È fondata l’opinione che i veri
scrittori e le autentiche scrittrici non scrivano mai sotto l’impulso dell’emozione
immediata. Le loro parole sono pesate come oro sul bilancino della
significanza distaccata. È una fortuna per me, e un privilegio, che io non
possa essere annoverata tra i “cesellatori di gigli”. Il mio “amico”, a sua
insaputa, don Pablo Neruda “me lo imparò” una volta per tutte; allieva fui e
scolara rimango.
“Non scrivo perché altri libri mi imprigionino
né per accaniti apprendisti di giglio,
bensì per semplici abitanti che chiedono
acqua e luna, elementi dell'ordine immutabile,
scuole, pane e vino, chitarre e arnesi.” (da La grande gioia)
né per accaniti apprendisti di giglio,
bensì per semplici abitanti che chiedono
acqua e luna, elementi dell'ordine immutabile,
scuole, pane e vino, chitarre e arnesi.” (da La grande gioia)
Prima ancora
dei versi di don Pablo, fui del cerchio di chi vede nelle alate parole altrui
la giustificazione delle proprie. E allora lui, il tal Alighieri, mi fa l’occhiolino
e di dice di osare con i miei mezzi non certo nell’impresa di rifondare un
mondo che mi sovrasta sempre di più, ma nel comunicare quello che il cuore mi
detta.
“I’mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’è ditta dentro vo significando.” (D. Alighieri, Purgatorio, vv 52-54).
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch’è ditta dentro vo significando.” (D. Alighieri, Purgatorio, vv 52-54).
E nulla più di un terremoto mi smuove a considerazioni
forse scontate, ma che urgono e premono per uscire.
Qui, nell’isola di Lesbo, le persone che incontro
sono esotiche. Vedi la ragazza georgiana che ho visto scendere una mattina, bianca
e alta come una statua in marmo di Paro, in spiaggia. Devo averla guardata a
bocca aperta prima di accorgermi del suo sorriso splendente e della chioma bionda
con riflessi di rame che si stava attorcigliando intorno alla testa come una
corona. Mariam, è il suo nome, viene da Kutaisi. Veste parei fiorati che
dovrebbero difendere la sua carnagione eburnea dal sole. Finiamo sedute sui
ciottoli a bordo d’acqua e ridiamo: i mei piedi arrivano dove sono i suoi
ginocchi! Devo scivolare in giù verso il mare per bagnarmeli, ma a questo punto
devo girarmi indietro per parlarle. Non scherzo.
Mariam apre la sua sacca di stoffa e mi mostra le
mille creme solari. Nulla da fare: dopo pochi minuti la dea marmorea si è
trasformata in un’aragosta gigante. Tremo per lei che tutta solenne si tira qui
e là il pareo velato per coprirsi un po’. Troppo alta, troppo lunga. Il pareo è
la classica coperta che tira di qua, tira di là, serve davvero a poco. Io,
piccola e sufficientemente scura, mi ritiro all’ombra della tamerice, Mariam si
addormenta sulla spiaggia, regale come Paolina Borghese.
E poi Billur, una ragazza turca con marito Timur e
figlia Turù (o Turùl). Anche questi biondi e gentili. Hanno un hotel a Istanbùl,
dopo due minuti di conversazione anglo-franco-greco-italo-turca (nell’ordine)
riceviamo un invito in piena regola: ci porteranno in giro per la città e ci
faranno vedere tutto quello che c’è da vedere. A sera le mail reciprocamente
scambiate fanno parte delle rispettive rubriche postali.
Non so quale seguito avranno questi scambi
vacanzieri; in generi io li coltivo. Vuoi mettere andare a Tblisi/Kutaisi o
Smirne con guide siffatte? Sì, c’è dell’interesse. Ma quando Turù mi stampa un
bacio alla fragola, direttamente dallo pseudocalippo goccioloso, non ci ragiono
più sopra.
Billur (Cristallo) mi dice: quando la situazione
politica si calmerà. Abbassa la testa, e io spengo sotto la lingua tutte le
domande che vorrei farle.
E poi è arrivata
una famiglia: marito, moglie e suocera a seguito. Greco-americani. Stazza… sì,
grande stazza, ma in larghezza. Ultrasessantenni tutti e tre. Stavolta non
guardo direttamente, anzi cerco di restare in disparte. Sono imbarazzata per
loro. Una mattina il papa (non papà) mi affronta sul
gradino del giardino che immette sulla paralìa.
Were are you from? A bruciapelo.
From Italy,
rispondo.
Lui si tranquillizza: nice!
Poi mi snocciola seduta stante, anzi lì in piedi,
la sua vita. La voce è roca, il ritmo ansante, le maniglie dell’amore di un
tempo sono masse grumose pencolanti.
Sta’ buona, mi dico, metti alla prova la tua
tolleranza, la tua sventolata mancanza di pregiudizi. Anche gli obesi sono
esseri umani. Lui intanto, in un inglese torvo e arrogante (elementare) mi
confessa di venire da NewYork, di abitare in Atene ora. Fa il pollice verso.
No more America:
five white, one black, five white/one black! Lo ripete più volte,
quasi digrigna i denti. Poi conclude velocemente: I giudei (sic) spadroneggiano,
controllano tutto, mangiano carne e noi…e si passa la mano sulla lingua come a
dire che è rimasto a bocca asciutta. Parla solo lui, ovvio.
Emigrante.
Tornato in patria a godersi i frutti del suo
lavoro.
Lo immagino arrivare a NewYork, giovane straccione
di belle speranze. Ha i capelli neri, ricci. Non doveva essere male allora. Ora
è una massa disgustosa di arroganza e protervia.
Emigrante.
Razzista.
Antisemita.
E con i capelli, annoto, di un corvino sospetto.
Ora mi spiego il perché della sua prima domanda. Mi
ha fatto uno screening. Sono nice perché italiana. Chissà se gli
avessi risposto Rabat, cosa mi avrebbe detto. Mi avrebbe scansata come un
insetto fastidioso? Probabile. Decido di non rivolgergli più la parola. Lo
tengo alla larga.
Ecco. E oggi arriva la notizia del terremoto in
Italia. Ma da dove nasce l’umana albagia? Quel senso di onnipotenza di noi umani che uno
scrollone della terra annienta in un istante?
La connessione tra il “cappello” letterario e il
resto della storia: a voi.
Nessun commento:
Posta un commento