche qui. Sì, avete ragione: sono incorreggibile, incallita anima agra, ma senza pianto e stridor di denti.


Chi vince e chi perde





Mi si rimprovera spesso
Di essere competitiva.
Mai gara fu più persa di quella
Che con altri avrei ingaggiato.

Mi ha stritolato con le sue spire
Il boa zannuto del dovere.
Me ne sono adornata
Come una ballerina di fila
Tra l’invidia degli astanti ignavi.

La gara
è quella che la vita
 infingarda
elargisce come un dono.


Dipinto di Francine van Hove