Ho due figli: una femmina e un
maschio. Quando nacque la prima, la mia vicina di casa d’allora mi consolò: in
casa dei galantuomini, prima le femmine poi gli uomini. Ci eravamo amati
goffamente, io e lui. Nessuna preparazione, nessun addestramento. Il letto fu
una branda a una piazza, con un materasso provvisorio. Non avevamo mobili,
camera da letto, cucina all’americana. Fu amore subito tra noi e la pupattola
bionda dagli occhi fulminanti. Nonostante le notti da svegli, fino a quando la
pupa andò in prima elementare e da allora si distrasse in altro modo, per
nostra fortuna.
Non volevamo altri figli.
Uscivamo stremati dai primi sette anni dell’angelica creatura. La guardavamo
dormire (quando capitava, ma capitava) increduli e sollevati: faccia di cera, palpebre frementi. Montavamo la guardia a turno, tanta era la paura che potesse
succedergli qualcosa, tanta era la gioia di contemplarla. Eravamo provati dalla
solitudine, dal trovarci da soli ad affrontare il nuovo: lavoro, ambiente,
prole. Non una mamma solerte o una sorella affettuosa, nemmeno una cugina di
secondo o terzo grado. Noi e lei, e bastò.
Poi arrivò lui/lei, il tumore, la malattia. Il
mio corpo giovane, e finalmente addestrato all’amore, ne rimase ferito, ma io fui
ancora tutta intera per il mio compagno. Mangiammo insieme il pane della paura
e della speranza. L’amore ci allappava i sensi, la gioia, il piacere.
E senza che lo cercassimo, anche
questa volta, dopo sette anni, rimasi incinta. Dalle lacrime ingoiate su quel
cuscino, dalla imperturbabilità esibita del mio amante (incantata parola) per
il mio corpo leso fu concepito il secondogenito. Ci amammo una notte, all’inizio
con un orecchio proteso verso l’altra stanza, a un rumore nel sonno, a un
risveglio improvviso. La pupa dormiva, finalmente.
Il secondo scherza ma non troppo, quando si autodefinisce il figlio secondario. La prima scherzava ma non troppo, quando diceva che a quel maschio prepotente le si davano tutte vinte.
A entrambi vorrei dire che l’amore
si moltiplica, non si divide. Alla prima di non dimenticare da quale desiderio sia
arrivata, al secondo di ricordare da quale rinascita sia sbocciato. Di non
invidiarsi reciprocamente gli occhi del loro padre e i miei. Ché l’amore si
moltiplica, non si divide mai! A spartire ricchezza, povertà arriva. E stavolta
Marx non c’entra affatto.
* Ah, la riduzione cabalistica di 16 è 7. Siamo a casa di Pitagora mica per caso!
* Ah, la riduzione cabalistica di 16 è 7. Siamo a casa di Pitagora mica per caso!
Cosa posso dire? Niente, non posso e non voglio dire niente. Meraviglia, tu.
RispondiEliminaGrazie, Valentina per la tua empatia e per tutto il resto... :)
RispondiEliminaUna confessione che sembra venuta da chissà dove, da un tempo lontano e distante... e invece l'hai scritta tu! Letta e riletta.
RispondiEliminaGrazie, Sario. Della lettura e dell'attenzione.
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