martedì 2 luglio 2024

Il signore col carrello

 



Non vi racconterò delle varie difficoltà logistiche e personali che sto/stiamo incontrando in questo trentesimo (forse ancor più) viaggio in Grecia, “ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, dirò de l’altre cose che v’ho scorte”.

Che la citazione, scaturita inconsciamente, ex abrupto non inganni: nessuna attinenza con Dante perché la Grecia, tanto per cominciare, non è l’inferno se non per il rischio di rimanere stecchiti sotto il sole, vagando per il Pireo.

È incontrovertibile: fa il solito caldo boia, provenendo noi dalle brume del giugno padano. Le ossa intrise di umidità persistente finalmente possono asciugarsi, distendersi e scricchiolare meno. Almeno la sensazione è questa, indipendentemente dai vantaggi concreti che ne possano scaturire.

Né tanto meno è lecito pensare che io goda delle divine capacità del Poeta.

Il fatto è che la mente lavora a volte per automatismi, scavalcando l’irriverenza degli accostamenti, anche in virtù di un lessico famigliare nel quale il povero e bistrattato Dante si trovava a combattere fianco a fianco col dialetto pugliese per la supremazia sapienziale della gnomica popolare; l’autrice di tale commistione era mia madre che, pressoché analfabeta, costellava i suoi discorsi con citazioni poetiche sorprendenti.

La cosa mi faceva rimanere a bocca aperta, proprio come Dante quando, secondo la vulgata, si sorprendeva nel sentire recitare i suoi versi per le vie di Verona o di Firenze da un garzone di fornaio, che partiva con la sua gerla di pane. Qui manca la verità storica e filologica, ma le leggende non si discutono.

In realtà, la mia mamma, sottratta all’istruzione e ceduta come servetta agli zii più benestanti, non aveva avuto occasione di misurarsi con i libri né con la Commedia; la si potrebbe considerare una depositaria elettiva, una discendente ideale del fornaretto veronese o fiorentino che fosse. Ancora non so per quali vie quei versi del Poeta fossero arrivati a lei, dotando le sue parole di una nobiltà usurpata, ma non di meno legittimata dall’uso. Con quelle parole la mamma si rivestiva di insindacabilità, si dava un tono, e che tono!

Ritorno sul pezzo: vi parlerò degli incontri casuali, di quegli incontri che conservano una dolce fascinazione anche a distanza di tempo, come di altri che ho già raccontato in questo blog lasciato da un bel po’ a languire in rete.

La storia è semplice e, come dicevo, del tutto inaspettata. Nonostante l’età conservo una buona capacità di osservazione su cose e persone, sullo scenario in cui le cose accadono: non ho dimenticato la faccia del tassista che ci salutò alzando il pugno, non ho dimenticato la famiglia turca di Turul, Billur, e Timur; ho ancora ben chiaro davanti a me il grassone grecoamericano che tuonava contro lo strapotere dei negri negli USA, come non ho più dimenticato il cane Ade che ogni mattina si bagnava in mare per lenire le sue pene d’amore finché il teologo sunnominato, padrone della cagnetta, non lo convinse a desistere dai suoi assalti con una randellata proprio sulla testa; il vecchio e laido teologo, torturatore di animali che ci assalì l’anno scorso con il tosaerba e mi chiamò putana italida! Né potrò mai dimenticare la vecchia fornaia di Creta che mi prese per le mani e mi fece infilare la testa nel forno. Pensai alla vecchia strega di Hansel e Gretel e resistevo finché non capii che la signora nerovestita voleva che aspirassi il profumo del pane alla cannella, e si portò le mie mani restie al petto per farmi sentire il battito del suo cuore nell’augurarmi buon viaggio. Fu allora che imparai una delle prime parole in neo greco: Kalò taxidi. La musica di quell’augurio mi accompagna ancora, e credo lo farà per sempre. E riservo un posto speciale al partigiano di Gianina che ci raccontò dei quaranta soldati italiani uccisi e buttati nel lago dai Tedeschi. E Jorgos con la sua gavetta italiana diventata un cesto di fichi per noi? Le emozioni spesso sono lo strumento migliore per capire se stessi e gli altri.


Adesso lo so, so bene che il problema della mia scrittura non sono le povere citazioni mie o di mia madre, ma la quantità di storie da cui sono sopraffatta e che ho cercato malamente di raccontare nel mio blog: funziona come un caleidoscopio. Ad ogni giratina un’immagine, un mosaico colorato che si compone miracolosamente nel combaciare delle schegge, dei loro contorni; ad ogni pagina un incontro marchiato come la lettera scarlatta nei miei sensi e nei miei sentimenti.

Cosa sarei senza le piccole storie che racconto? Sono le storie che mi rivelano a me stessa e al mondo, se solo il mondo avesse orecchie e occhi aperti sulla mia insignificante esistenza. Gli incontri e le storie hanno contribuito a definire il mio pensiero, a rafforzare alcune convinzioni e a ripudiarne altre.

Sono nata alla scrittura come “contastorie” e rivendico questa mia identità costruita grazie al contributo di chiunque io abbia incontrato.


Mi sono persa nel divagare e rischio di dimenticare la storia semplice a cui accennavo.

Non è difficile per le vie animate del Pireo imbattersi in mendicanti, bambini gitani, adulti locali o di difficile identificazione: tutti tendono la mano, chiedono monete in modo querulo, talvolta con toni aggressivi. Ma il signore anziano, quasi ripiegato su stesso su una panchina, non chiede. È seduto con lo sguardo perso nel vuoto, tenendo una mano sul carrello sgangherato in cui tiene le sue cose. Fa molto caldo, siamo affaticati anche noi. Il filosofo mi sussurra di dargli qualcosa. Sono reticente, gli faccio notare che lui non tende la mano, potrebbe offendersi. Ci avviciniamo con cautela, io ho racimolato alcune monete dal mio borsellino che piange sempre miseria, nel senso che pagando tutto con carta, spesso non disponiamo di contante. Lo saluto in greco, chiamandolo signore. Lui alza il viso verso di me, io mi impappino, le monete scivolano e rotolano sul marciapiede. Le raccolgo e gliele metto in mano. Italiana! Mi dice sorridendo. E comincia a parlarmi, scegliendo con cura le parole, piano piano, come ripescandole da un pozzo profondo. Ha la faccia improvvisamente felice.

Cosa avreste fatto voi non saprei, io gli ho chiesto come mai parlasse la mia lingua. Si accende il mio interesse, e anche quello del filosofo che intanto si è avvicinato.

Così veniamo a conoscenza di una storia minima, riassunto pudico di un’altra più grande e forse non così semplice. Una storia che procede per salti, probabili censure. Il sorriso non lo abbandona mai, sembra assaporare una felicità lontana: i miei genitori erano italiani, il mio cognome è Vitali e vengo da Ravenna. E comincia a descrivermi la città e i suoi monumenti.

Ci congeda in fretta, ci ripete che per lui è stato un grande piacere parlare con noi. Non sappiamo fare altro che sorridere come ebeti e andarcene.

Ci siamo lambiccati nel ricostruire una storia impossibile. A volte succede che ci sono storie che non si possono raccontare del tutto, bisogna accontentarsi dell’incontro. Mi giro indietro a guardarlo. Ha ripreso la sua posizione rattrappita, la mano sul carrello, gli occhi rivolti alle mattonelle del marciapiede. Spero di non aver aperto in lui la voragine di ricordi dolorosi, di non aver sparso sale su ferite ancora sanguinanti.

È una storia che forse non ha morale, si è consumata in pochi minuti, un’istantanea che rimarrà in fondo alla mia mente, svaporata nella calura di un mezzogiorno infuocato al Pireo.




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