L’ultimo dotto esegeta del mio romanzo "La luna in gabbia", Maurizio Vito (Ph.D. Lecturer University of Oklaoma), ha
sottolineato il rapporto dei protagonisti con la spettralità. Lui ignora che io
sono nata il 2 novembre, e mezza morta. Non sa che ho condiviso per un po’ quella
linea impalpabile che separa i vivi e i morti. Su quella linea ci cammino
spesso ancora adesso e, non so come, convinco qualcuno di loro a venire a
spasso con me.
È stato così che alla
Milanesiana, evento su Scerbanenco, mi è venuto di invitare la mia mamma. Lei che
di notte, mentre finalmente tutti noi sei, papà compreso, dormivamo, si
tratteneva a leggere. Leggeva anche alla luce di una candela, ché le lampadine
allora si fulminavano presto ancorché venissero usate poco. Io la spiavo dal
mio letto (noi si dormiva in un’unica grande stanza) e quello spiraglio di luce
della porta socchiusa mi attirava come una falena. Quella luce che avvolgeva la mia mamma aveva
qualcosa di speciale. Chiamava anche me, volevo sapere quale gioia lei provasse
da rinunciare al sonno e perderci gli occhi su quelle pagine. Quegli occhi
stanchi di ricamatrice.
L’ho provata quella felicità,
pochi anni più tardi, quando il giorno dopo la consegna del libro di lettura in
seconda elementare, divorai tutto il libro di notte. Come la mamma.
Le chiesi dopo qualche tempo di
poter leggere quello che leggeva lei, mi rispose di no. Non potevo leggere
Bella, la sua rivista settimanale, non ne avevo l’età.
Una storia banale, tutto sommato;
se non si sapesse che la mamma era semi analfabeta, aveva fatto solo la seconda
elementare e pochi giorni della terza. Non avevamo il gabinetto in casa e
nemmeno l’acqua corrente. Ma lei comprava Bella, anzi la comprava papà che gliela
consegnava come un trofeo meritato il giorno che riscuoteva la paga.
Un giorno mamma mi chiese come si
leggesse il nome Scerbanenco, un nome difficile anche per me, ma lei non si
arrendeva.
Per questo oggi l’ho invitata con
me alla Milanesiana. Eravamo in tre: il filosofo, io e la mamma. Una riedizione
dell’io, mammeta e tu. Mi scappava da ridere. Ogni tanto mi giravo verso la
sedia vuota alla mia destra. L’ho vista rapita, persa nella visione delle
diapositive, in contemplazione di quel volto scavato dai grandi occhi, che dallo
schermo ci ha offerto genio e gentilezza. Commossa alle parole di Cecilia, figlia di Scerbanenco. Io l'ho conosciuto un po' il tuo papà, le avrebbe detto, se fosse stato possibile.
Ho capito perché della Milanesana
ho scelto questo evento e non altri. Per portare a spasso la mamma, la
ricamatrice semianalfabeta che si rovinava gli occhi sul telaio e sulle parole
di quel signore dal nome complicato. Se avesse conosciuto quello vero! No, " Volodymyr-Džordžo Ščerbanenko" per lei sarebbe stato troppo difficile, e l'avrei messa in difficoltà. Scerbanenco bastò.
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