Non vi racconterò delle varie
difficoltà logistiche e personali che sto/stiamo incontrando in
questo trentesimo (forse ancor più) viaggio in Grecia, “ma per
trattar del ben ch’i’ vi trovai, dirò de l’altre cose che v’ho
scorte”.
Che la citazione, scaturita
inconsciamente, ex abrupto non inganni: nessuna attinenza con Dante
perché la Grecia, tanto per cominciare, non è l’inferno se non
per il rischio di rimanere stecchiti sotto il sole, vagando per il
Pireo.
È incontrovertibile: fa il
solito caldo boia, provenendo noi dalle brume del giugno padano. Le
ossa intrise di umidità persistente finalmente possono asciugarsi, distendersi e scricchiolare meno.
Almeno la sensazione è questa, indipendentemente dai vantaggi
concreti che ne possano scaturire.
Né tanto meno è lecito
pensare che io goda delle divine capacità del Poeta.
Il fatto è che la mente
lavora a volte per automatismi, scavalcando l’irriverenza degli
accostamenti, anche in virtù di un lessico famigliare nel quale il
povero e bistrattato Dante si trovava a combattere fianco a fianco
col dialetto pugliese per la supremazia sapienziale della gnomica
popolare; l’autrice di tale commistione era mia madre che,
pressoché analfabeta, costellava i suoi discorsi con citazioni
poetiche sorprendenti.
La cosa mi faceva rimanere a
bocca aperta, proprio come Dante quando, secondo la vulgata, si
sorprendeva nel sentire recitare i suoi versi per le vie di Verona o
di Firenze da un garzone di fornaio, che partiva con la sua gerla di
pane. Qui manca la verità storica e filologica, ma le leggende non
si discutono.
In realtà, la mia mamma,
sottratta all’istruzione e ceduta come servetta agli zii più
benestanti, non aveva avuto occasione di misurarsi con i libri né
con la Commedia; la si potrebbe considerare una depositaria elettiva,
una discendente ideale del fornaretto veronese o fiorentino che
fosse. Ancora non so per quali vie quei versi del Poeta fossero
arrivati a lei, dotando le sue parole di una nobiltà usurpata, ma
non di meno legittimata dall’uso. Con quelle parole la mamma si
rivestiva di insindacabilità, si dava un tono, e che tono!
Ritorno sul pezzo: vi parlerò
degli incontri casuali, di quegli incontri che conservano una dolce
fascinazione anche a distanza di tempo, come di altri che ho già
raccontato in questo blog lasciato da un bel po’ a languire in
rete.
La storia è semplice e, come
dicevo, del tutto inaspettata. Nonostante l’età conservo una buona
capacità di osservazione su cose e persone, sullo scenario in cui le
cose accadono: non ho dimenticato la faccia del tassista che ci
salutò alzando il pugno, non ho dimenticato la famiglia turca di
Turul, Billur, e Timur; ho ancora ben chiaro davanti a me il grassone
grecoamericano che tuonava contro lo strapotere dei negri negli USA,
come non ho più dimenticato il cane Ade che ogni mattina si bagnava
in mare per lenire le sue pene d’amore finché il teologo
sunnominato, padrone della cagnetta, non lo convinse a desistere dai
suoi assalti con una randellata proprio sulla testa; il vecchio e
laido teologo, torturatore di animali che ci assalì l’anno scorso
con il tosaerba e mi chiamò putana italida! Né potrò mai
dimenticare la vecchia fornaia di Creta che mi prese per le mani e mi
fece infilare la testa nel forno. Pensai alla vecchia strega di
Hansel e Gretel e resistevo finché non capii che la signora
nerovestita voleva che aspirassi il profumo del pane alla cannella, e
si portò le mie mani restie al petto per farmi sentire il battito
del suo cuore nell’augurarmi buon viaggio. Fu allora che imparai
una delle prime parole in neo greco: Kalò taxidi. La musica di
quell’augurio mi accompagna ancora, e credo lo farà per sempre. E
riservo un posto speciale al partigiano di Gianina che ci raccontò
dei quaranta soldati italiani uccisi e buttati nel lago dai Tedeschi.
E Jorgos con la sua gavetta italiana diventata un cesto di fichi per
noi? Le emozioni spesso sono lo strumento migliore per capire se
stessi e gli altri.
Adesso lo so, so bene che il
problema della mia scrittura non sono le povere citazioni mie o di
mia madre, ma la quantità di storie da cui sono sopraffatta e che ho
cercato malamente di raccontare nel mio blog: funziona come un
caleidoscopio. Ad ogni giratina un’immagine, un mosaico colorato
che si compone miracolosamente nel combaciare delle schegge, dei loro
contorni; ad ogni pagina un incontro marchiato come la lettera
scarlatta nei miei sensi e nei miei sentimenti.
Cosa sarei senza le piccole
storie che racconto? Sono le storie che mi rivelano a me stessa e al
mondo, se solo il mondo avesse orecchie e occhi aperti sulla mia
insignificante esistenza. Gli incontri e le storie hanno contribuito
a definire il mio pensiero, a rafforzare alcune convinzioni e a
ripudiarne altre.
Sono nata alla scrittura come
“contastorie” e rivendico questa mia identità costruita grazie
al contributo di chiunque io abbia incontrato.
Mi sono persa nel divagare e
rischio di dimenticare la storia semplice a cui accennavo.
Non è difficile per le vie
animate del Pireo imbattersi in mendicanti, bambini gitani, adulti
locali o di difficile identificazione: tutti tendono la mano,
chiedono monete in modo querulo, talvolta con toni aggressivi. Ma il
signore anziano, quasi ripiegato su stesso su una panchina, non
chiede. È seduto con lo sguardo perso nel vuoto, tenendo una mano
sul carrello sgangherato in cui tiene le sue cose. Fa molto caldo,
siamo affaticati anche noi. Il filosofo mi sussurra di dargli
qualcosa. Sono reticente, gli faccio notare che lui non tende la
mano, potrebbe offendersi. Ci avviciniamo con cautela, io ho
racimolato alcune monete dal mio borsellino che piange sempre
miseria, nel senso che pagando tutto con carta, spesso non disponiamo
di contante. Lo saluto in greco, chiamandolo signore. Lui alza il
viso verso di me, io mi impappino, le monete scivolano e rotolano sul
marciapiede. Le raccolgo e gliele metto in mano. Italiana! Mi dice
sorridendo. E comincia a parlarmi, scegliendo con cura le parole,
piano piano, come ripescandole da un pozzo profondo. Ha la faccia
improvvisamente felice.
Cosa avreste fatto voi non
saprei, io gli ho chiesto come mai parlasse la mia lingua. Si accende
il mio interesse, e anche quello del filosofo che intanto si è
avvicinato.
Così veniamo a conoscenza di
una storia minima, riassunto pudico di un’altra più grande e forse
non così semplice. Una storia che procede per salti, probabili
censure. Il sorriso non lo abbandona mai, sembra assaporare una
felicità lontana: i miei genitori erano italiani, il mio cognome è
Vitali e vengo da Ravenna. E comincia a descrivermi la città e i
suoi monumenti.
Ci congeda in fretta, ci ripete che per lui è stato un grande piacere parlare con noi. Non sappiamo
fare altro che sorridere come ebeti e andarcene.
Ci siamo lambiccati nel
ricostruire una storia impossibile. A volte succede che ci sono
storie che non si possono raccontare del tutto, bisogna accontentarsi
dell’incontro. Mi giro indietro a guardarlo. Ha ripreso la sua
posizione rattrappita, la mano sul carrello, gli occhi rivolti alle
mattonelle del marciapiede. Spero di non aver aperto in lui la
voragine di ricordi dolorosi, di non aver sparso sale su ferite ancora sanguinanti.
È una storia che forse non ha
morale, si è consumata in pochi minuti, un’istantanea che rimarrà
in fondo alla mia mente, svaporata nella calura di un mezzogiorno
infuocato al Pireo.