Sì,
lo so. È la solita solfa: i due giorni prima della partenza vacanziera ti dici
che non ce la farai. Non ce la farai a pensare a tutto, sapendo benissimo che
mancherà sempre qualcosa. Qualcuno guarda piegare la sua roba con l’aria di
sorvegliare il buon andamento dei lavori con sopracciglio critico. Io ho la
schiena spaccata, la spalla che mi sussurra ad ogni istante di stare attenta,
che quello stiramento lì, proprio quello di allungarmi verso l’altra parte del
letto per acchiappare un paio di calzini, non lo posso fare. Mi tengo il dolore
a bada, stringo il deltoide sinistro e, strizzando gli occhi e tutti i muscoli
facciali (pare che ne abbiamo una ventina circa, a voler trascurare i muscoli
dei follicoli che fanno rizzare i peli) aspetto che il tendine faccia silenzio,
ritorni nella sua posizione, smetta di urlare nel braccio.
Porcamiseriachemale.
Agogno
il momento in cui stringerò il volante tra le mani, quel fantastico momento in
cui il culo sarà bel saldo sul sedile, occhiali da guida (una tortura
cambiarseli a giro trino, da lontano, da vicino, da sole) sul naso e via.
Certo, le valigie sono state sistemate dopo isteriche discussione su se sia
meglio infilare i bagagli grandi e solo successivamente i meno ingombranti
negli interstizi (io), o accumulare oggetti contundenti e fragili, canne da
pesca et similia, (l’altro). Se ti si spaccano gli anelli della canna, ti
arrangi. Lasciarlo da solo a caricare senza consulenze inascoltate è stata la
mia piccola vendetta. Il deltoide sghignazza: va’ là, chi ha portato giù tutti
i bagagli? Chi li ha accumulati vicino vicino allo sportello del bagagliaio di
Tamarra per agevolare la fatica? Non rispondo nemmeno (un aiuto c’è stato, da
parte della figlia che ha avuto il gomito insaccato e, fresca di terapia ma non
ristabilita, si è aggregata alla brigata).
Comunque
si parte, imbronciati. La speranza è sempre la stessa, anche lei sorella della
solfa: nei chilometri che ci si stendono davanti, nelle miglia marine che ci
aspettano gli animi si rassereneranno. Forse. Se oggi seren non è, doman
seren sarà, se non sarà seren si rasserenerà.
Affacciata
sui flutti dall’alto del deck n.9 della nave, mi lascio ipnotizzare dalla
schiuma delle onde prodotte dai motori. Immagino di immergermi, non so nuotare.
Quanto potrei resistere? Mi agiterei come una forsennata finché l’acqua non mi
avrà risucchiata inesorabilmente o mi abbandonerei alla liquida massa fagocitante?
Mi viene in mente subito la scena di Lezioni di piano: affonderei placida
(col)legata al mio cellulare, in mancanza di un pianoforte. Qualcuno verrà a
salvarmi? Dubito.
Guardo
l’orizzonte e respiro a fondo. Con quale animo si parte? Dipende. Con quale animo
saranno partiti i disperati dei gommoni? L’immagine dei loro corpi in fondo
alle onde, adagiati su letti di anemoni o di posidonie finché qualche abitante
delle acque non ne farà scempio, finché il tempo non avrà disfatto
completamente le fibre enfiate, è impressa sulle acque. Li vedo. Alcuni con gli occhi aperti
nella sorpresa, altri a ciglia serrate nella rassegnazione. Due si tengono per
mano. Li vedo con altri occhi che non sono i miei abbacinati dal sole entusiasta, e
splendente.
Non
vorrei abbandonarmi ai sensi di colpa, ma il pensiero di questo viaggio in
superficie nella consapevolezza che le ombre di quell’Ade marino mi guardano
non mi abbandona. I nostri sorrisi forzati della partenza si vanno spegnendo
nella preghiera per i defunti. Per coloro che mai toccheranno le sacre sponde
delle nuove terre. Mi pare di sentire le loro urla, i loro lamenti gorgoglianti
nell’ultima boccata d’aria e d’acqua.
Non bisogna guardarsi indietro, avanti sempre avanti. L’adagio suona
fasullo, emerge dai flutti e si innalza invisibile fino a mio viso rorido di
vapori salati. Salati come lacrime.
Penso
di inneggiare alla vita e sono affollata di morti. Non sarò nemmeno in gradi di
sublimare i miei incubi in parole rotonde come quelle di Edna O’ Brien (la cui
meravigliosa autobiografia mi fa compagnia durante il viaggio) in una trentina
di capolavori letterari, né di ricorrere come lei allo psicanalista. Non credo
alla psicanalisi. Non smuove di un millimetro ciò che siamo stati capaci di fare o ci
accingiamo a fare. Il narciso donato a Virginia Woolf da Freud nella casa di
Hampstead non l’ha trattenuta dal riempirsi le tasche di sassi prima di
incamminarsi nelle acque dell’Ouse. E non ho neppure tanti soldi come la O’
Brien da sperperare. Però come lei campo tra vivi e morti, che ringrazio tutti
anch’io. Sarà il mio scarso talento a tenermi lontana dal coraggio di queste
donne? O la mia mediocre adesione alla vita?
Dal
Messico arrivano notizie di giovani trucidati nelle loro abitazioni. I
mendicanti al Pireo sembrano aumentare a vista d’occhio. Intere famiglie
(probabilmente nomadi) dormono sui prati davanti alla metropolitana, le loro
donne tutte giovani e gravide. Il mondo mi si offre alla scoperta di dolore e
dolore.
Bisogna
smettere di far cattivo sangue per le miserie quotidiane, per le beghe di valigie
e cazzate varie. Quei piccoli dispiaceri che diventano un grumo di malessere
insormontabile. C’è altro a cui badare. Cosa posso fare? C’è una parola
splendente in greco: δωρον. I doni, per quanto non ricambiati (e succede anche
questo) mi tengono a galla. Minuzie da regalare, briciole di me agli altri. Mi
lascio mangiare per vivere io stessa. Io mi salvo così. Per lo meno così è
andata fino a oggi. Aprirò il borsellino ogni volta che potrò per mendicanti,
ragazzini, vecchie signore e musicanti di strada. Non sono ricca e ho sempre
odiato l'elemosima pelosa. Ma cosa posso fare? Ho cantato insieme a una signora
dalla pelle riarsa, con chitarra in mano, nel parco del museo sotto l’Acropoli.
Abbiamo unito le nostre voci nel classico Volare, allargando le braccia sulle
quelle note usate. Una briciola di euforia che ho concesso al mio cuore e spero
al suo. Sorrisi scambiati e luce negli occhi.
Domani
camminerò sulla battigia, osservando i miei piedi imprimere docili orme sulla
sabbia bagnata. Mi girerò indietro giusto il tempo per vedere la cresta
dell’onda cancellarne i segni. L’ultimo a sparire, l’alluce.
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