Scrivere di viaggi è di per sé un
viaggio. Esercitare materialmente una possibilità di riflessione che il tran
tran quotidiano riduce o sottrae del tutto, essendo quello un viaggio con tappe
stabilite ab ovo. E non sto qui a elencarle per ovvie ragioni. Per questo le
note del mio blog subiscono un incremento apicale proprio nel peregrinare
estivo, quando per fortuna posso dedicarmi a due attività mie, esclusivamente
autodeterminate rispetto agli imperativi di un’educazione così interiorizzata e
cristallizzata nelle molte mie primavere da rendermi quasi sconosciuta a me
stessa: l’esplorazione del mondo e l’esplorazione tanto più impervia dei miei
pensieri attraverso le note del mio blog. Il viaggio non mi spalanca
semplicemente nuovi panorami geografici o vagamente e pretestuosamente occasioni
socioculturali, ma rimanda a sbirciate interiori nuove o semplicemente sottratte
alla noncuranza colpevole.
Sarà per questo che non dimentico
nessuno dei miei pochi e limitati viaggi, i cui resoconti si riversano in una
sorta di scrittura steganografica di ciò che mi accade. So che la steganografia è oggetto di
insegnamento accademico come tecnica di comunicazione, ma la mia è solo un’approssimazione
di immagine non un calcolo di algoritmi. Un antico proverbio italico forse sarà
più efficace delle mie spiegazioni. “Scrivere a nuora perché suocera intenda”. Parlare
in modo obliquo affinché solo l’interlocutore interessato ne colga il senso
vero sotto la maschera. Una tecnica, mi dico, vecchia quanto il mondo, e mi
assolvo.
Si parte per la Grecia anche
questa estate dopo una serie di accadimenti pesanti, di quelli che metterebbero
il fuoco sotto il culo a chiunque e ti dicono ‘scappa’ per suggerirti
immediatamente di non farlo. Destinazione finale Samo e Lesbo, con pause
intermedie necessarie. Delfi, per esempio. Interrogare l’oracolo, uno dei rimedi
più ricorrenti quanto incontrollabili negli esiti. Mi attende l’Onfalos della
Pizia, quella signora seduta nell’adylon (spero per lei a turno con altre
pizie) tra esalazioni indefinibili: se dalla terra bitumosa, o dal braciere di
segala cornuta, alloro e altre erbe. L’oracolo di Delfi, nella sua classica
solennità, mi appare subito un posto fatto soprattutto per i signori di una
volta, di quelli con molte risorse, a giudicare dagli edifici destinati a
contenere e custodire i tesori che Ateniesi, Beoti, Cnidii e altra gente
portavano qui sulle pendici del Parnaso per ingraziarsi l’oracolo e soprattutto
per mantenere in piedi quel clero cialtrone di sacerdoti, che amministravano le offerte, e delle Pizie
che profetavano a caso o a comando. Si sa che gli uomini
sanno, mica le donne per quanto invasate o fumate.
Alle otto: si va alle otto del
mattino, al massimo! Sarà fresco allora. Vana speranza, ché alle dieci siamo
appena al teatro e già grondiamo come piante di pomodori innaffiati sotto il
sole. Penso che i Greci che vi salivano non erano certamente vecchi come me e
il filosofo. Qui ci vogliono resistenza e gambe giovani, attributi che ormai
vacillano. Ci rifugiamo nel Museo e qui, tutto quello che ci appariva confuso
dall’afa e dalla stanchezza ci è apparso nel suo splendore. Le sale offrono
frescura e luce: un luogo divino dove si rimane abbacinati dalla bellezza,
proprio quella che si fatica a intravedere in mezzo ai cumuli di pietre
annerite dal tempo, sgretolate da terremoti e guerre. Penso che questo sia già
un vaticinio della pitonessa: devi faticare per godere. Direi scontato. Le cose belle te le devi
sudare, devi combattere, attraversare il buio (e anche le lacrime o stille di
sudore) per varcare la soglia divina della consapevolezza. In queste sale non
devi sforzarti di immaginare quello che fu tra i ruderi sotto la canea, devi
solo aprire gli occhi e saziarti, e dimenticarti delle ginocchia vacillanti, della
gola riarsa, e persino del gattino miagolante che fa da portinaio impaurito al
tempio di Febo Apollo. Ci si aggira, orde di visitatori permettendo, tra
gigantomachie, divinità olimpiche e terrestri in lotta, natiche turgide dei
Dioscuri, l’ombra di una Sfinge con una faccia beota che ammicca verso il
povero Edipo, tripodi bronzei e figurine lillipuziane; pareti grondanti degli
ori delle decorazioni e un enorme scheletro metallico di un toro che sembra
gettare fuoco dalle narici e richiama per grandiosità del simbolo il Guernica
di Picasso.
La sensazione di essere lì non
per caso, come vaticinava la vecchia Pannychis XI, ormai stufa marcia delle
cazzate che i sacerdoti continuavano a pretendere (racconto indimenticabile
tragico e ironico di Friedrich
Durrenmatt, La morte della Pizia) ma per cogliere quel segno steganografico viene rivelata, e solo a me, da una teca
contenente una coppa attica dall’interno dipinto: Apollo lo splendido che suona
la lira e una piccola nera cornacchia che gli tiene compagnia. La stessa
sopravvissuta nella mia Luna in gabbia? Sarebbe blasfemia, vero? Ma come mai mi
sono trovata davanti a questa sacra cornacchia che svolazza nel tempo e nello
spazio fino alle mie modeste pagine? Sono qui per ricevere l'assenso del Parnaso? Pannychis XI direbbe ai servi del tempio
di prendermi a pedate e cacciarmi fuori dell’area sacra. Esco per pudore e mi
siedo in terrazza: montagna e mare con un solo colpo d’occhio. Quale vaticinio
migliore di questo panorama? Ridi di te stessa e non rompere.
Nessun commento:
Posta un commento