sabato 25 agosto 2012

Erasmía ed Eufrosíni (e me medesma)








Non so se succeda anche ad altre. La prima sensazione che mi avvolge, quando metto i piedi su di una spiaggia, è di soddisfazione: mi sento magra e bella.  Un miracolo. Ciò accade nonostante il mio corpo, oltre a mostrare chiaramente i segni delle molte primavere, sia istoriato da cicatrici abbastanza evidenti. Ma il problema vero consiste non tanto in quello che la mano chirurgica mi ha tolto, quanto in quello che la natura matrigna mi ha donato col sopraggiungere della maturità. Meglio non lo so dire, tant’è.
La sensazione si accresce se, come capita, si è circondate da donne verso le quali la generosità dell’età si è manifestata con la stessa opulenza che con me.
Mi guardo in giro: le mie vicine sono due signore dalle morbide imponenti forme. Però loro sono alte, io piccola. Facile per me vedere in loro l’epifania duplicata della dea Giunone (siamo in Grecia!): l’una biondo rossa, l’altra nera come la pece. L’una con la “ricrescita” grigia, l’altra con il cuoio capelluto cromatizzato (non in senso musicale, ma di colore) dalla recente tintura. La prima ha una capigliatura folta come una criniera, la seconda comincia a soffrire la falcidie del capello a opera dell’ammonio.
Nella mia perfidia senile continuo a sentirmi bella e persino più giovane. Mi sposto all’ombra della grande tamerice che protende la sua chioma sulla spiaggia. Vorrei evitare un colpo di sole.
È in acqua che avviene il contatto.
Kalimera, dice la biondo rossa, con un sorriso. Ha gli occhiali scuri e un rossetto arancione.
La bruna è impegnata nella concentrazione necessaria a superare la barriera del freddo che l’Egeo perfido innalza a ogni violazione.
         Buongiorno, rispondo io senza troppa convinzione mentre provo due bracciate di dorso. Se riesco a intravedere la punta dei miei alluci, non affondo.
Non c’è niente da fare. Nel galleggiamento triangolare (ché nessuna delle tre pare essere buona nuotatrice) apprendo nomi, provenienza, figli e persino la nostalgia delle qualità amatorie dei mariti che se ne stanno seduti all’ombra a guardare l’orizzonte.
In quale lingua? Un goffo esperanto fatto di cenni, gesti, sorrisi, smorfie della bocca e un miscuglio inestricabile di greco, italiano, inglese e persino qualche parola di spagnolo. Il marito di una di loro è stato marinaio con  Onassis, ma battevano bandiera ecuadoregna, io ho una figlia in Messico, quindi ci capiamo.
Erasmía ed Eufrosíni mi invitano a vedere il loro studios, ci tengono. Hanno cominciato a chiamarmi ‘agapimù’. Amore mio. Sarà per la mia statura, farò loro tenerezza, penso.
Seduti tutti attorno al ‘megάlo trapέzi’, l’unica differenza tra la nostra sistemazione e la loro è appunto il grande tavolo; io e mio marito ne abbiamo uno piccolo, formato pizza schiacciata o da bistrot parigino.
Una bottiglia di tè freddo, due bicchieroni colmi. Io non bevo bibite zuccherate… non scendo nei particolari e non solo per questione di lingua. Chiedere qualcosa χorίϛ zaχarιϛ (senza zucchero) per  Ery e Sofro (tali sono diventate) suonerebbe un po’ offensivo.
Ad un tratto le due si guardano, mi prendono le mani e dicono “OXI, OXI”, scuotendo la testa. Sarebbe “No, No, così non va!”
Sofro corre in camera e ritorna con un beauty- case grande quasi come la mia valigia. Tira fuori l’acetone, il cotone idrofilo e comincia a nettarmi le unghie da residui dello smalto color rosso sangue (incauta follia prevacanziera da parte mia). Mi arrendo. Devo aver fatto davvero una brutta figura davanti alle due signore del Pireo. Loro abitano lì, mi dicono compiaciute.
Siamo ai saluti. Mi offrono una batteria di bottigliette di smalto dai colori improbabili. Sono costretta a scegliere. Come si fa a dire di no? “DORA”, regalo! Ne prendo una color ‘lavander’ recita l’etichetta.
Segue un profluvio di efacaristò polì, xarixa pù sas ghnorisa, grazie tante, piacere d’avervi conosciuto.
A conclusione un duetto sincronizzato di agapimù. Per me, ché gli uomini in tutto questo carnevale hanno recitato poco. Anzi nulla.
Ery e Sofro sono partite il giorno dopo. Io mi sono messa lo smalto dall’incredibile color lavanda. Credo che in vista del Pireo alzerò le mani in segno di saluto per le mie amiche. Tra il profumo del mare e il vento che sa di spigo d'antan.




martedì 7 agosto 2012

Metamorfosi




Non giova all'eterea farfalla
Ricordare il bruco molle
L’asfittico bozzolo
Che fu un tempo.
Né giova al pulcino
Sentirsi addosso
La membrana collosa
Del guscio calcareo
Che lo contenne.
Che sia la dimenticanza
Il segreto della vita?

domenica 5 agosto 2012

Metafore nel piatto




“Quello lì?”
“ Un vero  lambascione”
 In vernacolo pugliese, l’epiteto cola, molle e cinereo, su un individuo di genere maschile, per nulla attraente, con un che di stralunata inettitudine. Mi piace pensare che Stefano Benni avesse dentro di sé l’immagine  del lambascione appulo quando fa dire a Gesù: “Non state lì come coloro che son fessi!”, rivolto ai suoi dodici discepoli mollaccioni,  in "Terra". Altro che metafora barocca! Chissà per quali arditi, pellegrini traslati fondati sulle categorie “aristoteliche” di substantia, qualitas, quantitas e tutto il cucuzzaro retorico, la cultura contadina ha elaborato ingegnosamente la metafora del lampascione. Il mistero permane.

Certo il bulbo globuloso del lampascione (Muscari comosum) vive al buio, riparato sotto un bel palmo di terra. Estratto dal grembo della madre, ha un aspetto misero, sporco, di cosa di nessun valore. Ci si spiega come abbia preso anche  il nome di cipollaccio: l’aspetto è quello del parente povero della cipolla.
Non ha profumo, se non l’odore della terra smossa di fresco. Il colore, rosato, appare quando è ripulito della sfoglia più esterna. Da cotto assume un colore più indefinito che vira dal rosa al grigiastro. Eppure. Eppure fa parte del sogno di papille nostalgiche che, emigrate per varie sorti  in regioni senza lampascioni, fanno schioccare la lingua solo a parlarne. E gli occhi rivolti verso il cielo ad aspettare l’epifania del lampascione celeste, il dio lampascione.
Tra parentesi, se un giorno dovessi scrivere un libro (!) sulla cucina degli emigranti pugliesi potrei intitolarlo Il lampascione o della nostalgia. E solo per quel pizzico di amaro...
Avventurandomi su terreni a me più congeniali dirò che, come il maschio umano spesso accolto, ripulito, educato e acconciato da amorosi interventi femminili diventa a volte una creatura affascinante e desiderabile, così il lampascione, raccolto, mondato e cotto a dovere, diventa una gustosa delizia, proprio come l’uomo suddetto. Non me ne vogliate. È il caldo…


 Lampascioni fritti (a dovere), di questo vi parlerò finalmente.
500 gr. di lampascioni
Due uova
50gr. di pecorino romano
Sale, pepe q.b.
Due cucchiaiate di pan grattato
Prezzemolo tritato
Sale e pepe
Olio per friggere

Mondare i lampascioni dai residui di radici e di terra, togliere la prima sfoglia e inciderli a croce alla base. Lavarli sotto acqua corrente fino a che non siano nettati. Immergerli in una pentola d’acqua fredda e portare a ebollizione, a fuoco lento, con un paio di foglie di alloro (ha la funzione di accelerare i processi digestivi e mitigare l’eventuale meteorismo intestinale; scongiurato se non si abusa dell’assunzione delle frittelle).
I tempi di cottura variano a seconda della grandezza dei bulbi, ma la prova forchetta, dopo i primi venti minuti, vi guiderà.
Scolare l’acqua di cottura e tenere i lampascioni in acqua fredda per alcune ore perché perdano un po’ dell’amaro. È il loro pregio, ma anche il loro punto debole per chi non ne ama il gusto.



Scolarli e metterli in una ciotola, disfacendoli leggermente con una forchetta e aggiungervi le uova, il formaggio, il prezzemolo, sale e pepe, e il pan grattato fino a ottenere un composto morbido che friggerete a cucchiaiate in olio ben caldo. Disporre man mano su un piatto ricoperto di carta assorbente.



Altre varianti:
 Fritti uno per uno, leggermente infarinati , su un crostino di pane di accompagnamento (idea per un aperitivo)
“Arraganati”, cioè disposti uno accanto all’altro, già lessi, in un tegame e conditi con poco olio, sale e pepe e gratinati (contorno per agnello, piatto delle feste!)
Semplicemente lessi, conditi come un’insalata, per una cena frugale d’antan (un pezzo di pane, un piattino-ino di lampascioni, un bicchiere di vino e basta).





Dimenticavo: il lampascione è anche un bellissimo fiore primaverile.