lunedì 2 dicembre 2019

Eteroforia







Il campanello squilla. Claudia si impone di ignorarlo. Era già a metà mattina, e non aveva concluso nulla. La rivista reclamava la consegna del pezzo settimanale. Lo squillo, dopo una decina di secondi, si materializza nell’aria con maggior insistenza. Claudia si stacca malvolentieri dalla tastiera del pc e va ad aprire. Se continuava così, non avrebbe mai fatto in tempo a finire il lavoro. Non le piace scrivere a soggetto: i pezzi di colore poi la fanno imbestialire, le risultano falsi, forzati, ma la direttrice ne rimane entusiasta senza che Claudia capisca il perché. Per quanto sottopagata, la sua collaborazione le permette di coprire piccole spese quotidiane come l’abbonamento al metrò, appunto. Appena inaugurato nella sua città. Questo sarebbe l’argomento in questione. Una noia brutale le ha fatto già resettare senza rimpianti almeno tre incipit. Patetico. Lezioso. Troppo tecnico. E così via. Nuovo Documento.

‒ Ciao, ho la demenza senile.
Claudia sente le labbra aprirsi e rimanere paralizzate per un tempo infinito. Sulla soglia c’è Amalia, la sua vicina del piano superiore. Le riesce di mormorare soltanto un vieni, entra, non stare sulla soglia.

Amalia è piccola di statura, corporatura esile, con golfino di cashmere, filo di perle al collo e una pennellata leggera di fard sulle guance. Amalia ha gli occhi color di foglia, limpidi.
Claudia e Amalia non si incontrano di frequente. Solo in ascensore. I primi tempi non c’era stato altro che un buongiorno condominiale, un sorriso di circostanza, una mezza frase sul tempo. Annuire su un ‘fa caldo oggi’ e basta. Poi, negli anni, Claudia ha imparato a leggere sul viso di Amalia il suo stato d’animo. Ha un modo tutto suo di tendere il collo di lato, quando ha qualcosa di triste da dire. Claudia aveva saputo così di sua figlia.
‒ Quella mi fa disperare, si vuol separare.
Mano a mano, altre piccole informazioni spicciole. Piccole finestre socchiuse verso di lei.
‒ Mio figlio? No, lui è più tranquillo, fa l’imprenditore.
‒ Quest’anno mio nipote va in prima media. Ma con quella madre…, forse vendono la casa…
‒ Chi cucina è mio marito … fa tutto lui. Non mi lascia libera nemmeno in casa. Le piante? Non posso dar loro da bere senza che lui non mi prenda dalle mani l’innaffiatoio.
Le frasi di Amalia sono spezzate, allusive, come se Claudia già sapesse tutto e non ci fosse bisogno di aggiungere altro. Claudia annuisce, sorride. Si salutano con un abbraccio.
Amalia non esce mai da sola. L’accompagna sempre suo marito, un signore distinto, alto. In ascensore lui si mette sul fondo lasciando loro due a confabulare nel tempo stretto di tre piani da scendere o da salire. Claudia non capisce se lui sia infastidito o indifferente a quei brevi scambi di parole tra lei e Amalia. Non ha mai sentito il suono della sua voce. La immagina spessa, baritonale, robusta come la sagoma dell’uomo che si staglia imponente contro lo specchio dell’ascensore come un nume tutelare o un totem enigmatico.
‒ Però ti sei presa un gran figo ‒ aveva sussurrato Claudia all’orecchio di Amalia, un giorno che le aveva visto il viso imbronciato. Come stretto da una preoccupazione urgente.
Amalia aveva sorriso spontaneamente, poi aveva guardato fugacemente il marito e spento il sorriso tra le labbra strette.

‒ No, non entro. Sono soltanto venuta a dirtelo.
‒ Non ti far pregare allora.
Claudia l’accompagna al divano, poi va in cucina a mettere su l’acqua per il tè. La porta è aperta, così che possa continuare a parlare con Amalia, ma ritorna subito. Non vuole lasciarla da sola più del tempo necessario.
‒ Ecco. Dirmi cosa?
‒ Ho la demenza senile.
Claudia vorrebbe dire ma no, sei bella viva, e altre corbellerie inutili, ma dirige il discorso verso il problema. Inutile tergiversare. Prende le mani di Amalia tra le sue. Sono gelide, inerti.
‒Ti sei fatta vedere da un medico?
‒ Sì, prendo i miei farmaci e mio marito controlla tutto.
‒ Lo vedo, lui è molto attento con te.
‒ Sì, la sera ci teniamo la mano sul divano, ma lui non parla. Non parla mai. A volte fa le parole crociate.
‒ Sarà il suo carattere, ormai lo conoscerai bene dopo tanti anni.
Amalia e suo marito hanno più di ottanta anni. Amalia le ha detto una volta di averne ottantatre.
‒ Ma che bella pelle che hai!
Amalia si era schermita. Ma si vedeva che era contenta del complimento.
Claudia si intenerisce. Pensa a lei e a suo marito. Taciturno anche lui. Si augura che anche loro si terranno per mano come i due coinquilini e si sente rincuorata. La vecchiaia li tallona. Tra un po’ andranno in pensione e …, come sarà la loro vita?
Amalia tace, con lo sguardo perso. Si alza improvvisamente, con uno scatto inaspettato e va via senza che Claudia possa fermarla.

Claudia sa che le riuscirà di scrivere un articolo decente solo se farà un giro in questa benedetta metropolitana. Forse è l’unica persona in città a non averla ancora provata. La prima domenica, le hanno riferito, è stata una fiera: famiglie, palloncini e bancarelle ad ogni ingresso. Si va tutti a vedere. Il sindaco che taglia il nastro, i borghesi ben vestiti, i “peones” extracomunitari vestiti come nei telefilm durante le cerimonie nelle chiese battiste, i vigili urbani in alta uniforme e, nella mente e negli occhi di Claudia, lo scheletro della Catrina che sogghigna sotto l’ampio cappello di piume. Ma quello è il “Sueño de una tarde dominical en la Alameda central”, un murale di Diego Rivera. Meglio sarebbe piantarla di lavorare di fantasia e fare una ricognizione sul posto in un giorno qualunque. Claudia obbedisce a una delle regole che i grandi scrittori dicono di applicare: parlare di ciò che si conosce.
Questa mattina piove a dirotto. Claudia prende la macchina. Sì, per arrivare alla più vicina stazione metro le serve assolutamente la macchina. Parcheggia. Non fa in tempo ad aprire l’ombrello che il vento lo rovescia e ne fa una barchetta scagliata contro la cima di altissimo albero del tulipano, sopravvissuto al disboscamento selvaggio per la costruzione della nuova stazione. Si stringe nell’impermeabile, al diavolo i capelli appena lavati, le scarpe e i piedi sono zuppi di pioggia. La stazione è deserta. Claudia impreca, prende fiato e si immerge nel silenzio gelido del bianco e grigio delle strutture. Un set abbandonato, questo pensa. Cerca in tasca le due monete per fare il biglietto. Tutto è nuovo, se ne sente l’odore. Scende in una stazione del centro. Pochi viaggiatori. Sarà questione di orari. Dovrà fare un paio di tragitti nelle diverse ore della giornata. L’ascensore è grande, una teca argentea, la prossima volta scenderà con la scala mobile. Macchina-metro-metro-macchina. In tutto un buon quarantacinque minuti di sali e scendi. Dovrebbe partire da stazioni diverse dalla sua, le suggerisce la sua mente di cronista. Lei abita nella periferia sud della città, una piccola città. L’unica città di quelle dimensioni in Europa ad avere i bruchi nel ventre. Magari in altre zone la cattedrale underground sarà più frequentata e il rito metropolitano potrebbe assurgere al fasto che gli compete. Lì sotto la vita sembra sospesa. I profili metallici dei corrimani dei pilastri. Porte scorrevoli che ingoiano silenziosamente i viaggiatori per vomitarli in un altro luogo. Tutto automatico. Claudia conosce le metropolitane di altre città europee: Milano, Londra, Barcellona, Parigi, Napoli. Nella loro pancia c’è un’altra vita fatta di passi affrettati, di voci che si rincorrono, di rumori e colori. Musicisti che strimpellano, persino negozi, bar e librerie. Nella sua città la metropolitana è grigia, di varie sfumature di grigio. Nemmeno un manifesto pubblicitario. Tra poco arriveranno, lo sa. Claudia coglie la conversazione di due viaggiatrici, labbra sottili, capelli di colore indefinito, di quando la tinta non prende più e il nuovo colore diventa grigio topo o biondo stinto, a seconda dei casi. Messa in piega con bigodini laccata a dovere. Tengono la borsetta stretta sotto il braccio e si guardano intorno.
‒ Però è bella, così. È pulita.
‒ Speriamo che lo rimanga, pulita. Con tutti questi stranieri che girano.
Un’opaca sospensione di vita. Alle due donne piace il silenzio e il grigiore, interrotto solo occasionalmente da figure umane distinte e isolate. Si parla sottovoce, proprio come in chiesa.

La mattina seguente Claudia si prepara a fare un’altra ispezione nel ventre della città. Stavolta ha deciso: partirà dal capolinea opposto, zona nord. Il cielo è sempre carico di nuvoloni scuri. Si prepara un acquazzone. Indossa gli stivali impermeabili e un soprabito col cappuccio. Entra in ascensore e, così bardata, quasi non s’accorge di Amalia che è lì.
‒ Ciao, Claudia
‒ Amalia! Dove stai andando? Da sola e con questo tempaccio?
‒ Veramente venivo da te.
‒ Da me? Ma io sto uscendo. Ci vediamo nel pomeriggio?
Amalia si stringe nelle spalle. Claudia legge la delusione nei suoi occhi, mentre l’ascensore atterra con uno scossone.
‒ Siamo arrivati, io esco e tu torna su a casa.
Amalia si sporge e le dà un bacio umido, inaspettato. Claudia ha la sensazione che Amalia non si sia soffiata bene il naso. Cerca nella borsa un fazzolettino e si deterge. La porta dell’ascensore si richiude.
Macchina-metro-metro-macchina. Un chiasmo faticoso, pensa Claudia rientrando e fermandosi davanti al portone per prendere le chiavi dalla borsa. Solleva finalmente la testa e davanti ai citofoni c’è Amalia.
‒ Cosa fai qui? Sei tutta bagnata.
Amalia passa il dito sui nomi degli inquilini. Come se non sapesse a chi suonare. Il suo dito indugia su un nome. Non il suo.
‒ Chi cerchi?
‒ Sono rimasta fuori, sono senza chiavi.
‒ Dai, apro io che ci bagniamo, su. Vieni da me. Com’è che sei rimasta fuori? E tuo marito?
Claudia in ascensore la guarda meglio. Ha i capelli scompigliati Amalia. Indossa una tuta verde stinta. Una sciatteria che non le appartiene. Stringe in mano un sacchetto di plastica bianca, continua ad arrotolare i manici attorno alle dita di una mano. Gli occhi rapiti in chissà quale visione.

‒Asciugati un po’ ‒ Claudia le porge un asciugamani.
Amalia non risponde, lascia cadere la salvietta a terra come se non la vedesse. Claudia fa finta di niente, la raccoglie e l’appoggia sulla spalliera di una sedia.
‒ Lui, e la sua…
‒ Di chi parli, Amalia?
‒ Io ti ho vista parlare con lei.
‒ Chi?
‒ La bionda col cane. Ti ho vista parlare con lei. Non dormiamo più insieme, con mio marito. Sono stata io a pretenderlo, eh! ‒ Amalia salta di palo in frasca. Questa è l’impressione di Claudia. È costretta a ricomporre i pezzi di un puzzle ingarbugliato.
‒ Ma di chi parli ora? Di tuo marito e la signora col cagnolino? Cosa vai a pensare, alla nostra età.
Claudia si è messa nel numero, nonostante i quasi trent’anni di differenza. Le sembra brutto rivolgersi ad Amalia, sottolineandone l’età. La sua amica non ribatte per correggere l’affermazione. Il suo pensiero è altrove. Lo sguardo di Amalia a tratti si accende di lampi mai visti per tornare rapidamente alla placidità innaturale del suo stato.
‒ E invece ti dico che è così, è già successo, io l’ho perdonato più volte. Adesso dormo sul divano.
‒ Cosa pensi di fare?
‒ Voglio tornare a casa, non ho le chiavi.
Amalia tormenta il sacchetto di plastica che stringe tra le mani. I suoi movimenti si ripetono identici, senza frenesia, senza rabbia. Sovrappensiero, in un automatismo incontrollabile.
‒ Ecco il telefono, chiama, e vediamo se tuo marito è rientrato.
Amalia non dice di no, prende la cornetta, marca il numero. La risposta è immediata.
‒ Io sono rimasta fuori. Telefono dalla casa della signora… non ricordo il nome. Vengo a casa.
Chiude la comunicazione e restituisce la cornetta a Claudia.
‒ Vuoi che venga con te?
‒ No, lui ha paura di te. Sa che ti dico le cose.
Amalia esce, prende l’ascensore e sale al suo piano. Claudia tende l’orecchio per assicurarsi che rientri. Si rilassa quando sente la porta richiudersi.

Il pc è lì che aspetta il suo pezzo di colore sulla metropolitana.
“Non basteranno trent'anni a pagarla, la tetra cattedrale sotterranea…” Claudia si ferma, chiude il documento. Sul monitor la finestra del word: salvare il documento? NO.
File. Nuovo documento.
“Amalia ha ottantacinque anni, un filo di perle sul golfino di cashmere…”


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