A volte lo studio della filologia
riserva grandi sorprese. Ho finora pensato, con la convinzione di un macigno,
che pastétta e pastèlla (conservo gli accenti tonici perché già questo sarebbe
potuto essere indizio di errore da parte mia, ma chi non vuol vedere non vede!)
fossero due sostantivi etimologicamente apparentati, ma distanti anni luce
nella semantica. Apprendo tardivamente (?) che sia l’una che l’altra
significano la stessa cosa. Due varianti dell’impasto semiliquido di cui rivestire
verdure e frutta da tuffare nell’olio bollente per saziare occhi e stomaci di
golosi commensali. Ma l’uso vince sulla regola, e pastetta per me continuerà a
significare la viscosità disonesta di accordi sottobanco, cioè illeciti, a
danno di qualcuno.
In questo siparietto culinario si
parlerà di pastella, quella nobile, fragrante, dorata e mangereccia, non della
sua variante indigesta.
Io le ho provate tutte, alla
ricerca di quella più croccante, di quella che ti permettere di friggere prima
di sedersi a tavola e essere sicuri che le frittelle non si ammoscino immantinente.
Quella con farina e acqua ghiacciata
Quella con farina, olio e uova intere
Quella con farina e albume e
ghiaccio tritato
Quella con farina, tuorli e un
pizzico di bicarbonato o lievito istantaneo
Quella con farina di riso e albume
Quella senza uova ma con farina e
lievito di birra
Quella con acqua gassata, uova,
farina e … quella con la birra e tutto il resto.
Insomma, nessuna variante,
secondo me, salva la frittura dallo squallido ripiego già dopo pochi minuti
dall’esecuzione.
Poi arrivò la tempura nipponica, molto cool, ma assolutamente in ritardo su tutte le pastelle conosciute. Mi sembrava la scoperta dell’acqua calda!
Nel nostro paese abbiamo la
brutta abitudine di innamorarci perdutamente dell’esotico. Amanti del
forestiero e denigratori del nostrano. Tempura fa immediatamente metropolitano
e cosmopolita, pastella ci fa ripiombare nei secoli bui dell’Italia contadina.
Io non ho paura di essere
tacciata di passatista e continuerò a preferire l’italica pastella, anzi la
pastella del Lazio, che vanta una tradizione insuperabile: pastella con farina
e acqua calda. Sì, proprio acqua calda in cui spegnere con vigorosi colpi di
frusta della semplice farina. Se ne ricava una pastella chiara, ma
sufficientemente collosa per attaccarsi a tutto quello che vorrete friggere,
anche filetti di pesci dalla carne soda come il merluzzo.
Provatela con i fiori di zucca: lavati, asciugati delicatamente, farciti con un pezzo di mozzarella e un filetto di acciuga.
Provatela con le foglie di salvia per l’aperitivo. Con i fiori di sambuco, con i fiori della robinia, con i fiori del glicine.
Il sale (o lo zucchero nel caso di frittelle dolci) soltanto prima di mangiare. Mai nella pastella ( di qualsivoglia tipologia), mai prima di servire.
Il sale affloscia, infiacchisce
inesorabilmente. E date retta a me: meglio l’acqua calda.
Come scrivi di cose buone tu, nessuno mai :D
RispondiEliminaBravissima! Tutte le volte, più che di mangiare, mi fai venir voglia di cucinare perché, per come lo racconti bene tu, mi fai pensare: magari ci riesco anch'io, magari ?!
Vale, cercavo di tirarmi fuori dalla "pastella" della mia vita. Spero di non stufare ( ma questo è un altro capitolo culinario!).
RispondiEliminaIo mi diverto a leggere delle tue bontà culinarie :D
RispondiEliminaNo che non stufi mai!