Non so più se accadesse nel 1955
o al massimo un paio d’anni dopo. Insomma, erano gli anni in cui qualcuno
cominciava a vedere la televisione, ma noi si giocava a fare le torte di tufo.
Noi: io e le mie sorelle. D’estate. La nostra casa aveva un cortile anteriore e
uno, più grande, posteriore che terminava con un capannone dove mio padre
riponeva gli attrezzi e il materiale quando si chiudeva il cantiere. Ricordo
anche che per un periodo avemmo anche un cane lupo, Peks. La casa era isolata e
l’abbaiare di Peks avrebbe dovuto proteggerci da qualche malintenzionato. Peks
era tenuto legato perché noi avevamo paura di lui e dovevamo passarci davanti
per andare al gabinetto, situato in un gabbiottino dentro il capannone.
Gabinetto è una parola che abbiamo imparato più tardi, quando ne avemmo uno
vero, correvano gli anni sessanta, tutto bello bianco e luccicante, in una
stanza grande da ballarci dentro, che si chiamava bagno. Il pavimento era di piastrelle quadrate verde acqua, mentre le pareti erano bianche, coperte di mattonelle
che papà aveva voluto fissare in diagonale perché, disse, facevano motivo,
erano più belle. Ecco, questa è una cosa che non dimenticherò mai: i miei,
analfabeti e ignoranti, avevano un gusto per la bellezza, che sapeva di
miracolo. La vasca da bagno era ricoperta delle stesse mattonelle del pavimento
e si erigeva rispetto a quello su uno zoccolo. Papà l’aveva voluta così,
diversa dalle altre, appoggiate direttamente sul pavimento. E mamma, beh, mamma
ci insegnava la bellezza dell’essere puliti e lustrati, pur nei vestiti rifatti
dalle zie con le pezze americane che arrivavano direttamente dalla Merica in
grandi balle odorose di disinfettante. Il che non significava che fossero
pulite. E qui entrava in azione mamma, ci pensava lei.
In casa nostra non c’erano artisti, nessuno suonava il pianoforte (che non sapevamo nemmeno cosa fosse), nessuno dipingeva. Salvo a scoprire negli anni che papà aveva una passione segreta per le pietre e cominciò a scolpire dopo i settant’anni. E mia madre, oltre a renderci immacolati e perfetti, leggeva. Sì, questa fu la sua virtù artistica: non avere nemmeno il cesso in casa e... leggere! Insegnarci a leggere. Solo un’artista, e ricca, poteva farlo. Fu così che io, grazie al senso estetico dei miei, istillato quotidianamente nella perfezione dei piccoli gesti, nella cura della persona e delle cose, potevo tranquillamente a otto/dieci anni andare a comprarmi le scarpe da sola, ma senza soldi. Tanto il negoziante sapeva che poi sarebbe passato qualcuno a pagare. La pura verità.
In casa nostra non c’erano artisti, nessuno suonava il pianoforte (che non sapevamo nemmeno cosa fosse), nessuno dipingeva. Salvo a scoprire negli anni che papà aveva una passione segreta per le pietre e cominciò a scolpire dopo i settant’anni. E mia madre, oltre a renderci immacolati e perfetti, leggeva. Sì, questa fu la sua virtù artistica: non avere nemmeno il cesso in casa e... leggere! Insegnarci a leggere. Solo un’artista, e ricca, poteva farlo. Fu così che io, grazie al senso estetico dei miei, istillato quotidianamente nella perfezione dei piccoli gesti, nella cura della persona e delle cose, potevo tranquillamente a otto/dieci anni andare a comprarmi le scarpe da sola, ma senza soldi. Tanto il negoziante sapeva che poi sarebbe passato qualcuno a pagare. La pura verità.
Come sempre mi lascio trasportare
e perdo il filo. Ma la divagazione è
stata addirittura teorizzata, e quindi mi prendo il gusto di perdermi nelle
parole, come nelle strade del mio paese che percorrevo variando continuamente
percorso andando a scuola. Ma in tutta segretezza: fu così che esplorai il Castello,
il Rosale, il Maneggio, la Passione e Montescupolo. Quartieri allora
lontanissimi da Santa Lucia dove noi si era di casa. Mamma non doveva sapere,
ci mancherebbe.
Le torte di tufo, si diceva.
Anche se avrebbero cominciato a chiamarci terroni, in qualche parte dell’Italia
conosciuta una ventina d’anni dopo, noi non le mangiavamo di certo. Era il
nostro gioco nel cortile, mentre mio fratello aveva il permesso di razzolare
per strada quando voleva a piedi o con la bicicletta che arrivò proprio il ’57 a
una befana. Il tufo lo grattavamo dal muro di cinta della casa: giallo, tenero fino
a diventare impalpabile (e quello diventava cipria), lo si impastava con altra
terra o argilla e un po’ di acqua. E si formavano torte dalla superficie verde,
abbellite con le erbacce strappate sotto lo stesso muro. Le piante di mia madre
erano intoccabili. Ci avrebbe tagliato le mani, se avessimo osato soltanto
prenderne qualche foglia.
Capitava spesso nella tarda
mattinata, ora di ritorno dai campi, o nei pomeriggi assolati, che arrivasse
zio Riccardo, l’unico in famiglia che avesse conservato il mestiere antico del
contadino. Quando arrivava lui, mia madre era contenta. Sapeva che un paniere
di fichi freschi avrebbe allietato il pranzo o la cena. Lei ne era golosa, Ne
mangiava alcuni con la buccia, sono più buoni, diceva. Altri li sbucciava
soprattutto per noi che guardavamo schifati il fico intero essere mangiato e
persino con gusto. Lei ci diceva anche i nomi. Quei nomi sopravvivono nella mia
mente solo in parte. Bianchi, Neri, San Giovanni, Attèv’, Scorzamara, Verderame.
Gli altri si sono smarriti inesorabilmente. Lei era il nostro Adamo. Era lei
che aveva la capacità di dare il nome alle cose e farcene percepire l’essenza e
la regola.
Negli anni avrei imparato che “dare il nome” era un
problema di grande importanza. Che ne sapevo allora di Bibbia e Socrate? Vedo gli
occhi azzurri di mia madre che ci spiega e indica, e ci corregge. Quanta luce,
tanta.
E da quella luce che parte oggi la mia gioia di fronte a
un piatto di fichi greci. Tutti doverosamente raccolti dall’Albero del
viandante (di cui parlo nel mio ultimo libro, alla faccia delle casualità). Ora
so perché vengo qui in Grecia: a ritrovare un pezzo della mia vita dimenticata
che riaffiora con qualche fastidio negli spazi interdentali con quei granellini,
i veri frutti (detti, da quelli che sanno, acheni). Ah, corre voce che non la
mela sia stato il frutto proibito, bensì il fico! Sarà stato per questo che mia
madre aveva quel sorriso speciale?
Parlando parlando, mica mi sono accorta di avere anche svelato
la mia età. Ma chissenefrega, come dice la mia amica Alessandra.
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