lunedì 18 novembre 2024

Il monopolio del dolore

 Troppa autoreferenzialità passatista. Difendono il monopolio della sofferenza del loro passato, ciechi e sordi alle sofferenze dei non ebrei e dei più poveri rivelando sintomi classisti da far paura.

Noi che nelle scuole ogni giorno abbiamo parlato di Shoah, noi che abbiamo insegnato cos' è stato il nazifascismo, noi che abbiamo fatto di Primo Levi il cardine del nostro insegnamento ben prima che una sconosciuta diventasse senatrice della Repubblica, noi che dalla Shoah abbiamo imparato che la crudeltà dell' uomo sull' uomo è da cancellare su questa terra, chiediamo alla signora Noemi Levi di leggere il libro di Anna Foa. Noi che non ci facciamo ingannare dalle fanfare di una Destra di matrice e radice fascista, diciamo con Fortini(ebreo): guarda in viso e tienili a memoria, chi uccise e chi ferì. 

Nessuno di noi è contro gli Ebrei, difendiamo i più deboli, i maledetti di questa terra, difendiamo i Palestinesi che il governo di Israele chiama animali, cani, topi.

Difendiamo il diritto a esistere di un popolo martoriato. E queste eleganti signore borghesi con trucco e parrucco aprano loro gli occhi sull' immane tragedia in atto.

sabato 16 novembre 2024

Leggere salva la vita

 La stagione delle letture voraci, furibonde, è stata per me quella della giovinezza: dai tredici ai vent' anni.

Quando leggevo tutto quello che mi capitava a tiro, anche tutti i fumetti del tempo: da Capitan Miki, Nembo Kid (Superman), Tex Willer, Topolino, Diabolik fino a Eliot, Gide, Hemingway, Sholokov, Updike...e le storielle di Intimità e Confidenze. Quando leggevo di giorno e di notte.

Libri in casa ce n' erano pochi, solo quelli della scuola, a volte nemmeno quelli.

Eppure noi ragazze di casa leggevamo grazie a un giro virtuoso di amici, amiche abbienti che compravano libri e di biblioteche, prima parrocchiali, poi pubbliche.

Io credo che il parroco non conoscesse il senso de Il mulino sulla Floss, ma promuoveva la lettura e non quei giochi e giochetti oratoriali che vennero dopo.

Perché dico questo?

Perché mi viene una tristezza profonda quando mi capita di vedere le foto delle presentazioni, per esempio, dei diffusi gruppi di lettura: quasi esclusivamente donne, quasi esclusivamente di anziane.

Nonostante tutte le varie iniziative lodevoli come Nati per leggere, dove vanno a finire tutti quei piccoli futuri lettori? Perché la lettura del libro, muore piano piano?

Tanti sociologi e studiosi della società si affannerebbero a dare dotte ed esaustive spiegazioni, ma c' è sempre qualcosa di impenetrabile che mi sfugge.

Oggi leggere vuol dire appartenere a un ghetto nobile ma desueto?

Siamo anacronistici noi lettori e lettrici che condividiamo questo lusso?

Il ministro dell' Istruzione e del merito introdurrà l' ora dell' affettività. Molti credono a questa innovazione. Nessuno conosce le modalità di questa disciplina, come impartirla, come verificarne l' apprendimento, se bisognerà svolgere compiti a casa, e come giudicarne i risultati.

A me sembra una solenne fesseria, passatemi il termine che ho faticato a trovare in sostituzione di un altro ben più corporale ed efficace.

A nessun riformatore, a pochi illuminati sì, passa per la testa che la Letteratura sia la più grande maestra di affettività con i suoi conflitti, con i suoi amori, con le sue avventure, con i suoi enigmi? Che

persino la sessualità passa attraverso di essa? Due esempi di libri "scandalosi" della mia giovinezza, quando nessuno ti diceva nulla sulla questione e dovevi cavartela da sola: L' amante di lady Chatterley e La ciociara.

E una madre, la mia, che strappò alcune pagine di Un amore a Roma di Ercole Patti perché incautamente lasciai il libro sul tavolo e non sotto il materasso dove nascondevo le mie notturne incursioni in pagine che raccontava o di esperienze possibili, non della mia vita quotidiana.

Leggere era un' avventura, ma anche un sovvertimento della morale corrente, una scostumatezza che a un' adolescente non era permessa, la rivelazione di altri mondi. Leggere era sapere e confronto, e sorgente di dubbi e conflitti da gestire con i primi educatori: i genitori.

I violenti e i violentatori moltiplicati di oggi, hanno mai letto un romanzo?

Forse no.

martedì 2 luglio 2024

Il signore col carrello

 



Non vi racconterò delle varie difficoltà logistiche e personali che sto/stiamo incontrando in questo trentesimo (forse ancor più) viaggio in Grecia, “ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, dirò de l’altre cose che v’ho scorte”.

Che la citazione, scaturita inconsciamente, ex abrupto non inganni: nessuna attinenza con Dante perché la Grecia, tanto per cominciare, non è l’inferno se non per il rischio di rimanere stecchiti sotto il sole, vagando per il Pireo.

È incontrovertibile: fa il solito caldo boia, provenendo noi dalle brume del giugno padano. Le ossa intrise di umidità persistente finalmente possono asciugarsi, distendersi e scricchiolare meno. Almeno la sensazione è questa, indipendentemente dai vantaggi concreti che ne possano scaturire.

Né tanto meno è lecito pensare che io goda delle divine capacità del Poeta.

Il fatto è che la mente lavora a volte per automatismi, scavalcando l’irriverenza degli accostamenti, anche in virtù di un lessico famigliare nel quale il povero e bistrattato Dante si trovava a combattere fianco a fianco col dialetto pugliese per la supremazia sapienziale della gnomica popolare; l’autrice di tale commistione era mia madre che, pressoché analfabeta, costellava i suoi discorsi con citazioni poetiche sorprendenti.

La cosa mi faceva rimanere a bocca aperta, proprio come Dante quando, secondo la vulgata, si sorprendeva nel sentire recitare i suoi versi per le vie di Verona o di Firenze da un garzone di fornaio, che partiva con la sua gerla di pane. Qui manca la verità storica e filologica, ma le leggende non si discutono.

In realtà, la mia mamma, sottratta all’istruzione e ceduta come servetta agli zii più benestanti, non aveva avuto occasione di misurarsi con i libri né con la Commedia; la si potrebbe considerare una depositaria elettiva, una discendente ideale del fornaretto veronese o fiorentino che fosse. Ancora non so per quali vie quei versi del Poeta fossero arrivati a lei, dotando le sue parole di una nobiltà usurpata, ma non di meno legittimata dall’uso. Con quelle parole la mamma si rivestiva di insindacabilità, si dava un tono, e che tono!

Ritorno sul pezzo: vi parlerò degli incontri casuali, di quegli incontri che conservano una dolce fascinazione anche a distanza di tempo, come di altri che ho già raccontato in questo blog lasciato da un bel po’ a languire in rete.

La storia è semplice e, come dicevo, del tutto inaspettata. Nonostante l’età conservo una buona capacità di osservazione su cose e persone, sullo scenario in cui le cose accadono: non ho dimenticato la faccia del tassista che ci salutò alzando il pugno, non ho dimenticato la famiglia turca di Turul, Billur, e Timur; ho ancora ben chiaro davanti a me il grassone grecoamericano che tuonava contro lo strapotere dei negri negli USA, come non ho più dimenticato il cane Ade che ogni mattina si bagnava in mare per lenire le sue pene d’amore finché il teologo sunnominato, padrone della cagnetta, non lo convinse a desistere dai suoi assalti con una randellata proprio sulla testa; il vecchio e laido teologo, torturatore di animali che ci assalì l’anno scorso con il tosaerba e mi chiamò putana italida! Né potrò mai dimenticare la vecchia fornaia di Creta che mi prese per le mani e mi fece infilare la testa nel forno. Pensai alla vecchia strega di Hansel e Gretel e resistevo finché non capii che la signora nerovestita voleva che aspirassi il profumo del pane alla cannella, e si portò le mie mani restie al petto per farmi sentire il battito del suo cuore nell’augurarmi buon viaggio. Fu allora che imparai una delle prime parole in neo greco: Kalò taxidi. La musica di quell’augurio mi accompagna ancora, e credo lo farà per sempre. E riservo un posto speciale al partigiano di Gianina che ci raccontò dei quaranta soldati italiani uccisi e buttati nel lago dai Tedeschi. E Jorgos con la sua gavetta italiana diventata un cesto di fichi per noi? Le emozioni spesso sono lo strumento migliore per capire se stessi e gli altri.


Adesso lo so, so bene che il problema della mia scrittura non sono le povere citazioni mie o di mia madre, ma la quantità di storie da cui sono sopraffatta e che ho cercato malamente di raccontare nel mio blog: funziona come un caleidoscopio. Ad ogni giratina un’immagine, un mosaico colorato che si compone miracolosamente nel combaciare delle schegge, dei loro contorni; ad ogni pagina un incontro marchiato come la lettera scarlatta nei miei sensi e nei miei sentimenti.

Cosa sarei senza le piccole storie che racconto? Sono le storie che mi rivelano a me stessa e al mondo, se solo il mondo avesse orecchie e occhi aperti sulla mia insignificante esistenza. Gli incontri e le storie hanno contribuito a definire il mio pensiero, a rafforzare alcune convinzioni e a ripudiarne altre.

Sono nata alla scrittura come “contastorie” e rivendico questa mia identità costruita grazie al contributo di chiunque io abbia incontrato.


Mi sono persa nel divagare e rischio di dimenticare la storia semplice a cui accennavo.

Non è difficile per le vie animate del Pireo imbattersi in mendicanti, bambini gitani, adulti locali o di difficile identificazione: tutti tendono la mano, chiedono monete in modo querulo, talvolta con toni aggressivi. Ma il signore anziano, quasi ripiegato su stesso su una panchina, non chiede. È seduto con lo sguardo perso nel vuoto, tenendo una mano sul carrello sgangherato in cui tiene le sue cose. Fa molto caldo, siamo affaticati anche noi. Il filosofo mi sussurra di dargli qualcosa. Sono reticente, gli faccio notare che lui non tende la mano, potrebbe offendersi. Ci avviciniamo con cautela, io ho racimolato alcune monete dal mio borsellino che piange sempre miseria, nel senso che pagando tutto con carta, spesso non disponiamo di contante. Lo saluto in greco, chiamandolo signore. Lui alza il viso verso di me, io mi impappino, le monete scivolano e rotolano sul marciapiede. Le raccolgo e gliele metto in mano. Italiana! Mi dice sorridendo. E comincia a parlarmi, scegliendo con cura le parole, piano piano, come ripescandole da un pozzo profondo. Ha la faccia improvvisamente felice.

Cosa avreste fatto voi non saprei, io gli ho chiesto come mai parlasse la mia lingua. Si accende il mio interesse, e anche quello del filosofo che intanto si è avvicinato.

Così veniamo a conoscenza di una storia minima, riassunto pudico di un’altra più grande e forse non così semplice. Una storia che procede per salti, probabili censure. Il sorriso non lo abbandona mai, sembra assaporare una felicità lontana: i miei genitori erano italiani, il mio cognome è Vitali e vengo da Ravenna. E comincia a descrivermi la città e i suoi monumenti.

Ci congeda in fretta, ci ripete che per lui è stato un grande piacere parlare con noi. Non sappiamo fare altro che sorridere come ebeti e andarcene.

Ci siamo lambiccati nel ricostruire una storia impossibile. A volte succede che ci sono storie che non si possono raccontare del tutto, bisogna accontentarsi dell’incontro. Mi giro indietro a guardarlo. Ha ripreso la sua posizione rattrappita, la mano sul carrello, gli occhi rivolti alle mattonelle del marciapiede. Spero di non aver aperto in lui la voragine di ricordi dolorosi, di non aver sparso sale su ferite ancora sanguinanti.

È una storia che forse non ha morale, si è consumata in pochi minuti, un’istantanea che rimarrà in fondo alla mia mente, svaporata nella calura di un mezzogiorno infuocato al Pireo.