Mia madre aveva un modo tutto suo di esortarci a fare bene
le cose.
- E che ci vuole, l’arte di Milano?!
Il nome della città così lontana pioveva su di noi con
terrificante soggezione. Milano era la città dove andavano a cercare lavoro
quei nostri compaesani che erano i più poveri di tutti. Figli di braccianti,
per lo più, che giuravano e spergiuravano che mai avrebbero fatto il lavoro del padre.
Alzarsi ogni mattina all’alba e, all’imbrunire, presentarsi freschi di toiletta in
piazza e mezza nazionale tra le labbra a vendere le braccia per il giorno dopo.
E le braccia si vendevano anche a seconda della simpatia del caposquadra che
selezionava i più mansueti, quelli che non faceva storie, quelli che facevano
andare, a testa bassa, braccia e mani, e anche piedi quando arrivava la vendemmia.
Tra noi che eravamo appena un gradino sociale al di sopra, chi andava a Milano
era un ribusciato, un facchino o alla
peggio uno scansafatiche.
L’arte di Milano era il paradigma di un’arte misteriosa e
indefinibile che si impara solo se si è fortunati. Perché anche questo voleva
dire andare a Milano. Trovare la fortuna, abitare in un appartamento e tornare
al paese d’estate con la lagna tipica del Ciao, neh!
I Ciaonè arrivavano in treno, in auto stipate
all’inverosimile e poi, molti anni dopo, in pullman rosso della ditta Marino.
- Hai fatto la piscina? Mo’ che andiamo da paparino!
La milanese ciaonè apostrofava così la sua bambina che se l’era fatta nelle mutandine. Ne nacquero barzellette inenarrabili che facevano sganasciare dalle risate gli uomini seduti all’ombra del muro accanto alla porta di un bar.
La milanese ciaonè apostrofava così la sua bambina che se l’era fatta nelle mutandine. Ne nacquero barzellette inenarrabili che facevano sganasciare dalle risate gli uomini seduti all’ombra del muro accanto alla porta di un bar.
Che tenerezza facevano i Ciaonè. Con la loro voglia di
annegare anche con le parole nei vezzi dei milanesi autoctoni. Che poi quasi nessuno abitava a Milano
davvero, ma erano sparsi per le borgate che allora nascevano apposta per loro,
braccia svendute all’industria del nord. Ci tornavano ogni sera, sfraganati di
lavoro, a dormire. Senza piazza né campanile.
Milano era l’avventura, il benessere, la sicurezza e una
Fiat 1100 di seconda o terza mano da far girare per le strade del paese e far
morire di invidia così soprattutto i vicini. I Ciaonè arrivavano in massa per
la festa di San Sabino, il patrono del mio paese, in agosto. Per amore del santo e del campanile. E delle
angurie monumentali, ammassate sui camioncini, che facevano crack non appena il
coltello veniva conficcato nella dura corazza e mostravano il rosso del cuore
fragrante.
- Alla prova, neh!
Arrivavano anche da Torino, ma era Milano il riferimento
lessicale che identificava l’emigrante fortunato. Povera Torino, esclusa dalla
fama del verbo popolare. Va’ a sapere che strada prendono le parole e perché. I Ciaonè erano sussiegosi. Non perdevano mai l’occasione di sciorinare un Noi a
Milano si fa così, A Milano no, non è così, generando un ruvido fastidio negli interlocutori che, solo perché rimasti in paese, venivano
declassati. Nulla più era buono in paese. A Milano, invece!
Insomma non ci voleva l’arte di Milano per imparare a fare
tutto quello che serviva in casa. Sono quasi sicura che per i maschietti nessuna
madre abbia usato quest’espressione. Tanto loro erano fuori a giocare al
pallone o a sbizzarrirsi in bicicletta per le strade del quartiere. Tornavano
sporchi, con le ginocchia sulle quali non si distinguevano più le tracce di
sporco dalle cicatrici per le cadute. Successe che mio fratello fu mandato via
dalla scuola perché aveva le ginocchia sporche. E non ci volle l’arte di Milano
a mia madre, armata di spugna, bacinella e sapone, per dimostrare sotto gli
occhi della professoressa scettica che le ginocchia del ragazzino erano così:
una geografia rugosa di pelle istoriata, di cicatrici formatesi sotto le croste
spesse, cadute naturalmente,
sfidando infezioni pericolose. Aggiunse che ogni giorno quel figlio tornava a
casa con i segni delle sue imprese. Le sue ginocchia erano trofei! Insomma non
ci voleva l’arte di Milano per capire. Mia madre tornò a casa soddisfatta della
sua dimostrazione, come un venditore che avesse piazzato un intero corredo da
matrimonio. Emmadonnasantissima!
Non ci voleva l’arte di Milano per imparare a pelare le
patate, a friggere i peperoni, a lavare i panni e anche a stenderli in modo che
poi la stiratura non fosse più difficoltosa. Non ci voleva l’arte di Milano
nemmeno per quella.
Io non so se, mossa dal desiderio di imitare mia madre, l’artista
di casa, mi sia impadronita senza saperlo dell’arte di Milano. So invece che
non avrei nessuna arte, se due donne non me l’avessero insegnata. Per l’arte di
Milano in cucina e non solo, dico grazie alle mie maestre.
[A mia madre Vincenza per la curiosità e l’alacrità,
l’apertura alle novità e la voglia di cimentarsi; A Rina, madre del filosofo, per
la precisione, la cura del particolare (ahi, come e quanto strofinava l’orlo delle pentole!),
la scelta degli ingredienti, l’amore alla tradizione].
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