Avevo dieci o undici anni quando
decisi che sarei stata madre senza avere la minima idea su come si
facesse. Tutta colpa di mia cugina Maddalena.
Una bella ragazza di vent’anni con una vaga somiglianza con la mondina Silvana Mangano,
ad eccezione delle tette. Le sue, quelle di Maddalena, era piccole, troppo
piccole diceva lei che aveva dieci anni più di me. Io facevo spallucce, mi guardavo il petto
piallato, disperavo di averle anch’io un giorno. Anche grandi (cioè piccole) come quelle
di Maddalena mi sarebbero andate bene. Ma per allora non ci pensavo.
Maddalena aveva un fidanzato
segreto; ché allora una ragazza, se veniva scoperta a “parlare” con un
giovanotto le prendeva di santa ragione prima dalla madre e poi dal padre. Se
la madre non l’avesse fatto, poi al padre sarebbe toccato picchiarle tutte e due;
così le madri si sottraevano alla punizione maritale menando le figlie per
prime per dimostrare di essere accorte. E il padre poteva andare più leggero perché le madri, per lavarsi la coscienza, si interponevano
con prudenza o facendo le finte, soprattutto per proteggere il viso della malcapitata, che non si
vedessero i lividi delle percosse. Per
fortuna, data anche l’età e l’indole mansueta di mio padre, non ero mai stata
menata né lo fui in seguito. Le sorelle delle mie amiche più grandi venivano
picchiate per qualsiasi motivo: una gonna troppo corta, una sopracciglia
depilata visibilmente. Per le prime calze velate occorreva il nulla osta del patriarca.
Questa delle sopracciglia bisogna proprio raccontarla. Erano quelle di Rosa; un viso
dalla pelle elefantesca e due sopracciglia folte e scure che si univano al
centro. Un giorno, io e mia sorella maggiore, andammo a prenderla per uscire. Eravamo già sulla porta,
quando il padre ci richiamò indietro.
- Vieni qui – disse alla figlia.
Noi ci guardammo in faccia e
tremavamo di paura. Soprattutto io che
ero piccola di statura e dimostravo meno anni di quelli che in realtà avevo. Il
signor Donato aveva la brutta nomea di essere manesco e la sua violenza era
temuta nel quartiere, anche da noi che non appartenevamo alla sua
giurisdizione.
Rosa gli si fermò di fronte.
Quasi sull’attenti. Tremava.
Il padre la prese per le spalle e
la portò verso la porta in modo che la luce cadesse sul viso della figlia. Le
case al pian terreno allora avevano un’unica porta da cui le stanze prendevano
aria.
Gli occhi bovini del signor
Donato si infissero come dardi sul punto in cui le sopraciglia di Rosa si
univano. Si univano, prima. Invece erano impercettibilmente distanti. E partì
il primo ceffone.
- Che ti sei fatta? – gridò il
signor Donato
Rosa ormai piangeva come un
maiale scannato. Emetteva dei singulti acuti, striduli e prolungati. Fummo
cacciate fuori dalla mamma in un attimo. Noi lo sapevamo cos’era accaduto. Rosa
si era tolto due peli al centro, ma proprio due, forse tre. Sufficienti al
signor Donato a capire che Rosa aveva usato la pinzetta depilatoria.
Ecco, questo succedeva con alcuni,
forse troppi, padri di allora. Rosa non
uscì di casa, nemmeno per andare a scuola fintanto che i due, forse tre, peli
non furono ricresciuti. E la pinzetta fu gettata via in un canale sotto il
marciapiede davanti alla casa.
Torno a Maddalena. Mia cugina,
che assomigliava crescendo sempre più alla Silvana, consumò la sua adolescenza
con un corteggiatore che studiava da perito agrario. Un vero moccolone, dico io, se
alle prime insistenze della famiglia, mollò Maddalena e si presentò con una
zuppa inglese e un mazzo di fiori a casa di una ragazza che aveva la dote e non
era una sartina come Lena, per di più figlia di bracciante agricolo.
La vendetta contro di quel bel
tomo (io lo odiai con tutte le mie forze, cominciando forse così dai dieci ai
sedici anni a disprezzare i maschi, tutti in generale e qualcuno di più in
particolare) Lena la consumò cedendo alle insistenze di un quasi ragioniere che
non le piaceva affatto, ma socialmente sembrava poter rimpiazzare senza onta il
perito dei miei stivali. Fuggirono nel
paese vicino, e papà mio e un fratello di mamma andarono a recuperali a
frittata fatta. I suoi non la riaccolsero in famiglia, ma il matrimonio avvenne
senza trombe né confetti.
Dopo nove mesi Maddalena mise
alla luce una bambina e si ammalò quando la piccolina non aveva nemmeno un
anno, a causa degli stenti in cui la nuova famiglia viveva. Le zie materne
cercavano di soccorrerla come potevano, ma sua madre e suo padre, con la scusa
di punirla, la lasciavano praticamente morire di fame. Maddalena venne
ricoverata per una pleurite, la malattia di chi mangiava poco e non aveva il
riscaldamento. Nemmeno il braciere con la carbonella. La nonna accolse la
bambina, ma al momento dei pasti la portava nella casa di fronte, che era la
nostra. In quella casa la piccola diventò la mia bambola. La lavavo, la
pettinavo, la ravvolgevo nelle fasce, che non era facile farla venire bella rigida e steccata, con le due gambine stese, altrimenti venivano storte (questo lo facevo nei primi mesi). E le preparavo da mangiare. Mia madre lasciava fare, mia zia
gongolava furbescamente sui soldi risparmiati e quando andava via cercava di
arricchire il suo bottino con piccoli furti: che fosse un limone, o un mazzetto
di zolfanelli, o una foglia di prezzemolo dalla dispensa di mia madre che
chiudeva tutti e due gli occhi e la giustificava dicendo che era avara e non se
ne accorgeva.
La piccolina non fu il mio
trastullo, ma la mia iniziazione. Non avevo ancora le mestruazioni, sapevo
quasi niente di sesso, ma seppi da quel momento che io sarei diventata madre e
che le bambole non erano di celluloide, che le si poteva buttare dove volevi. E così fu.
Maria quando scrivi le parole rotolano una dietro l'altra come una in cascata argentina, saltellano sulle asperità lanciando spruzzi di luce che illuminano le oscurità delle vene. Quanto sei brava! E quanto sei bella dentro e fuori!
RispondiEliminaBianca, ti ringrazio sempre dell'attenzione e dell'accoglienza. Le mie parole sono terra terra, ma spero portino un sentimento.
Eliminanon smetterei mai di leggere i tuoi scritti, ti riempiono di luce e voglia di continuare....................
RispondiEliminaGrazie, Michela! Comunico quello che sento, non sono capace di raccontare cose finte. Non ci riesco.
Elimina