A giugno, finalmente, si
poteva giocare sotto il sole che accecava e faceva sudare. Sentivo
che la frangetta mi si appiccicava sulla fronte, alzavo il braccio e mi asciugavo
strisciandovi sopra col dorso del polso. Sì, perché avevo le dita
impiastricciate di terra umida con la quale aveva composto l’ultima torta,
ricoprendo la superficie di fili d’erba erba e fiori. Ne avevo fatte in tutto
tre, una gialla col tufo tenero, grattato dal muro di recinzione della casa, una
scura con la terra del campo confinante il cortile e una color nocciola con la
sabbia che aveva preso dal magazzino degli attrezzi di papà.
Aspettavo le amiche per
giocare alle signore. Loro avrebbero portato i bicchieri e una bottiglia di
“limonata”, fatta con acqua e carta crespa gialla e rossa, messa a bagno dalla
sera prima. Presi la scopa e raccattai il terriccio sul pavimento di cemento levigato.
Il cancello era chiuso, non c’era pericolo.
“Non uscire, mi
raccomando. Io vado a prendere un secchio d’acqua dalla nonna. Adesso hai sei
anni, sei grande, non puoi passare tutto il tempo a giocare. Io ho bisogno di
aiuto”.
Mamma si era allontanata
con i due secchi di zinco, appesi alle braccia e la pancia in avanti per la
gravidanza. I secchi era grandi e pesanti. Avevo provato a sollevarne uno mezzo
pieno una volta, ma l’avevo mollato subito a terra con grande sciupio di acqua
che mi inzuppò i piedi; mi ero sfilata gli zoccoli di legno, calciandoli
lontano, ché rischiavo di scivolare. Dritta sulle gambe nella pozza d’acqua con
le braccia incrociate e con un’espressione corrucciata sulla faccia, guardandomi
il vestito di percalle che, bagnato, si attaccava alle cosce come una seconda
pelle. Ogni giorno la storia dell’acqua: ne serviva tanta per lavare panni,
piatti e pavimenti, e noi dovevamo prenderla ogni giorno alla fontana pubblica che
apriva solo per poche ore al mattino presto oppure bussare alla porta della
nonna che aveva l’acquedotto. Così diceva la mamma, e io avevo capito che a lei
non piaceva chiedere l’elemosina di un secchio d’acqua. Per questo la mamma di
papà mi stava antipatica, ma non potevo dirlo.
Le torte erano lì, su un
lungo blocco di pietra, appoggiato su due mattoni forati, ad asciugarsi al
sole. E le amiche ancora non arrivavano. Le torte cominciavano a screpolarsi
sul nostro salotto; così chiamava papà quella specie di panchina arrangiata.
Lui tentava di rendere più leggiadro il piccolo cortile disadorno. Lo aveva
arricchito di alcuni vasi di cemento che uscivano come un miracolo dalle forme
fatte con assi di legno, gli scarti del cantiere, e riempite di calcestruzzo.
Lui inchiodava, impastava e schiodava dopo che l’impasto si era asciugato.
“Vedi? In queste fioriere
ci seminiamo le fragole”.
Io battevo le mani. Papà
era più tenero di mamma, anche se si alzava presto ogni mattina e spariva per
tutta la giornata a lavorare fino al tramonto. Ma la mamma si alzava ancora
prima di lui. La domenica poi mi insegnava ad andare in bicicletta sullo
stradone deserto: le macchine erano rare, e nei giorni di festa i padroni
preferivano scorrazzare sul corso, anziché in periferia. Tutti i poveracci a
piedi dovevano crepare d’invidia. Lo stradone era in lieve pendenza.
“Abbiamo fortuna di
abitare in collina. Così impari ad andare in discesa e in salita. Pedala,
pedala!”
E io pedalavo, sapendo
che papà mi reggeva da dietro la sella. Mi resse fino a quando imparai a stare
in equilibrio da sola, meglio e prima di mio fratello, ma anche questo non
potevo dirlo ad alta voce perché la bicicletta era sua. Alle femmine non si
regalavano biciclette, ma papà diceva sempre che le cose di casa erano di tutti
e io non me lo facevo dire due volte a usarla.
Mamma tornò con un solo
secchio d’acqua.
“Lo svuoto nella giara e
torno indietro. Non potevo portarli tutti e due insieme. Tu non allontanarti
che ci sono gli zingari in giro. Sono arrivati anche quest’anno. Tieni il
cancello accostato, anzi mettici il ferro”.
Mamma mi parlava come ad
una persona adulta. Io sapevo quello che dovevo fare quando ero a casa da sola.
Da sola ci rimanevo anche di sera, quando mamma e papà uscivano, ma accadeva
solo alla festa patronale. L’arrivo
degli zingari si ripeteva ogni anno, all'inizio della stagione. Si vedevano
girare a gruppetti di donne che a due, a tre si facevano avanti fino sulle
nostre porte. Uomini non se ne vedevano. Se ne raccontavano tante su quelle donne
scarmigliate dagli occhi neri neri e grandi orecchini a cerchi.
“Vanno in giro con i
ferri da calza nascosti sotto lo scialle - diceva nonna. - E se non date quello
che chiedono, vi bucano gli occhi. Gli uomini prendono i bambini e tagliano il
grasso dalle mani”.
Insomma tutti noi da piccoli avevamo una paura
salutare degli zingari. Se li vedevamo da lontano, scappavamo a rifugiarci
dietro le gonne di mamma che chiudeva subito la porta e ci diceva di stare
zitti che se ne sarebbero andati presto.
I grandi hanno sempre
ragione, pensavo. Aveva ragione la mamma per l’acqua e aveva ragione papà a
incoraggiarmi ad andare in bicicletta e a fare fioriere di calcestruzzo. L’unica
a non avere ragione era la nonna, quando mandava mamma alla fontana e non le dava
l’acqua.
Era quasi mezzogiorno, il sole picchiava
dritto sulla mia testa, e le mie amiche ormai non sarebbero venute. Di spalle
al cancello, cominciai a disfare le torte lanciandole in aria. Ricaddero a terra
una alla volta, spaccandosi in pezzi irregolari. Mi aggrappai al cancello e
cominciai a dondolare, facevo avanti e indietro spingendomi col piede. Fu così
che la vidi, vidi la zingara dall'altro lato dello stradone. Avanzava verso il
cancello tenendo per mano un bambino.
Corsi in casa, chiusi la
porta d’entrata e mi ficcai sotto il letto matrimoniale, sperando che mi
nascondesse tutta. Tremando di paura, sbirciavo attraverso la frangia della
coperta estiva che lambiva il pavimento, la sagoma della donna che bussava ai vetri
della porta. Mi sembrava enorme, bussava e ribussava, ma io ero decisa a non
uscire dal mio nascondiglio. Pregavo che arrivasse la mamma a salvarmi mentre architettavo
di uscire dal lato opposto e prendere un coltello dalla cucina. Ma non osavo
muovermi. Tenevo gli occhi fissi sulla porta che prima o poi avrebbe ceduto
sotto i colpi della zingara. Sentivo i vetri vibrare.
Mamma era solita dire che
non avevo paura nemmeno del diavolo, ma della zingara coi ferri in mano che mi
avrebbe bucato gli occhi avevo una paura terribile. Vedevo la sua faccia scura,
le sue mani avide afferrarmi la faccia e tenermela stretta per accecarmi. Cosa voleva
da me? Il cuore mi usciva dal petto e mi rintronava nelle orecchie.
Il tempo non passava mai,
la zingara dietro la porta, io sotto il letto. Poi improvvisamente voci di donne,
urla, pianti. Riconobbi quella della mamma per prima, poi la nonna che cominciò
a prendere a schiaffi la zingara. Ormai ero fuori anch'io e vedevo le vicine
gridare e la zingara che cercava di proteggersi la faccia dai colpi.
“Non ho fatto niente, io
solo bussato. Volevo un po’ di pane per bambino. E un po’ di olio per me”.
Estrasse dallo scialle
una bottiglietta semi vuota.
"Ecco, solo per riempire
questa".
Io mi avvicinai al
bambino che piangeva. Le donne si zittirono.
Non so se le diedero
qualcosa. La zingara si allontanò in fretta col bambino che non riusciva a
tenere il passo e si faceva trascinare sotto il sole, scalzi sulle pietre del
selciato che scottava.
Io respirai. Ero confusa,
ma capii d’un botto che i grandi non hanno sempre ragione. La zingara non aveva
i ferri per accecarmi né mi avrebbe fatto del male. No, i grandi, o quelli che
credono di esserlo, non hanno sempre ragione. Sono le storie che essi
raccontano a dipingere spesso il mondo come non è. E cominciai da allora a guardarlo con i miei
occhi, oltre le sbarre di quel cancello nero che cigolava.
Nessun commento:
Posta un commento