domenica 15 gennaio 2023

La custode

 




In principio fu l’Oleandro. Mi sedusse con le coccole di fiori carnosi di un rosa intenso e sanguigno, deliziosamente oscene. Sembravano labbra dischiuse in sorrisi e fremiti. Lo crebbi in vaso sul balcone fintanto che fu abbastanza adulto da essere felicemente trapiantato sotto la rampa di accesso al condominio. In breve, sparse la sua maestà e, col suo rigoglio, sfidava l’austero muro grigio del cemento, colore che doveva essere sembrato d’avanguardia all’architetto che stava concludendo la sua carriera, firmando la costruzione di case popolari. Cemento e infissi rossi d’alluminio laccato.

Una mattina, sporgendomi, constatai che l’oleandro era scomparso: l’avevano quasi raso al suolo con la consueta maestria nell’arte della potatura, di cui i nostri condomini, giardinieri improvvisati quanto improvvidi, facevano gagliardamente mostra. Gli stessi che negli anni avevano giustiziato un meraviglioso cespuglio di rose multicolori e le gialle Forsizie che sul finire dell’inverno cominciavano a pavoneggiarsi nel prato circostante. Troppo belle, troppo invadenti: ci voleva una bella pulizia.

Fu un colpo al cuore vederne le chiome giacere a terra neglette, destinate a marcire in piena fioritura. Le vidi tristemente trascolorare, impotente e rabbiosa. Per tre anni i fusti residui rimasero sterili e spogli. Nessuno mostrò di aver letto un cartello in cui spiegavo, con tanto di link di un noto giardiniere, come potare le forsizie, affisso alla bacheca condominiale. Sapevano leggere? Non ne sono sicura ancor oggi.

Quando arrivò la Datura, lo Stramonio, la tromba del diavolo, la custodii gelosamente come un collezionista un quadro d’autore: i miei condomini non erano degni di godere della bellezza e del profumo delle bianche coppe che si schiudevano di notte, una magia che cercai invano di catturare in mille fotogrammi, tentai di cogliere ogni piccola scossa, ogni piega che si apriva , ogni infimo sussulto che sapeva di miracolo, di dono grandioso ed effimero: il giorno di vita loro concesso spargeva tanta di quella bellezza che anche tutte le altre piante del balcone sembravano sospese, partecipando all’epifania gloriosa della loro venefica compagna.

Con l’avanzare dell’estate si formarono le capsule gravide di semi e ricoperte di spine, ebbi cura di raccoglierle in tempo, prima che scoppiassero e spargessero la loro progenie sul prato sottostante. I semi stranamente avevano una spiccata somiglianza con quelli del pomodoro o dei peperoni. La bellezza, bisogna meritarsela, e le stronze che portavano a defecare i loro cani sui tristi monconi dell’oleandro non meritavano la munificenza della Datura: a loro si addiceva il fetore delle deiezioni canine non raccolte che rendevano infido il passo di chi ci fosse, per sfortuna, passato sopra.

Non saprei quante estati fa, dio come passa il tempo, rimasi incantata da alcuni alberelli dalla ricca chioma, le cui foglie gareggiavano in cromatismi verderossastri, mentre i rami disegnavano righe vinaccia sullo sfondo cobalto del cielo. Riflettevano la luce come lo smalto fresco sulle unghie dei miei piedi. Non indulgo in certe banalità, ma l’insistere della mia nipotina Smaragda (Smeraldo: ve l'ho detto che i nomi mi ipnotizzano?), l’ebbe vinta sulla mia resistenza, e le unghie furono garbatamente decorate secondo l’ultimo grido dell’ultimissima moda, a onta della vecchiaia delle mie estremità trascurate. In contrasto con la lucentezza di tronco e foglie, le infiorescenze erano rosse, ma opache, si sarebbero tramutate in grappoli di capsule spinose che sfidando la gravità si ergevano ritte e agguerrite contro il cielo.

Avrei imparato, a spese dei miei polpastrelli, che contenevano ciascuna sei grossi semi lucenti. Non sapevo come si chiamasse (che tarlo), ignoravo la sua tossicità. Ma sapevo che quei semi sarebbero stati miei.

Chiesi il permesso a Despina, mamma di Smaragda, se sapesse il nome della pianta. Le sue spalle, leggermente scrollate, risposero per lei che si meravigliava della mia curiosità.

Sono sempre stata trascinata da questa mania di conoscere i nomi delle cose, che fossero oggetti, persone, animali o piante. Mi sarebbe piaciuto essere la nomoteta dell’universo, ma rimase una fantasia che soddisfacevo con ricerche maniacali. Qualcuno ci aveva pensato per me.

Fu così che in un ozioso pomeriggio assolato, approfittando di una felice quanto precaria connessione internet, scovai la mia pianta: il Ricino. L’immagine della pianta dalle larghe foglie palmate mi rimandava alla sua duplice fama: la famosa bevanda, spauracchio dei bambini della mia epoca e ancora più famosa per l’uso vigliacco di cui mio nonno aveva parlato, raccontandomi dei porcifascisti (l’espressione è sua, la mia sarebbe ben peggiore).

Una pianta bifronte, interessante: tossica nei semi, nelle foglie, nel fusto, ma dall’olio ingeribile e talvolta benefico. Lo si dava alle puerpere, io ebbi la fortuna di berlo dopo la truce e cruenta asportazione delle tonsille. Misteriose terapie di un tempo.

Nello snocciolamento dei semi di ricino ebbi un paio di volenterosi assistenti, Smaragda e Panaiotis, a cui ingiunsi di lavarsi bene le mani; i bambini si divertivano un sacco, ridevano ad ogni ahia quando si pungevano e inseguivano i semi rotolanti che ci sfuggivano sulle mattonelle della terrazza. Ora sapevano anche loro. Le piante che danno capsule spinose sono velenose, non si toccano.

I miei ricini hanno dimora sul balcone, in questa stagione sono un po’ spiumati come l’olmo, ma in primavera confido in una bella fioritura.

Per ultimo è arrivato l’Elleboro, tossico in tutte le sue parti. Non l’ho rubato dall’isola, è arrivato come regalo da un’inconsapevole donatrice. È destino.

Piccolo, tarchiato, coriaceo. Mi assomiglia, ma io non metto fiori, posso tuttavia nuocere, ferire in modo duro con le parole che libere tracimano dalla mia bocca. Ma anche consolare.

Ora sto aspettando la Digitale.

Pare che queste piante si giovino della mia custodia, mi accettano come giardiniera, cerco di essere accogliente, sollecita, prodiga di cure. Grata. Accetto il loro segreto, la loro natura, la loro eccentrica unicità. E quando parliamo, mi sento una di loro.

Perfette nella propria essenza, io ancora in cammino per trovare la mia.

Oggi l’ubriacone del condominio, quello del piano alto, quello che quando lo incontro in ascensore mi stordisce con la puzza del suo alito, lo ha rifatto: ha segato le forsizie quasi alla radice. Proprio ora che sono vicine alla fioritura, l’imbecille.

Le foglie di Datura si sono seccate bene nel forno, le ho sbriciolate grossolanamente e chiuse in un vaso di vetro. Sembra tè non fermentato. Domani gliene regalerò un sacchetto. Gli dirò che è un tè portentoso, arrivato dalla Cina. L'esotismo fa sempre colpo sui provinciali ignoranti. Che è disintossicante, energetico. Tanto, lui di piante non ne sa un cazzo. Me n'è avanzato un po', vado a prendere un mini vasetto nel mobiletto sul balcone. Che c'era dentro prima? Forse semi di girasole o più verisimilmente semi di prezzemolo. Sì, di prezzemolo. Quest'anno è stata eletto mister veleno dai botanici.





lunedì 2 gennaio 2023

Io e il professore

 




Io e il professore

La prima volta che lui entrò in classe, si fece un silenzio glaciale, nonostante l’ottobrata barlettana consentisse alle mie compagne di indossare, sui piedi nudi, vezzosi sandali estivi. Io portavo ancora i calzini corti bianchi. Primo: sembravo di quinta elementare, niente tette, niente culo, gambe da pulcino traballante; secondo: perché non avevo ancora, né mai l’avrei avuta più tardi, l’altezza giusta per le calze velate. Una questione tecnica, alla fine.

 Le mie compagne mi sembravano tutte avvenenti: gambe lunghe, grembiuli neri slacciati da cui sbocciavano tette ardimentose e opimi fianchi di donna. E tinture nei capelli di sedicenni all’assalto del mondo maschile.

Il mio incubo fin dalla prima elementare era rimasto quello di veder spuntare Suor Stefanina che voleva trascinarmi senza scampo fuori del banco nell’inferno dell’asilo, ma non mi sono mai sentita fuori posto. Il liceo (classico) sarebbe stato il mio mondo per cinque anni, ero decisa a esplorarlo con curiosità senza farmi ingoiare nella spirale della sgobbona, a guadarlo con piacere e non con ambizione. D’altra parte l’unica gloria di cui potessi fregiarmi era consistita nell’essere mandata in giro per le classi a leggere i miei temucci e i dieci in latino alle medie; la mia prof del ginnasio mi squadrava, arricciava le labbra a culo di gallina e ingoiava bile e disappunto. I figli, e tanto meno le figlie degli operai, come facevano a tradurre in quel modo? Non era cattiva, voleva solo risolvere un enigma.

Io continuavo a giocare in strada, le mie compagne si preparavano ai veglioni al circolo Unione, (ricettacolo di tutta la borghesia che contava) e confabulavano con una delle prof., loro concittadina, sottraendo tempo alla lezione.

Il prof, dicevo. Arrivò preceduto da una fama sinistra: severo, faccia truce, implacabile. Di statura mediocre (occazzo come me!), bruttino, camminava un po’ dondolandosi sui piedi che aveva piccoli forse troppo piccoli per lui. Vestiva un abito grigio, con cravatta neutra. Sembrò ignorarci dietro le sue lenti cerchiate d’oro. Avrei imparato più tardi che era un finissimo osservatore. Ma nemmeno io ero da meno. Mi faceva ridere il suo tic: quello di storcere il collo e spostare il mento di lato bruscamente, prima di alzarsi e cominciare a spiegare. Nell’ultimo anno smise di navigare per l’aula grandissima in lungo e in largo tra i banchi e, sollevando gli occhiali si avvicinava alla finestra. 

Bisogna alzarsi in piedi per leggere il Padre Dante! Non avrebbe mai denunciato il connubio tra miopia e presbiopia avanzante.

Capii che sarebbe stata una dura lotta tra lui e me. Tra la star del liceo e una sprovveduta pulce che veniva dal paese vicino, dalla polvere della strada.

Il primo duello sotterraneo lo avemmo alla prima versione di Latino. Distribuì i compiti corretti guardando da sopra gli occhiali ciascuna di noi. Non conosceva bene i nostri nomi: nessuno allora si batteva per classi umane, si era allegramente in trentacinque o trentasei.

Ci lesse la traduzione corretta e disse che una sola traduzione aveva capito la funzione di una struttura, e lesse il mio nome. Dovetti alzarmi in piedi.

Cosa fa tuo padre?

Io rimasi stranita. Non capivo la domanda. Anzi in mezzo a figlie di primari, avvocati, presidi e altri notabili mi sentii per un attimo a disagio. Durò davvero un attimo.

Mio padre fa il muratore: la mia voce ferma e chiara attraversò l'aula. Lui incassò senza battere ciglio. 

Non parlava quasi mai di sé, della sua famiglia, cose che tutti gli studenti del mondo vogliono saper (come conferma il grande Canetti ne La lingua salvata), non accennò mai al figlio che frequentava la stessa scuola, agitandosi fuori del portone la mattina nei gruppetti di studenti in attesa d’entrare, non ci disse di essere vedovo o di essersi risposato (le barlettane non erano avare di chiacchiere).

Arrivava in classe senza guardare nessuno, noi ci acquietavamo di botto, e lui iniziava la lezione imperterrito.

C’era chi lo odiava, chi faceva finta di ascoltare, chi avrebbe studiato tutta la notte (se ne vantavano), ma tutte ne avevano terrore.

Io no. Ne ero travolta, affascinata, annientata dal suo parlare perentorio e rivelatore di bellezza. Lui divenne il mio libro. Bevevo da lui come un’assetata nel deserto, come un uccellino l’ultima goccia di rugiada. E ne parlavo a casa, riempivo la testa di mia madre di parole su di lui.

Un giorno, nell’ultimo anno, il Prof sembrò aprire un varco nella sua impenetrabilità umana. Ci disse che aveva dovuto pagare un debito alla cittadinanza: una passeggiata sul lungomare di levante con sua moglie. Sornione, rise per la prima volta di una risata repressa, ci spiegò che quando erano ancora fidanzati, qualcuno raccontava in città di averli visti a braccetto. E che adesso che erano sposati, avrebbero pubblicamente messo a tacere le male lingue su quella passeggiata mai fatta, facendola davvero.

Le barlettane si guardavano sottecchi, qualcuna con la mano alla bocca, i gomiti che si toccavano.

Io capii, non so ancora come, che il discorso sarebbe continuato.

Oggi parliamo di Pirandello!

Mi aveva condotto per mano nella scomposizione delle identità, la faccia che mostriamo e quella nascosta, la faccia che tutti vedono o credono di vedere, il vizio volerci ingabbiare in una maschera e in un ruolo. Il giudizio fallace dei paesani pettegoli. La vendetta era consumata, risolta in una beffa. Non so quanti capirono il senso alto della sua storiella.

Anni dopo in tv vidi Personaggi in cerca di autore, rividi il vedovo, la nuova moglie, in abiti scuri che passeggiavano sul lungomare, come su un palcoscenico, maschere vere, per prendersi gioco della maligna superficialità di qualcuno, per ristabilire una verità.

Il mio Prof era un genio.









































































Il mio prof era un genio.

mercoledì 5 ottobre 2022

Pancia d'asino (di dubbi e sconcerto)

 


Permettetemi di postare alcune incerte
riflessioni su un romanzo letto questa estate. Il mio testo è diviso in due parti: la prima stesa durante la lettura, la seconda alla fine della stessa. Spero che altri abbiano letto questo piccolo romanzo nella speranza di confrontarmi. Il turpiloquio non è mio, cito semplicemente. Se dovesse disturbarvi, potete eliminare il post.

Sto leggendo un breve romanzo che, secondo la traduttrice, dovrebbe restare nell'animo. 146 pagine scarne in tutto. Molti gli spazi bianchi, compreso numerose pagine finali per ragioni editoriali.

Sono a pag. 90 e non si muove nulla. Vita quotidiana ed erotica di due bambine, in età scolare in un preciso Barrio, avverte la quarta.

A me sembra impossibile che una bambina possa avere quella consapevolezza, come il desiderio di entrare nel “culo” e nel “corpo” dell'amica e compagna di avventure. Ma non potrei giurarlo.

Un libro acchiappa lettori pruriginosi? Si cerca il target per vendere?

Salutato come novità, a me sembra invece che, rispetto al tema infanzia e crescita, abbia degli illustri precedenti in scrittori di ben più grande calibro. Penso al meraviglioso libro di Ray Bradbury, Un' estate incantata.

Forse sarà stata una novità per la letteratura canaria? Oppure la novità è da ricercare nel linguaggio privo di qualsiasi censura o filtro? Non c' è trama, non c'è sviluppo tranne che nel capitolo finale.

La narrazione appare poco credibile, ripetitiva, senza prospettive; nutro il dubbio che l’adulta voce dell’autrice si sia sovrapposta per esasperare e rendere più appetibile una mera cronaca.

Quindi una cronaca legata alla vita del barrio e all'amicizia tra due bambine, se di amicizia si può parlare. A me pare che l' amicizia sia invece un innamoramento totale della protagonista, succube della personalità dell’amica Isora. Della prima non sappiamo il nome, Isora invece scritto ora in maiuscolo, ora in minuscolo campeggia in tutto il racconto: sfrontata, caparbia, ostinata, avventurosa. Non so se arriverò alla fine, vincendo la noia di una ripetitività narrativa, ambientale, terminologica assai defatigante.

Con tutto il rispetto per il gran lavoro della traduttrice che ha scritto una nota esplicativa alla fine del racconto. E che abbia sentito questa esigenza è di per sé significativo.

Magari un piccolo glossario avrebbe aiutato a capire. Ci sono termini che sfuggono alla comprensione.

Il libro è Pancia d' asino di Andrea Abreu, Ponte alle Grazie.


Sono arrivata alla fine.

Mi sono convinta che il racconto è estetizzante a suo modo, che proceda da una costruzione fatta più per stupire, negando ogni aspetto di ingenuità dell'infanzia e con riflessioni non alla portata dell'esperienza e della capacità di astrazione dei bambini e bambine di quella età.

Non so se la mia impressione possa supportata dalle scienze psicologiche e sociali, ma tutto mi sembra esagerato per costruire un mondo mitico, folkloristico. Un esempio: due bambine si incontrano (non Isora), l' una propone di giocare, finiscono per mordersi reciprocamente la "patata", il termine fica è riservato solo a Isora. Strusciarsi, cioè masturbarsi, è la norma. Hanno le "barbi", ma i giocattoli non costituiscono il loro strumento di gioco, prevalgono gli strusciamenti. È pur vero che in certe realtà si cresce in fretta, ma il racconto non dà spazio alla crescita, registra ciò che accade nel momento e stop.

Assenza di madri e padri, una è morta, bambine affidati alle nonne, alle zie, alle vicine. I maschi adulti non esistono proprio come genitori. Non sono poveri, hanno la tv, il "gemboy", i panini al formaggio e prosciutto, ma vivono ai margini della città e del mondo dorato dei turisti, dei “griturismi", attività che permette la sopravvivenza di molte famiglie, ma ne scompiglia la vita. Le piccole non hanno regole, vivono selvaticamente come il cane Sinson, "cacano" e "pisciano" dove si trovano, come lui; le bambine vanno a scuola saltuariamente, frequentano il corso di informatica solo per chattare e provocare l' interlocutore che non aspetta altro che mostrare un enorme pisello senza che il maestro se ne accorga o le guidi nel lavoro.

Non c' è traccia di educazione sentimentale o sessuale, ma nei discorsi delle adulte le bambine sentono spettegolare le zie, le nonne, su quindicenni già incinte. Sanno cosa succede, ma ne ignorano il perché, chiuse nel loro mondo di desideri spiccioli, come andare al mare.

Sognano di uscire dal barrio, ma ne sono prigioniere: un elemento questo che riporta paradossalmente all’unica nota di credibilità. La conclusione è tragica, fulminante. Del resto i sogni dell' infanzia spesso sono contraddetti dalla realtà della vita. Si cresce attraverso il dolore indicibile che spezza e annienta.

Se doveste provare a leggerlo, mi piacerebbe conoscere le vostre impressioni.

Non mi ha convinta per nulla.






Noterelle su Il lavatoio di Sophie Dahl

 



Mi era stato detto: ti appassionerà, vedrai. Non avevo motivi pregiudiziali per dubitare. E direi che è una buona disposizione cognitiva ed emozionale per iniziare a leggere un libro.

In effetti l’incipit del romanzo in questione, Il lavatoio di Sophie Dahl, accompagna, dispone, presenta i personaggi (che io ho denominato Lui e Lei, rispettando l’avvicendamento dei capitoli): un uomo, alla fine della giornata lavorativa vede alla tv un volto di donna ("appuntito": è caratterizzante e ripetuto) che arriverà a Nogent- le Rotrou per presentare un libro in cui parlerà della figlia sedicenne morta.

L’operaio giardiniere, ex ergastolano, riconosce in quella signora la figlia della donna che lui aveva massacrato con quarantuno coltellate, dopo averla violentata con una pala da neve in una notte di gennaio.

Roba forte, roba pesante.

L’aria è di truce tragedia (la tragedia greca verrà citata nel corso del romanzo a svelare un côté colto ed erudito), ma non la vediamo in atto. Sospesa sulle nostre teste, non si realizza nella narrazione.

Ci si addentra in un territorio oscuro, fatto di morti, di fantasmi, di “cloaca, di dolore putrido, di amnesia forzata, di confusa rimozione”; sono le parole della voce narrante che sembrerebbe identificarsi nella convergenza tra auctor e agens.

 Chi scrive ha vissuto realmente quella esperienza, e decide che il “Lui” sarà quindi il giardiniere municipale. Per liberarsi della zavorra della memoria scriverà le pagine che seguono: di qui il Il lavatoio; nulla a che vedere col luogo della tradizione contadina d’antan, il lavatoio come luogo di pulizia e candeggio, di canti e chiacchiere incrociate di donne al lavoro, con le maniche rimboccate e i grembiuli bagnati, chine sulle “assi” di legno o di pietra a strofinare vigorosamente i panni; ma una risorsa della finzione per giungere a un’auspicata catarsi, come nella tragedia, appunto.

Nel racconto si snocciola la vita quotidiana del giardiniere, il suo cibo, il suo lavoro, la sua unica amicizia con Gilbert, il capo; di lui sappiamo quasi tutto, degli acquisti alimentari a Ma vie bio, del suo essere vegetariano, delle sue notti di sballo, del suo rifugiarsi nel Traxène (stesso tranquillante di lei, la figlia dell’assassinata) per fugare le ombre; di “Lei” sappiamo molto meno: è insieme persona e personaggio, e le due figure confondono il lettore. 

Gli interventi dirigistici sui personaggi (“Il tizio che ha ucciso mia madre può tranquillamente fare il giardiniere in un romanzo”, “gli do la mia lingua, il mio amore per i fiori e la mia simpatia per le cittadine di provincia”, “gli invento un collega affabile”, “ha diritto persino a un Microonde”) fanno smarrire il filo della narrazione che diventa più fluida verso la fine, ma anche lì per poco.

La narrazione è cucita male, frammentaria, non mantiene quello che promette.

I due si incontreranno in libreria: lui ha letto il libro e va al firmacopie; Lei prende dalle sue mani (che non si sfiorano) la copia e gliela restituisce, non si sa nemmeno se abbia firmato. Siamo in attesa dell’evento risolutivo, invece nulla.

 L’unico episodio rimarchevole e denso di promesse (su cui conviene tornare) è quello dell’immersione del giardiniere (una morte cercata? un’espiazione fallita? ) nella polvere del tiglio fatto a pezzi e polverizzato; ma anche qui nulla si conclude: il giardiniere si scuote dalla polvere e va via.

Da dove è arrivata la sua violenza? Da che cosa è scaturita la sua efferata crudeltà? Vive il presente quasi con gratitudine verso chi lo vuole riabilitato, ma il passato rimane celato; annegato nelle sbornie e nei tranquillanti, intriso del vomito che macchia la “panoplia” (termine ripetuto come anche altri), il mucchio di panni in cui è avvoltolato durate il sonno, tutto vestito.

Che senso ha il tutto? Ci sono intenzioni non esplicitate col racconto. Chi legge si trova davanti a un armadio con molti cassetti: apre uno, e poi un altro, un altro… senza poter stabilire con immediatezza il nesso.

La lettura è faticosa, c’è qualcosa (forse l’enfasi del linguaggio) che impedisce l’empatia o anche solo la conoscenza dei perché e dei percome.

Se la letteratura, la finzione, è un lavatoio, viene da dire che l’autrice ha messo in azione una lavatrice forse sbagliando tempi, temperature e programma. Apri l’oblò e ti trovi un bucato multicolore, e non capisci dove hai sbagliato, pur avendo usato l’acchiappa colore.

C’è un eccesso di stratagemmi stilistici, le varie epigrafi/citazioni letterarie sparse nelle pagine o l’elenco di fiori e piante prima e dopo una pagina bianca, il diverso carattere grafico dei capitoli (uno per Lui, uno per Lei).

La storia viene fuori a rigurgiti, spezzata, interrotta, ripresa. Capisco il dilemma della traduttrice, lei definisce il romanzo “corale”. Io vedo solo il protagonismo di una sola “voce”, pretenziosa; leggo quasi con fastidio la dichiarazione della protagonista sul depistaggio messo in atto nella scrittura (ne parla col libraio): “io provo a dirigerli verso una terza soluzione. Il passo di lato, il terzo tempo del valzer, quello che zoppica un po’”. Perché? La vertigine che ne consegue è sterile. E il valzer è quello degli ignari moscerini/lucciole, un “fenomenoche tutti gli astanti alla presentazione presagiscono (anche loro rimarranno a bocca asciutta) e che chiude (simbolicamente? liricamente?) una storia attesa e mai raccontata.

Stavolta, e con dispiacere, è un NO.




domenica 10 luglio 2022

Inseguendo l'orizzonte






Fabio si sta guardando intorno e ogni tanto mi interroga con gli occhi, fa smorfie di disappunto. Stiamo aspettando il nostro amico Angelo. Ci ha gridato un ‘arrivo subito’ dalla finestra, ma sono almeno dieci minuti che siamo lì, appoggiati alla macchina, gettando uno sguardo seccato, di tanto in tanto, a quel portone che non s’apre ancora. Ci accendiamo una sigaretta e fumiamo nervosi. Le cicche, schiacciate a terra col tacco, aumentano a vista d’occhio. Si sta facendo tardi. Abbiamo messo giù una precisa tabella di marcia, e lui si fa aspettare. Pazienza, partiremo con qualche minuto di ritardo.

Siamo troppo eccitati per questo viaggio. Il nostro viaggio. Ne parlavamo già dalla quarta superiore.

‒ Ragazzi, tra un paio d’anni,‒ aveva detto Giulio ‒ faremo il giro dell’Europa.

‒ Sempre esagerato tu, a me basterebbe andar via da questo merdoso quartiere ‒ aveva commentato Angelo, in genere il più taciturno di noi. Mentre parlava aveva la mania di lisciarsi il ciuffo. Perdeva un sacco di tempo davanti allo specchio prima di ogni uscita per fissarlo con l’ultima gommina in circolazione. Noi lo prendevamo in giro per questo. Giulio ed io invece portavamo i capelli cortissimi alla marine. Era l’unica cosa che ci distingueva da lui.

Giulio, Angelo ed io, Fabio , eravamo diventati per tutti i nostri compagni quelli del GAF e con questo nome diventammo noti nel quartiere, all’oratorio, nel campo di Rugby. Il GAF. Un trio di sognatori: il primo posto nel campionato regionale di rugby, la conquista di Eliana, la ragazza più bella del liceo, l’automobile, una Cinquecento per me, un’Alfa per Giulio, una Spyder per Angelo. Lui diceva, ammiccando, che col suo ciuffo non poteva accontentarsi di nulla di meno. Quando ne parlavamo, facevamo notte sul muretto del giardino sotto il condominio dove tutti e tre abitavamo.

Ci passavamo le serate su quel muro a chiacchierare, a sparare cazzate, seguendo le volute azzurrine di fumo, soffiate fuori con spavalderia, rischiando, le prime volte, di soffocare, di rimanerci secchi. Questo accadeva soprattutto quando passava Eliana. Allora il GAF smetteva all’unisono di inspirare, le mani rimanevano in aria con la sigaretta che bruciava da sola.

Quando Eliana passava, la vita del GAF si sospendeva. Tutti e tre, imbambolati, seguivamo con gli occhi il dondolare dei suoi fianchi, il suo corpo sembrava emanava un profumo che ci rimaneva nelle narici anche dopo che lei si era allontanata, e dei suoi capelli neri e ricci non scorgevamo che una macchia indistinta. Dovevamo proprio sembrare ridicoli e tamarri.

Allora ci guardavamo e scoppiavamo in un risolino indecifrabile. Ognuno rideva per un suo motivo. Ma allora non pensavamo di ridere per la stessa ragione.

‒ Scommettiamo ‒ disse Angelo una sera ‒ Scommettiamo che con me ci sta!

Giulio gli diede una manata sulla schiena, che quasi gli fece sputare l’anima.

‒ Con te? Ma sei scemo? Cosa se ne fa una così di te, quella mira in alto!

‒ Sì, con me. Perché no? Io lo so che anche tu ci hai fatto un pensierino, di’ la verità.

Poi i due avevano guardato verso di me. ‒ Tu non dici niente?

Io avevo abbassato la testa. Mi guardavo insistentemente la punta delle scarpe. Se avessi alzato il viso, i due avrebbero capito tutto. Avrebbero capito che io dell’Eliana ero cotto marcio e che ogni sera, dopo averli lasciati, uscivo di nuovo e mi incontravo con lei ai giardini di via Oberdan, abbastanza lontano da dove abitavamo, proprio alle spalle del nostro Itg

Via Oberdan era un viale di tigli odorosi, discreti. Io ed Eliana ne avevamo scelto uno per i nostri incontri. Aveva il tronco che diramava abbastanza in basso, giusto giusto perché Eliana si appoggiasse al ramo più grosso, e io potessi mangiarla di baci, in un corpo a corpo che mi sfiniva e mi lasciava più affamato di prima e in uno stato di perenne nostalgia di ciò che ancora non avevo avuto.

Non so perché non glielo avevo detto ai miei amici. Probabilmente avevo paura che mi considerassero un traditore. Ma Eliana, con loro, non ero disposta a condividerla, com’era successo con altre ragazzine. Anzi non ero disposto a condividerla con nessuno.

Poi, una mattina Giulio e Angelo mi aspettarono davanti al portone della scuola. Non erano, come al solito, accoccolati su un gradino dello scalone di ingresso a copiare in tutta fretta il problema di fisica o a ripassare sul Bignami gli ultimi sei o sette capitoli di storia. Li vidi impettiti, rigidi e capii che avevano saputo. Sì, di me e di Eliana. Mi feci loro incontro e quando arrivai sotto, loro sputarono per terra e, senza una parola, si allontanarono.

Avevo disintegrato il GAF. Non mi diedero il tempo di spiegare. Di dire che tra me e quella smorfiosa era già tutto finito. Eliana mi aveva lasciato per uno tutto muscoli e niente cervello. Arrivava a scuola con una moto di grossa cilindrata, e le ragazze sul sellino cambiavano a una velocità incredibile. Noi lo guardavamo con un misto di invidia e disprezzo. Nel quartiere era conosciuto come sbruffone e non si sapeva come avesse trovato i soldi per quella moto. Suo padre gestiva un piccolo negozio di ferramenta, proprio sotto il nostro palazzo.

‒ Se ti vedo girare con quello lì, ti spezzo le gambe ‒ aveva tuonato mio padre dopo avermi visto parlare con lui. Mio padre parlava poco. Quando tornava dal cantiere, con addosso l’odore della calce e del cemento, si lavava in fretta e subito dopo era a tavola e, quando si mangiava, si stava zitti e attenti a non fare gesti che potevano scatenare la sua ira, quasi sempre immotivata. Almeno così sembrava a me e a mia sorella. Lei è più piccola di me, e per questo motivo che l’ira di mio padre si dirigeva quasi sempre contro di me o verso mia madre.

‒ Mi raccomando, arriva vostro padre, zitti zitti a tavola.

Più che un comando, una preghiera. Poveretta mia madre, anche lei temeva l’ira di mio padre. ‒ Che volete farci, lui è sempre stanco. Lavora come un mulo per non farci mancare niente. Anche la Domenica!

La storia che mio padre lavorasse tanto per non farci mancare niente mi innervosiva. Mi sembrava una cantilena stonata. Ci aveva messo al mondo lui. Lui aveva insistito perché io studiassi da geometra e mia sorella andasse a scuola alle magistrali, dalle Orsoline. Perché i nostri genitori continuassero a rinfacciarci di doversi occupare di noi figli, aspetto ancora di capirla.

Le Orsoline avevano di buono che il loro istituto si trovava proprio di fronte all’ Istituto tecnico geometri, la mia scuola. Molti aspiranti geometri si appostavano davanti alle Orsoline per vedere le ragazze entrare o uscire. In quel tratto di strada si firmavano patti, si sottoscrivevano promesse. Il giorno più bello era quello dello sciopero degli studenti. Pochi andavano in manifestazione. I più rimanevano a gironzolare attorno all’istituto magistrale ad aspettare le ragazze. Dalle Orsoline non si scioperava mai. Puntualmente le ragazze entravano e uscivano disciplinatamente alla stessa ora. Gli appostamenti erano facilitati.

Nel nostro condominio noi eravamo l’unica famiglia col padre operaio. C’erano impiegati alle poste, ferrovieri e piccoli negozianti. La piccola borghesia operosa e perbenista che per noi tre del Gaf stava diventando asfissiante.

Il nostro prof di italiano ci aveva fatto commentare per un compito in classe una canzone di un decennio prima. “Vecchia piccola borghesia, vecchia gente di casa mia, non so dire se fai più rabbia, pena, schifo o maliconia. Sei contenta se un ladro muore, se arrestano una puttana, se la parrocchia del Sacro Cuore acquista una nuova campana…” La canzone dipingeva il nostro mondo come noi non lo avevamo mai visto. I nostri padri e le nostre madri si immiserirono ai nostri occhi, il loro affaccendarsi per meschini traguardi cominciò farci storcere il naso. E fu da quel giorno che cominciammo a sognare “un orizzonte che non si ferma al tetto”. Ci rifiutavamo di ascoltare le canzonette del festival, snobbavamo le canzoni popolari, come quella che usciva da una finestra del primo piano, quella mattina.

Dove l'aria è popolare, è più facile sognare... Il nostro quartiere ci sembrava una palude, immobile, insidiosa. Una rete invisibile in cui cominciavamo ad aver paura di cadere e di rimanervi invischiati. E facevamo il verso alle nostre compagne, tutte innamorate di Eros Ramazzotti.

Adesso tu…


Quando anche Giulio e Angelo videro Eliana sfrecciare sulla moto del figo del quartiere, decisero di tornare a parlarmi e tutto avvenne con molta naturalezza. Fu allora che riprendemmo il vecchio progetto di partire insieme, noi tre, in macchina, verso il Nord Europa, a maturità conclusa. Giulio aveva appena preso la patente e suo padre aveva acconsentito a prestarci una vecchia e gloriosa Fiat 127.

‒ A patto che siate prudenti, che non facciate pazzie!


E stamattina eccoci qui scalpitanti, con Angelo che ancora non si decide ad arrivare.

‒ Apri il cofano, intanto ‒ dissi a Giulio ‒ così appena scende, si parte.

‒ Eccomi qui!

Angelo arriva con uno zaino enorme e con la sua solita faccia tosta.

‒ Ma che cazzo di bagaglio hai? ‒ gli faccio io.

Riusciamo a insaccare quel monumento
nel bagagliaio e partiamo.

La macchina sfila leggera nel silenzio della prima mattina. Il quartiere è praticamente ancora addormentato. Percorriamo il Viale dei Tigli, passiamo davanti al nostro istituto, chiuso per l’estate. Anche il portone delle Orsoline è serrato. Sorpassiamo una coppia su una grossa moto. Una fugace visione… Eliana? Un’ombra che svanisce alle nostre spalle.

Dal finestrino ad un tratto vedo, come in un cartone animato, i palazzi farsi più alti, inclinarsi verso di noi a chiuderci la strada. Le finestre come bocche e occhi aperti per intimarci di rimanere.

‒ Accelera, Giulio!

Rido come un matto, e Angelo si gira a guardarmi stralunato.

L’orizzonte si fa più lontano mano a mano che avanziamo. Anche il cielo ride. Ci sfida a raggiungerlo.

‒ Accelera, Giulio. Angelo, prendi la carta stradale. Che autostrada imbocchiamo?

martedì 31 maggio 2022

Ritorno a casa

 



Ritorno a casa


In cucina, sì, proprio in cucina, nel cuore della casa. Il dolce è lì sulla tavola a fare da tramite tra loro due. Come quando erano piccoli e si dividevano il dolce rubato dalla dispensa, appollaiati sul ramo più basso del ciliegio che solo una fragile staccionata separa ancora dal ciglio del fosso. Lei rimane con le braccia incrociate sul tavolo come non sapesse dove metterle. Le scioglie soltanto quando suo fratello le passa il cucchiaino.

‒ Ne vuoi? E spinge il vassoio verso di lei

Lisa si ritrae. Ha un vestito di cotonina a fiorellini, con una sfilza di bottoncini sul davanti. Si tiene dritta sulla sedia senza appoggiarsi allo schienale. Sospesa. Negli occhi tristezza sconfinata. Lui fissa come ipnotizzato i bottoncini del suo vestito. Non osa alzare gli occhi e guardarla in viso.

“Non capisco cosa ci sia in questo dolce. Cos’è”?

La domanda di lui la coglie di sorpresa. Vorrebbe dirgli: ma sei scemo? È il solito cheese cake, dolce di famiglia. Non te lo ricordi? Lo faceva la mamma. La mamma. Parlare con lui è faticoso, il solo vederselo davanti è quasi insostenibile.

Lui si è messo in bocca il cucchiaino più volte, il dolce è praticamente dimezzato. Già, il dolce. Ma i discorsi tra loro sono ancora taciuti. Nemmeno iniziati veramente.

“Sono qui solo perché mi hai chiamato”.

Lui posa il cucchiaino sulla tavola. Il cucchiaino luccica, tra i residui di crema bianca. Luca lo riprende nervosamente, ma gli sfugge di mano, e gli cade risuonando su pavimento. Adesso la guarda direttamente negli occhi ed è lei che abbassa lo sguardo come a trovare dentro di sé la forza di rispondere.

Ha davanti a sé un fantasma, il fantasma del fratello allegro e scanzonato di una volta.

“Vuoi sapere ancora perché l’ho fatto?”

Lei alza una mano per interromperlo. “No, zitto, non voglio sentire niente”.

Le braccia si sono strette al seno. C’è qualcosa dentro di sé che Lisa non vuol lasciar andare. Rideva Lisa quella sera, di ritorno dal cinema. Ha suonato il campanello prima di infilare le chiavi nella toppa, come d’abitudine. “Sono qui, sono tornata!” L’immagine dei suoi, riversi sul divano in salotto, la tempia di suo padre insanguinata, il petto di sua madre macchiato di sangue… E poi l’arrivo della polizia. “Signorina, cosa è successo…”

Era stato Luca a telefonare, due giorni dopo. “Sono io, venite a prendermi”.

Il carcere lo ha segnato, ma forse sarà l’età, si sorprende a pensare Lisa. Ci sentiamo tutti vecchi e stanchi. Luca ha perso i capelli prima che diventassero bianchi, ma i suoi occhi sono ancora febbricitanti, lo stesso delirio di tanti anni prima. La stessa frenesia nei gesti.

Piano, fa piano”: la voce esasperata di sua madre, quando lui entrava in casa come un ciclone e gettava per terra lo zaino con i libri, correndo al piano di sopra. Musica a gogò nella camera invasa dal fumo, e la sguardo sconfitto di sua madre che si chinava a raccattare lo zaino, il giubbino e tutto quello che Luca Pollicino seminava intorno con allegra spudoratezza.

Sì, c’era stata allegria nella loro famiglia, ma erano tempi di leggenda quelli.

“Quando arrivano i tuoi figli da scuola?”

“Oggi non torneranno a casa. Andranno dalla nonna, dall’altra nonna”

“Temevi che mi incontrassero? Che incontrassero il mostro, l’assassino dei suoi genitori?”

“Sì, loro sanno che sei in viaggio, lontano per il mondo. Anzi fanno domande curiose su di te, sui tuoi viaggi esotici.”

“Bene. Avrai parlato prima con tuo marito delle tue intenzioni.”

“Sì, è d’accordo con me”

“Vedo che non vuoi parlare, allora lo faccio io. Mi hai chiamato, sono venuto, eccomi. Ti avverto, non sono disposto a subire un altro processo.”

Sembra arreso alla vita, al suo destino di cattivo. Luca si china raccoglie il cucchiaino da terra, ci soffia sopra.

A Lisa, senza volerlo, scappa un cenno di sorriso. “Sei sempre lo stesso, te ne do uno pulito.”

“Andiamo fuori, sotto il ciliegio?”

Lui annuisce con lo sguardo perso. “Prendo un piattino, è buono questo dolce. Lo porto fuori e finisco di mangiarlo lì.”

Di nuovo. Ancora una volta loro due , Lisa e Luca, un dolce e il ciliegio. Lisa si anima, sente dentro di sé una forza, quella che per tanti anni non ha avuto. L’eco della voce di sua madre che le dice “bada a tuo fratello”. “Mamma, che cosa terribile mi stai chiedendo. Non ce la faccio.” E così che inavvertitamente gli prende la mano: “Va bene andiamo sotto il ciliegio.”

Non si chiede più cosa dirà o farà Luca, l’assassino, il reprobo, il fratello. Il ragazzino spensierato con cui ha condiviso risate e baruffe. Adesso è venuto il momento di riportarlo a casa.

Il piattino è vuoto, Luca ha raccolto fin l’ultima briciola del dolce.

Si guardano negli occhi adesso. “Vuoi rimanere un po’ con noi? So che non hai un posto dove stare.”

“Perché mi inviti a stare qui, in questa casa, proprio qui?” Giocherella col piattino, poi lo poggia a terra e rimane con le mani appoggiate sulle ginocchia a guardarlo.

Lisa sente su di sé il peso della vergogna e del dolore di lui. “Pensaci, rimani qui almeno per questa notte almeno e domani mattina ne riparliamo”

Luca china più volte la testa per dire va bene, ma le parole gli si strozzano in gola.


È mattino, la luce entra prepotentemente dalla finestra. Luca sente arrivare dal piano di sotto le voci dei bambini di Lisa che salutano. Vanno a scuola. “Ciao, mammina”. Già, ciao mamma.

In cucina lei sta rassettando, mettendo a posto il caos mattutino di tre bambini che fanno colazione “Ah, sei qui. Ti sei svegliato tardi. I bambini sono già andati”. Non gli chiede cos’ha deciso, non gli chiede niente. Aspetta che sia lui a dirle qualcosa.

“Lisa”

“Sì?”

“Ho visto che il ciliegio ha bisogno di una potatura” Deglutisce Luca, parla sottovoce. “Potrei farlo io, se vuoi.”

“Va bene” risponde piano Giulia, controllando l’affanno del cuore.


Bada a tuo fratello. Va bene, mamma.








martedì 10 agosto 2021

 


Preservare la capoccia

Non vorrei che i miei pochi lettori e le sgamate lettrici pensassero che io sono tutta nei pomodori a seccare e nei tramonti da stalkerare, porelli anche loro. Per questo ho deciso di rianimare il mio blog, da tempo negletto, e rivelare una delle delle tante professioni che mi sarebbe piaciuto esercitare, oltre quella deamicisiana nella scuola, il più dinamico scouting immobiliare.

In verità la scelta di fare l’insegnante divenne mia e solo mia quando, a dodici anni conobbi la mia insegnante delle medie, una “signorina” piccola di statura, ma così autonoma e determinata nelle sue scelte da diventare il mio modello. Mia madre approvò perché si illudeva in quel modo di preservare le virtù domestiche e nello stesso tempo sottrarmi al destino di cuocalavapiattipuliscicasafaieallevabambinimogliefidataequantaltro, con uno stipendio che mi avrebbe garantito l’indipendenza economica. Non so perché la mamma avesse questa fissa, ma credo fosse il suo desiderio inespresso e soffocato senza lamenti. Non ho mai conosciuto altra persona così capace di trarre profitto dalle condizioni più cogenti come lei, quel poco che la vita offre, diceva. Proiettò, oggi si direbbe progettò, quella strada e la calzò su noi figlie come un calzino ristretto su un piede in crescita, senza tanti complimenti. Che ci piacesse o no.

Sull’isola mi perdo dietro cartelli reali o immaginari delle case in vendita. Mi piacerebbe avere una piccola a pelo d’acqua, due camere e servizi, mica una roba da Onassis, dove stare con tutta comodità… seeee, a seccare pomodori, direbbe qualche irriverente.

L’ultima casa, oggetto delle mie farneticazioni, in realtà è una bella villa col culo sulla strada e il seno sulla spiaggia (ciao, Guccini). È sempre serrata. Due piani circondata da un lussureggiante giardino. Misteriosa. Nel giardino dorme da oltre sette anni una bella imbarcazione, il telo che la ricopre è offeso da lacerazioni profonde. Appare sempre uguale a sé stessa, talvolta una luce fioca all’interno rivela una presenza umana, così come le due auto parcheggiate negli spazi dietro la casa. Non un’anima viva che s’affaccia sulle terrazze che circondano il quadrilatero della solitudine. Una casa così mi spaventa, non ci vivrei: io vorrei una casetta chiassosa, con gli amici che verrebbero ad accamparsi, qualche amaca in giardino o sulle terrazze risolverebbero il problema dell’alloggio. E la sera chiacchiere e risate e Mithos a fiumi. Allora propendo per una piccola casa, naturalmente bianca e le finestrelle azzurre, direttamente sulla spiaggia, protetta dalle ultime tamerici (selvaggiamente eradicate altrove) col terreno intorno invaso dai gigli di mare e tanta spazzatura aliena. Per questa casa mi sono informata: oggetto di annose dispute ereditarie rimane lì a consumarsi ogni anno di più ; pare sia stata utilizzata come ristorante senza successo. E poi ce n’è un’altra più piccola, sotto il livello stradale e guardata da due gelsi come due corazzieri davanti al Quirinale (sono lì?). Mezza diroccata, dà rifugio ogni tanto a qualche misterioso personaggio che vi si accampa incurante delle porte sfondate e delle finestre vedove di ogni gelosia.

Non mi interessa la proprietà. Penso sia un peccato che tanta bellezza vada in rovina. Vorrei una legge che imponesse ai proprietari di preservare, pena il sequestro. L’isola ne è piena.

Ma siamo nel mondo libero e democratico, dove si può fare scempio e devastazione ambientale senza che nessuno intervenga.

Che faccio? Scrivo al sindaco di Samo o viriamo su un bel crowdfunding e ce la spassiamo tutti insieme?

Preservo la capoccia e abbandono ogni ricerca immobiliare?

Vada per la prima. Sta capoccia la preservo davvero, con i sogni vani e un cappellino da “donna eccellente” (ricordate Barbara Pym?) che una dannata neuropatia delle piccole fibre mi costringe a calzare. Era di un bel rosa fucsia acceso, ora per fare il pari con le dimesse casette agognate, si è sbiadito come se vi avessero sopra urinato i conigli.


domenica 24 gennaio 2021

Case parlanti

 


La casa delle madri di Daniele Petruccioli, Terrarossa edizioni, 2020


L’incipit tiene fede al titolo, ci porta immediatamente nel cuore pulsante della narrazione con i termini “casa” e “madri”. Mi piacciono i titoli che costituiscono una fulminante sintesi di tutto ciò che si dipanerà attorno, dentro e dietro due parole comuni, piane nel loro significato immediato; nel romanzo, così semanticamente pregnanti, gravide nel loro grembo dei tanti “universi” rappresentati e offerti con dovizia di dettagli al lettore.

La casa delle madri, non diversamente dalle “altre” della storia, quella dei bambini e quella delle onde, è una casa borghese, una struttura solida e articolata a seconda del tempo e degli abitanti, infine anche dei compratori. Una Casa parlante che risuona di voci, di vivi e di morti; di vecchi, di giovani e bambini, con i quali entrerà in relazione: prosopopea di notabili, saloni per ricevere, luogo di festeggiamenti e di funerali, di gioie (pochissime), di malattie e patimenti (tanti e diversificati). Tolstoj ci ha avvertito per tempo della peculiarità letteraria delle famiglie infelici.

Il narratore si pone nei confronti della casa quasi come un moderno Omero foscoliano, indugia a interrogare le ombre, a raccogliere echi, a calpestare le polveri dei pavimenti. La Casa, lo sappiamo da subito, sarà smembrata. La Casa ha (o aveva o avrà) membra e memoria.

Nella sua cucina si consumano riti fanciulleschi: le caramelle d’orzo, fatte dalla “portiera brava” per consolare i bambini dalla tristezza del lutto (è morto il nonno, la nonna lo ha preceduto, quella nonna che lo scansava per la sua puzza di fumo e di altri afrori corporei, al momento di mettersi a letto), agiscono sui lettori come me da madeleine proustiana. (Ho conosciuto anch’io quell’odore, quel vapore torrido, ho risentito quel bruciore infernale come se avessi di nuovo toccato lo zucchero caramellato, appena versato “sopra il tavolo di marmo” prima unto di olio). Così come la magia delle significazioni dei suoni consonantici della parola zucchero, mi riporta al famoso, ormai archetipico, Lo-li-ta nabokoviano.

Mentre scrivo queste note mi accorgo materialmente che la scrittura labirintica, onnivora di Petruccioli si riverbera come un sortilegio nelle mie annotazioni. Parentesi che si aprono e si chiudono quasi senza volerlo, necessarie, ineludibili.

Nel testo, lungo tutto il romanzo, le analessi e le prolessi (la cucina è ancora bianca, non sa che un giorno diventerà blu e poi più niente… pezzi di azzurro dissolti in tante case…) fanno le capriole per costruire una sorta di eterno presente, alla maniera del celeberrimo Cent’anni di solitudine; e non è un caso se il titolo provvisorio del romanzo di Marquez fu La casa.

Marquez dichiarò in un’intervista: “Volevo che tutto lo sviluppo del romanzo avesse luogo dentro la casa e che tutto quello che avveniva all'esterno fosse descritto in termini d'impatto su di essa”.

Ne La casa delle madri il narratore mette in pausa e risveglia i personaggi come un Mangiafuoco nel teatro domestico: e sì, perché la materia del narrare è incandescente, e il tempo non trascorre e si dilegua vanamente, ma persiste nei nostri occhi di lettori nella relazione continua e contigua tra passato, presente e futuro. Nell’arco di tre generazioni si consumano le vicende del Notaio e della sua famiglia, di Sarabanda, la figlia, “ribelle fallica”, Speedy, il suo ignavo bellissimo compagno perennemente in fuga, i gemelli Elia ed Ernesto, schiantati da conflitti insanabili, tormentati da un feroce odio-amore reciproco (per Elia l’ossessione del “bada a tuo fratello”, per Ernesto il senso dell’abbandono da parte del fratello sano, per entrambi l’inscindibilità di un legame che non si ferma alla biologia), le nonne Ilide e Nina e altri frequentatori occasionali. Casa e famiglia sono i due poli narrativi intrinsecamente collegati, non solo perché la filologia mi ricorda che l’osco faama comprende probabilmente (la prudenza è d’obbligo) entrambi i significati , ma perché la Casa del romanzo non è puro involucro spaziale, incide sulla vita dei personaggi e, a volte, ne determina le emozioni (valga per tutti l’episodio delle urla di paura di Ernesto nell’attraversare un corridoio lungo e stretto al buio). Inoltre la Casa (e tutte le case) è abitata da spiriti irrequieti, e non serve cambiare “la boiserie”; dopo “il ripristino del ripristino”, le quiete macerie diventeranno rovine, “mentre fuori il sole sale e scende, secondo uno schema che non ha nulla di lineare”.

La casa delle madri è un romanzo impegnativo, colto e raffinato, chiuso a qualsiasi spiraglio di grazia che non sia la parola letteraria; a questo proposito ricordo la scena di sesso a tre dalla quale, nonostante la ginnastica dei corpi, delle mani, delle lingue, non scaturisce, secondo me un piacere appagante. La narrazione è una sfida a un corpo a corpo fino all’ultima sciabolata, a cominciare dalla struttura architettonica della medesima (un labirinto che costringe a tornare sui propri passi, illuminati tuttavia dalla voce narrante per nulla mimetica, quasi onnipresente nel condurre, riflettere, spiegare) per finire al linguaggio per nulla compiacente verso le tendenze egemoni di tanta produzione odierna verso uno stile “facile”, infine poco significativo. È quella sua voce il filo robusto che conduce fuori dal groviglio della vita attraverso la finzione narrativa.




domenica 13 settembre 2020

Spaccare la roccia

 


Sono a pag. 532 del poderoso volume di racconti di Flannery O’ Connor, una scrittrice statunitense morta a soli 39 anni nel 1964. Un delizioso (pensavo) malloppo di 710 pagine, che mi avrebbe intrattenuto durante le lunghe vacanze in semi isolamento in Grecia, assieme ad altri tomi più o meno impegnativi.

Si tratta di una raccolta di trentatré racconti di varia lunghezza, che squarciano e dissezionano la società statunitense nei quarant’anni che intercorrono tra la nascita e la morte di Flannery. La chiamo per nome perché mi viene più facile. Flannery è ben più lieve suono di quell’irlandese O’ Connor. Flannery mi richiama la figura del flaneur, ma non ne conserva la soavità del sogno, la leggerezza dello sguardo, anzi. Dirige la sua osservazione verso gli abissi della società: alle perversioni educative, alle mentalità che si piegano malamente, fino al rifiuto, alle evoluzioni sociali.

Con Flannery non si sale, si scende; si scende nell’inferno del quotidiano della gente di paese, quasi sempre di campagna. 33 racconti, una sorta di cantica dantesca nei gironi della malvagità, dell’ignoranza, del pregiudizio, della violenza mascherata, della presunzione. Del disamore della gente cosiddetta normale. Del normale orrore celato nei gesti e negli atti di persone dalla vita asfittica, dove le rare prospettive si allontanano fino a diventare trappole da evitare.

Un solo racconto sarà sufficiente a dare la cifra esatta della scrittura implacabile di Flannery: Gli storpi entreranno per primi. Il primo rimando è sicuramente evangelico, gli ultimi saranno i primi, ma nel contempo stabilisce un paletto comunicativo chiarissimo, gli storpi entreranno per primi. C’è un’azione, quella dell’entrare, una modalità, quella della precedenza sugli altri. Rimane non detto il dove, elemento che incatena il lettore alla sua curiosità, alla sua voglia di capire. Un monito per gli scrittori di racconti, che si incatenano ai precetti delle scuole di scrittura senza deragliare dalle “regoline” producendo risultati afasici e deboli anche nella costruzione. Gli storpi entreranno per primi ci avverte che la narratrice sa bene dove andare, ha un focus narrativo preciso; al lettore/lettrice non resta che seguirla, affidarsi, sospendere la credulità. Pare ci dica, Flannery, di non avere fretta di capire, di non giudicare strano o eccentrico ciò che accade perché tutto verrà rivelato nel momento opportuno per chi saprà e vorrà comprendere. Diciamocelo pure: se una narrazione non ti svela nulla, non ti smuove il cervello o i sensi, non ti costringe a “vedere” l’altro da te, ad ammettere esistenze inimmaginabili, allora è perfettamente inutile, persino noioso leggere.

Fin dall’incipit abbiamo chiara l’ambientazione, i protagonisti. Il triangolo relazionale che muove tutto il racconto è formato da un sistema trinitario, il Padre Sheppard, Il Figlio Norton, e Rufus, lo Spirito malvagio e irredimibile.

Mi piace notare alcuni particolari: siamo in cucina, il padre mangia cereali inumiditi direttamente dalla scatola, il figlio sopraggiunge e si prepara la colazione. Rufus viene visto la sera prima rovistare nel cassonetto, ergo avrà fame. Norton fa colazione con una fetta di torta al cioccolato, spalmata di crema di noccioline e ketchup. Finirà per vomitare. Non vi vengono i brividi? Non notate le dissonanze? Il padre non attribuisce il vomito alla mistura orrenda che Norton ingerisce, ma al fatto che ha mangiato troppa torta (stantia) e invece il povero storpio Rufus ha fame. Apparentemente il quadretto c’è, ma sia l’assenza della madre sia le modalità della colazione ci mettono in guardia. Non siamo in uno spot pubblicitario, nessuna musichetta allegra, ma il ritornello di un padre che vorrebbe fare del figlio un bambino virtuoso e altruista e lo martella in continuazione con la sua pedagogia della bontà, dello scrupolo, del senso di colpa. Non sa nulla della sofferenza del bambino (ha perso da un anno la madre), lo redarguisce: bisogna andare avanti. E basta. Norton vive all’ombra ingombrante del padre, lo vede portare in casa Rufus che è appena uscito dal riformatorio e si è identificato nel ruolo negativo di Satana, lo vede dormire nella camera della mamma e fare scempio della biancheria gelosamente custodita nei cassetti. Un braccio di ferro tra Sheppard e Rufus sulla egemonia da esercitare su Norton. Ci si avvia verso un triplice tragico fallimento. Ogni azione viene capovolta nell’effetto contrario. Fate caso alla storia della scarpa ortopedica.

Alla fine del racconto c’è soltanto una parola che mi viene in mente: terribile! La verità è terribile. Ti atterra con la durezza del suono delle stesse lettere che la definiscono. Secca come la T, rombante come la R che accelera verso l’accento. Terribile verità. Flannery O’Connor atterra, ma non ri-suscita, affanna , ma non consola. Nemmeno quando parla della parola di Dio che Rufus mastica e ingoia, dopo aver strappato una pagina della Bibbia, come Ezechiele il miele. Rufus il malefico svela a Sheppard la falsità della sua bontà, la trappola di chi ti vorrebbe plasmare come sé stesso senza avvicinarsi davvero alle storie e al sentire altrui. Nulla va per il verso giusto, quando la folgorazione coglie Sheppard, ed è il bagliore malvagio degli occhi di Rufus a rivelarglielo, tutto è compiuto. Rufus è stato per Norton un maestro migliore di suo padre, gli ha insegnato a credere nella vita dei morti sulle stelle, dandogli motivo e slancio per un volo finale.

E tutto questo senza alcun compiacimento stilistico, con una prosa che procede affilata e precisa a dissezionare corpi e anime pietrificate. La prosa di Flannery scava imperterrita la dura superficie seguendone le crepe e le sedimentazioni per arrivare al cuore oscuro, al magma incandescente.

Domanda finale: con tutti i grandi scrittori che hanno svelato il cuore nero del loro paese, come abbiamo fatto a pensare che proprio quel paese potesse diventare un riferimento importante nelle nostre vite? Te la do io l’America, sembra dire Flannery con parole grondanti dolore e stupefazione.