Il campanello squilla.
Claudia si impone di ignorarlo. Era già a metà mattina, e non aveva concluso
nulla. La rivista reclamava la consegna del pezzo settimanale. Lo squillo, dopo
una decina di secondi, si materializza nell’aria con maggior insistenza.
Claudia si stacca malvolentieri dalla tastiera del pc e va ad aprire. Se
continuava così, non avrebbe mai fatto in tempo a finire il lavoro. Non le
piace scrivere a soggetto: i pezzi di colore poi la fanno imbestialire, le
risultano falsi, forzati, ma la direttrice ne rimane entusiasta senza che
Claudia capisca il perché. Per quanto sottopagata, la sua collaborazione le
permette di coprire piccole spese quotidiane come l’abbonamento al metrò,
appunto. Appena inaugurato nella sua città. Questo sarebbe l’argomento in
questione. Una noia brutale le ha fatto già resettare senza rimpianti almeno
tre incipit. Patetico. Lezioso. Troppo tecnico. E così via. Nuovo Documento.
‒ Ciao, ho la demenza senile.
Claudia sente le labbra aprirsi
e rimanere paralizzate per un tempo infinito. Sulla soglia c’è Amalia, la sua
vicina del piano superiore. Le riesce di mormorare soltanto un vieni, entra,
non stare sulla soglia.
Amalia è piccola di statura,
corporatura esile, con golfino di cashmere, filo di perle al collo e una
pennellata leggera di fard sulle guance. Amalia ha gli occhi color di foglia,
limpidi.
Claudia e Amalia non si
incontrano di frequente. Solo in ascensore. I primi tempi non c’era stato altro
che un buongiorno condominiale, un sorriso di circostanza, una mezza frase sul
tempo. Annuire su un ‘fa caldo oggi’ e basta. Poi, negli anni, Claudia ha
imparato a leggere sul viso di Amalia il suo stato d’animo. Ha un modo tutto
suo di tendere il collo di lato, quando ha qualcosa di triste da dire. Claudia
aveva saputo così di sua figlia.
‒ Quella mi fa disperare, si
vuol separare.
Mano a mano, altre piccole
informazioni spicciole. Piccole finestre socchiuse verso di lei.
‒ Mio figlio? No, lui è più
tranquillo, fa l’imprenditore.
‒ Quest’anno mio nipote va in
prima media. Ma con quella madre…, forse vendono la casa…
‒ Chi cucina è mio marito …
fa tutto lui. Non mi lascia libera nemmeno in casa. Le piante? Non posso dar
loro da bere senza che lui non mi prenda dalle mani l’innaffiatoio.
Le frasi di Amalia sono
spezzate, allusive, come se Claudia già sapesse tutto e non ci fosse bisogno di
aggiungere altro. Claudia annuisce, sorride. Si salutano con un abbraccio.
Amalia non esce mai da sola.
L’accompagna sempre suo marito, un signore distinto, alto. In ascensore lui si
mette sul fondo lasciando loro due a confabulare nel tempo stretto di tre piani
da scendere o da salire. Claudia non capisce se lui sia infastidito o
indifferente a quei brevi scambi di parole tra lei e Amalia. Non ha mai sentito
il suono della sua voce. La immagina spessa, baritonale, robusta come la sagoma
dell’uomo che si staglia imponente contro lo specchio dell’ascensore come un
nume tutelare o un totem enigmatico.
‒ Però ti sei presa un gran
figo ‒ aveva sussurrato Claudia all’orecchio di Amalia, un giorno che le aveva
visto il viso imbronciato. Come stretto da una preoccupazione urgente.
Amalia aveva sorriso
spontaneamente, poi aveva guardato fugacemente il marito e spento il sorriso
tra le labbra strette.
‒ No, non entro. Sono
soltanto venuta a dirtelo.
‒ Non ti far pregare allora.
Claudia l’accompagna al
divano, poi va in cucina a mettere su l’acqua per il tè. La porta è aperta,
così che possa continuare a parlare con Amalia, ma ritorna subito. Non vuole
lasciarla da sola più del tempo necessario.
‒ Ecco. Dirmi cosa?
‒ Ho la demenza senile.
Claudia vorrebbe dire ma no,
sei bella viva, e altre corbellerie inutili, ma dirige il discorso verso il
problema. Inutile tergiversare. Prende le mani di Amalia tra le sue. Sono
gelide, inerti.
‒Ti sei fatta vedere da un
medico?
‒ Sì, prendo i miei farmaci e
mio marito controlla tutto.
‒ Lo vedo, lui è molto
attento con te.
‒ Sì, la sera ci teniamo la
mano sul divano, ma lui non parla. Non parla mai. A volte fa le parole
crociate.
‒ Sarà il suo carattere,
ormai lo conoscerai bene dopo tanti anni.
Amalia e suo marito hanno più
di ottanta anni. Amalia le ha detto una volta di averne ottantatre.
‒ Ma che bella pelle che hai!
Amalia si era schermita. Ma
si vedeva che era contenta del complimento.
Claudia si intenerisce. Pensa
a lei e a suo marito. Taciturno anche lui. Si augura che anche loro si terranno
per mano come i due coinquilini e si sente rincuorata. La vecchiaia li tallona.
Tra un po’ andranno in pensione e …, come sarà la loro vita?
Amalia tace, con lo sguardo
perso. Si alza improvvisamente, con uno scatto inaspettato e va via senza che
Claudia possa fermarla.
Claudia sa che le riuscirà di
scrivere un articolo decente solo se farà un giro in questa benedetta
metropolitana. Forse è l’unica persona in città a non averla ancora provata. La
prima domenica, le hanno riferito, è stata una fiera: famiglie, palloncini e
bancarelle ad ogni ingresso. Si va tutti a vedere. Il sindaco che taglia il
nastro, i borghesi ben vestiti, i “peones” extracomunitari vestiti come nei
telefilm durante le cerimonie nelle chiese battiste, i vigili urbani in alta
uniforme e, nella mente e negli occhi di Claudia, lo scheletro della Catrina
che sogghigna sotto l’ampio cappello di piume. Ma quello è il “Sueño de una
tarde dominical en la Alameda central”, un murale di Diego Rivera. Meglio
sarebbe piantarla di lavorare di fantasia e fare una ricognizione sul posto in
un giorno qualunque. Claudia obbedisce a una delle regole che i grandi
scrittori dicono di applicare: parlare di ciò che si conosce.
Questa
mattina piove a dirotto. Claudia prende la macchina. Sì, per arrivare alla più
vicina stazione metro le serve assolutamente la macchina. Parcheggia. Non fa in
tempo ad aprire l’ombrello che il vento lo rovescia e ne fa una barchetta
scagliata contro la cima di altissimo albero del tulipano, sopravvissuto al
disboscamento selvaggio per la costruzione della nuova stazione. Si stringe
nell’impermeabile, al diavolo i capelli appena lavati, le scarpe e i piedi sono
zuppi di pioggia. La stazione è deserta. Claudia impreca, prende fiato e si
immerge nel silenzio gelido del bianco e grigio delle strutture. Un set
abbandonato, questo pensa. Cerca in tasca le due monete per fare il biglietto.
Tutto è nuovo, se ne sente l’odore. Scende in una stazione del centro. Pochi
viaggiatori. Sarà questione di orari. Dovrà fare un paio di tragitti nelle
diverse ore della giornata. L’ascensore è grande, una teca argentea, la
prossima volta scenderà con la scala mobile. Macchina-metro-metro-macchina. In
tutto un buon quarantacinque minuti di sali e scendi. Dovrebbe partire da
stazioni diverse dalla sua, le suggerisce la sua mente di cronista. Lei abita
nella periferia sud della città, una piccola città. L’unica città di quelle
dimensioni in Europa ad avere i bruchi nel ventre. Magari in altre zone la
cattedrale underground sarà più frequentata e il rito metropolitano potrebbe
assurgere al fasto che gli compete. Lì sotto la vita sembra sospesa. I profili
metallici dei corrimani dei pilastri. Porte scorrevoli che ingoiano
silenziosamente i viaggiatori per vomitarli in un altro luogo. Tutto
automatico. Claudia conosce le metropolitane di altre città europee: Milano,
Londra, Barcellona, Parigi, Napoli. Nella loro
pancia c’è un’altra vita fatta di passi affrettati, di voci che si rincorrono,
di rumori e colori. Musicisti che strimpellano, persino negozi, bar e librerie.
Nella sua città la metropolitana è grigia, di varie sfumature di grigio.
Nemmeno un manifesto pubblicitario. Tra poco arriveranno, lo sa. Claudia coglie
la conversazione di due viaggiatrici, labbra sottili, capelli di colore
indefinito, di quando la tinta non prende più e il nuovo colore diventa grigio
topo o biondo stinto, a seconda dei casi. Messa in piega con bigodini laccata a
dovere. Tengono la borsetta stretta sotto il braccio e si guardano intorno.
‒
Però è bella, così. È pulita.
‒
Speriamo che lo rimanga, pulita. Con tutti questi stranieri che girano.
Un’opaca
sospensione di vita. Alle due donne piace il silenzio e il grigiore, interrotto
solo occasionalmente da figure umane distinte e isolate. Si parla sottovoce,
proprio come in chiesa.
La mattina seguente Claudia si prepara a fare un’altra ispezione nel ventre della città. Stavolta ha deciso: partirà dal capolinea opposto, zona nord. Il cielo è sempre carico di nuvoloni scuri. Si prepara un acquazzone. Indossa gli stivali impermeabili e un soprabito col cappuccio. Entra in ascensore e, così bardata, quasi non s’accorge di Amalia che è lì.
‒
Ciao, Claudia
‒
Amalia! Dove stai andando? Da sola e con questo tempaccio?
‒
Veramente venivo da te.
‒ Da
me? Ma io sto uscendo. Ci vediamo nel pomeriggio?
Amalia
si stringe nelle spalle. Claudia legge la delusione nei suoi occhi, mentre
l’ascensore atterra con uno scossone.
‒
Siamo arrivati, io esco e tu torna su a casa.
Amalia
si sporge e le dà un bacio umido, inaspettato. Claudia ha la sensazione che
Amalia non si sia soffiata bene il naso. Cerca nella borsa un fazzolettino e si
deterge. La porta dell’ascensore si richiude.
Macchina-metro-metro-macchina. Un chiasmo faticoso, pensa Claudia rientrando e fermandosi
davanti al portone per prendere le chiavi dalla borsa. Solleva finalmente la
testa e davanti ai citofoni c’è Amalia.
‒
Cosa fai qui? Sei tutta bagnata.
Amalia
passa il dito sui nomi degli inquilini. Come se non sapesse a chi suonare. Il
suo dito indugia su un nome. Non il suo.
‒
Chi cerchi?
‒
Sono rimasta fuori, sono senza chiavi.
‒
Dai, apro io che ci bagniamo, su. Vieni da me. Com’è che sei rimasta fuori? E
tuo marito?
Claudia
in ascensore la guarda meglio. Ha i capelli scompigliati Amalia. Indossa una
tuta verde stinta. Una sciatteria che non le appartiene. Stringe in mano un
sacchetto di plastica bianca, continua ad arrotolare i manici attorno alle dita
di una mano. Gli occhi rapiti in chissà quale visione.
‒Asciugati
un po’ ‒ Claudia le porge un asciugamani.
Amalia
non risponde, lascia cadere la salvietta a terra come se non la vedesse.
Claudia fa finta di niente, la raccoglie e l’appoggia sulla spalliera di una
sedia.
‒
Lui, e la sua…
‒ Di
chi parli, Amalia?
‒ Io
ti ho vista parlare con lei.
‒
Chi?
‒ La
bionda col cane. Ti ho vista parlare con lei. Non dormiamo più insieme, con mio
marito. Sono stata io a pretenderlo, eh! ‒ Amalia salta di palo in frasca.
Questa è l’impressione di Claudia. È costretta a ricomporre i pezzi di un
puzzle ingarbugliato.
‒ Ma
di chi parli ora? Di tuo marito e la signora col cagnolino? Cosa vai a pensare,
alla nostra età.
Claudia
si è messa nel numero, nonostante i quasi trent’anni di differenza. Le sembra
brutto rivolgersi ad Amalia, sottolineandone l’età. La sua amica non ribatte
per correggere l’affermazione. Il suo pensiero è altrove. Lo sguardo di Amalia
a tratti si accende di lampi mai visti per tornare rapidamente alla placidità
innaturale del suo stato.
‒ E
invece ti dico che è così, è già successo, io l’ho perdonato più volte. Adesso
dormo sul divano.
‒
Cosa pensi di fare?
‒
Voglio tornare a casa, non ho le chiavi.
Amalia
tormenta il sacchetto di plastica che stringe tra le mani. I suoi movimenti si
ripetono identici, senza frenesia, senza rabbia. Sovrappensiero, in un
automatismo incontrollabile.
‒
Ecco il telefono, chiama, e vediamo se tuo marito è rientrato.
Amalia
non dice di no, prende la cornetta, marca il numero. La risposta è immediata.
‒ Io
sono rimasta fuori. Telefono dalla casa della signora… non ricordo il nome.
Vengo a casa.
Chiude
la comunicazione e restituisce la cornetta a Claudia.
‒
Vuoi che venga con te?
‒
No, lui ha paura di te. Sa che ti dico le cose.
Amalia
esce, prende l’ascensore e sale al suo piano. Claudia tende l’orecchio per
assicurarsi che rientri. Si rilassa quando sente la porta richiudersi.
Il
pc è lì che aspetta il suo pezzo di colore sulla metropolitana.
“Non
basteranno trent'anni a pagarla, la tetra cattedrale sotterranea…” Claudia si
ferma, chiude il documento. Sul monitor la finestra del word: salvare il
documento? NO.
File.
Nuovo documento.
“Amalia
ha ottantacinque anni, un filo di perle sul golfino di cashmere…”
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