domenica 10 luglio 2022

Inseguendo l'orizzonte






Fabio si sta guardando intorno e ogni tanto mi interroga con gli occhi, fa smorfie di disappunto. Stiamo aspettando il nostro amico Angelo. Ci ha gridato un ‘arrivo subito’ dalla finestra, ma sono almeno dieci minuti che siamo lì, appoggiati alla macchina, gettando uno sguardo seccato, di tanto in tanto, a quel portone che non s’apre ancora. Ci accendiamo una sigaretta e fumiamo nervosi. Le cicche, schiacciate a terra col tacco, aumentano a vista d’occhio. Si sta facendo tardi. Abbiamo messo giù una precisa tabella di marcia, e lui si fa aspettare. Pazienza, partiremo con qualche minuto di ritardo.

Siamo troppo eccitati per questo viaggio. Il nostro viaggio. Ne parlavamo già dalla quarta superiore.

‒ Ragazzi, tra un paio d’anni,‒ aveva detto Giulio ‒ faremo il giro dell’Europa.

‒ Sempre esagerato tu, a me basterebbe andar via da questo merdoso quartiere ‒ aveva commentato Angelo, in genere il più taciturno di noi. Mentre parlava aveva la mania di lisciarsi il ciuffo. Perdeva un sacco di tempo davanti allo specchio prima di ogni uscita per fissarlo con l’ultima gommina in circolazione. Noi lo prendevamo in giro per questo. Giulio ed io invece portavamo i capelli cortissimi alla marine. Era l’unica cosa che ci distingueva da lui.

Giulio, Angelo ed io, Fabio , eravamo diventati per tutti i nostri compagni quelli del GAF e con questo nome diventammo noti nel quartiere, all’oratorio, nel campo di Rugby. Il GAF. Un trio di sognatori: il primo posto nel campionato regionale di rugby, la conquista di Eliana, la ragazza più bella del liceo, l’automobile, una Cinquecento per me, un’Alfa per Giulio, una Spyder per Angelo. Lui diceva, ammiccando, che col suo ciuffo non poteva accontentarsi di nulla di meno. Quando ne parlavamo, facevamo notte sul muretto del giardino sotto il condominio dove tutti e tre abitavamo.

Ci passavamo le serate su quel muro a chiacchierare, a sparare cazzate, seguendo le volute azzurrine di fumo, soffiate fuori con spavalderia, rischiando, le prime volte, di soffocare, di rimanerci secchi. Questo accadeva soprattutto quando passava Eliana. Allora il GAF smetteva all’unisono di inspirare, le mani rimanevano in aria con la sigaretta che bruciava da sola.

Quando Eliana passava, la vita del GAF si sospendeva. Tutti e tre, imbambolati, seguivamo con gli occhi il dondolare dei suoi fianchi, il suo corpo sembrava emanava un profumo che ci rimaneva nelle narici anche dopo che lei si era allontanata, e dei suoi capelli neri e ricci non scorgevamo che una macchia indistinta. Dovevamo proprio sembrare ridicoli e tamarri.

Allora ci guardavamo e scoppiavamo in un risolino indecifrabile. Ognuno rideva per un suo motivo. Ma allora non pensavamo di ridere per la stessa ragione.

‒ Scommettiamo ‒ disse Angelo una sera ‒ Scommettiamo che con me ci sta!

Giulio gli diede una manata sulla schiena, che quasi gli fece sputare l’anima.

‒ Con te? Ma sei scemo? Cosa se ne fa una così di te, quella mira in alto!

‒ Sì, con me. Perché no? Io lo so che anche tu ci hai fatto un pensierino, di’ la verità.

Poi i due avevano guardato verso di me. ‒ Tu non dici niente?

Io avevo abbassato la testa. Mi guardavo insistentemente la punta delle scarpe. Se avessi alzato il viso, i due avrebbero capito tutto. Avrebbero capito che io dell’Eliana ero cotto marcio e che ogni sera, dopo averli lasciati, uscivo di nuovo e mi incontravo con lei ai giardini di via Oberdan, abbastanza lontano da dove abitavamo, proprio alle spalle del nostro Itg

Via Oberdan era un viale di tigli odorosi, discreti. Io ed Eliana ne avevamo scelto uno per i nostri incontri. Aveva il tronco che diramava abbastanza in basso, giusto giusto perché Eliana si appoggiasse al ramo più grosso, e io potessi mangiarla di baci, in un corpo a corpo che mi sfiniva e mi lasciava più affamato di prima e in uno stato di perenne nostalgia di ciò che ancora non avevo avuto.

Non so perché non glielo avevo detto ai miei amici. Probabilmente avevo paura che mi considerassero un traditore. Ma Eliana, con loro, non ero disposta a condividerla, com’era successo con altre ragazzine. Anzi non ero disposto a condividerla con nessuno.

Poi, una mattina Giulio e Angelo mi aspettarono davanti al portone della scuola. Non erano, come al solito, accoccolati su un gradino dello scalone di ingresso a copiare in tutta fretta il problema di fisica o a ripassare sul Bignami gli ultimi sei o sette capitoli di storia. Li vidi impettiti, rigidi e capii che avevano saputo. Sì, di me e di Eliana. Mi feci loro incontro e quando arrivai sotto, loro sputarono per terra e, senza una parola, si allontanarono.

Avevo disintegrato il GAF. Non mi diedero il tempo di spiegare. Di dire che tra me e quella smorfiosa era già tutto finito. Eliana mi aveva lasciato per uno tutto muscoli e niente cervello. Arrivava a scuola con una moto di grossa cilindrata, e le ragazze sul sellino cambiavano a una velocità incredibile. Noi lo guardavamo con un misto di invidia e disprezzo. Nel quartiere era conosciuto come sbruffone e non si sapeva come avesse trovato i soldi per quella moto. Suo padre gestiva un piccolo negozio di ferramenta, proprio sotto il nostro palazzo.

‒ Se ti vedo girare con quello lì, ti spezzo le gambe ‒ aveva tuonato mio padre dopo avermi visto parlare con lui. Mio padre parlava poco. Quando tornava dal cantiere, con addosso l’odore della calce e del cemento, si lavava in fretta e subito dopo era a tavola e, quando si mangiava, si stava zitti e attenti a non fare gesti che potevano scatenare la sua ira, quasi sempre immotivata. Almeno così sembrava a me e a mia sorella. Lei è più piccola di me, e per questo motivo che l’ira di mio padre si dirigeva quasi sempre contro di me o verso mia madre.

‒ Mi raccomando, arriva vostro padre, zitti zitti a tavola.

Più che un comando, una preghiera. Poveretta mia madre, anche lei temeva l’ira di mio padre. ‒ Che volete farci, lui è sempre stanco. Lavora come un mulo per non farci mancare niente. Anche la Domenica!

La storia che mio padre lavorasse tanto per non farci mancare niente mi innervosiva. Mi sembrava una cantilena stonata. Ci aveva messo al mondo lui. Lui aveva insistito perché io studiassi da geometra e mia sorella andasse a scuola alle magistrali, dalle Orsoline. Perché i nostri genitori continuassero a rinfacciarci di doversi occupare di noi figli, aspetto ancora di capirla.

Le Orsoline avevano di buono che il loro istituto si trovava proprio di fronte all’ Istituto tecnico geometri, la mia scuola. Molti aspiranti geometri si appostavano davanti alle Orsoline per vedere le ragazze entrare o uscire. In quel tratto di strada si firmavano patti, si sottoscrivevano promesse. Il giorno più bello era quello dello sciopero degli studenti. Pochi andavano in manifestazione. I più rimanevano a gironzolare attorno all’istituto magistrale ad aspettare le ragazze. Dalle Orsoline non si scioperava mai. Puntualmente le ragazze entravano e uscivano disciplinatamente alla stessa ora. Gli appostamenti erano facilitati.

Nel nostro condominio noi eravamo l’unica famiglia col padre operaio. C’erano impiegati alle poste, ferrovieri e piccoli negozianti. La piccola borghesia operosa e perbenista che per noi tre del Gaf stava diventando asfissiante.

Il nostro prof di italiano ci aveva fatto commentare per un compito in classe una canzone di un decennio prima. “Vecchia piccola borghesia, vecchia gente di casa mia, non so dire se fai più rabbia, pena, schifo o maliconia. Sei contenta se un ladro muore, se arrestano una puttana, se la parrocchia del Sacro Cuore acquista una nuova campana…” La canzone dipingeva il nostro mondo come noi non lo avevamo mai visto. I nostri padri e le nostre madri si immiserirono ai nostri occhi, il loro affaccendarsi per meschini traguardi cominciò farci storcere il naso. E fu da quel giorno che cominciammo a sognare “un orizzonte che non si ferma al tetto”. Ci rifiutavamo di ascoltare le canzonette del festival, snobbavamo le canzoni popolari, come quella che usciva da una finestra del primo piano, quella mattina.

Dove l'aria è popolare, è più facile sognare... Il nostro quartiere ci sembrava una palude, immobile, insidiosa. Una rete invisibile in cui cominciavamo ad aver paura di cadere e di rimanervi invischiati. E facevamo il verso alle nostre compagne, tutte innamorate di Eros Ramazzotti.

Adesso tu…


Quando anche Giulio e Angelo videro Eliana sfrecciare sulla moto del figo del quartiere, decisero di tornare a parlarmi e tutto avvenne con molta naturalezza. Fu allora che riprendemmo il vecchio progetto di partire insieme, noi tre, in macchina, verso il Nord Europa, a maturità conclusa. Giulio aveva appena preso la patente e suo padre aveva acconsentito a prestarci una vecchia e gloriosa Fiat 127.

‒ A patto che siate prudenti, che non facciate pazzie!


E stamattina eccoci qui scalpitanti, con Angelo che ancora non si decide ad arrivare.

‒ Apri il cofano, intanto ‒ dissi a Giulio ‒ così appena scende, si parte.

‒ Eccomi qui!

Angelo arriva con uno zaino enorme e con la sua solita faccia tosta.

‒ Ma che cazzo di bagaglio hai? ‒ gli faccio io.

Riusciamo a insaccare quel monumento
nel bagagliaio e partiamo.

La macchina sfila leggera nel silenzio della prima mattina. Il quartiere è praticamente ancora addormentato. Percorriamo il Viale dei Tigli, passiamo davanti al nostro istituto, chiuso per l’estate. Anche il portone delle Orsoline è serrato. Sorpassiamo una coppia su una grossa moto. Una fugace visione… Eliana? Un’ombra che svanisce alle nostre spalle.

Dal finestrino ad un tratto vedo, come in un cartone animato, i palazzi farsi più alti, inclinarsi verso di noi a chiuderci la strada. Le finestre come bocche e occhi aperti per intimarci di rimanere.

‒ Accelera, Giulio!

Rido come un matto, e Angelo si gira a guardarmi stralunato.

L’orizzonte si fa più lontano mano a mano che avanziamo. Anche il cielo ride. Ci sfida a raggiungerlo.

‒ Accelera, Giulio. Angelo, prendi la carta stradale. Che autostrada imbocchiamo?