Sono nel porto di Igoumenitsa, in fila sul molo, mescolata a
tante altre persone. Non faccio caso a loro. Presto più volentieri orecchio
allo scambio di battute tra marinai napoletani e greci, tra un malachas e un
chi t’è muort’ mi perdo un po’ nelle sonorità mediterranee. Le parole note e
ancor più quelle sconosciute sono la mia fissazione, la mia maledizione. Poi mi
accorgo che non sono tra turisti, ma tra famiglie di almeno tre generazioni. Vecchi
signori con collane e medaglia, signore
con fazzoletti a fiori a raccogliere i capelli, ragazze col velo e ragazze
senza, sorrisi che luccicano di bianco e oro, bambini attaccati alle gonne
delle loro mamme. Una di loro, Tania, mi dice, dopo un paio di sguardi, che lei
lavora come badante. Solo allora capisco che faccio la fila con un gruppo di
emigranti slavi. Bulgari per la precisione.
Saliamo sul traghetto. Il mio
compagno è nel ventre della nave a parcheggiare. Mi dirigo verso la cabina
assegnataci. Uno slalom tra coperte di velluto sintetico a fiori stese nei
corridoi e su ogni spazio calpestabile, cuscini di raso con volant, fagotti
aperti, piedi in bella vista. Non ci sono cattivi odori. Sguardi febbrili sul
viso degli uomini, malinconici sui volti delle donne, incorniciati da crocchie
di capelli setosi e corvini.
Al mattino, prima dello sbarco,
ripercorro il mio itinerario tra ostacoli vari. Alcuni aitanti giovanotti
escono dalle toilette con l’asciugamano sulla spalla. Scanso due bambini che dormono abbracciati. Una ragazzina si
trucca aiutata dall’amica: camicetta azzurra di maglina lucida, fiore di stoffa
nei capelli, gonna con cintura di paillette. Una mamma, avrà sì e no vent’anni,
deterge il culetto roseo di una bambina poggiata nel vano di un oblò nella sala
del bar. Sui tavolini gli avanzi delle cene, bicchieri di plastica, una
bottiglia di Gordon’s, ormai vuota, che ammicca. Si spande l’odore del caffè. Mentre aspetto
che il mio compagno venga buttato fuori dalla cabina (lui e il dio sonno hanno
una relazione mattiniera intensa) mi ordino un cappuccino e cerco un posto per sedermi. Difficile.
Poi raccolgo uno sguardo che mi guida verso una sedia disponibile. Gli occhi
che mi hanno sfiorato sono di un uomo di circa cinquant’anni (azzardo, perché
ne dimostra di più). Ha un solo dente nell’arcata superiore, ma uno sguardo da
pirata. Accanto a lui un ragazzo gli insegna a dire : mercato, bambino, acqua. Il suono "cqua" gli riesce difficile, lo ripete ridendo.
Poi a un certo punto il “vecchio" lo interrompe e gli chiede con una certa
ansietà: mercato, bazar? Il giovane annuisce. Annuisco anch’io, come se potessi
intervenire in quella estemporanea didattica.
Mi intenerisce l’umiltà dell’adulto
maturo di fronte alla dolce generosità del ragazzo più esperto.
L’odore forte di tabacco mi
stordisce e mi dà la nausea, un retaggio delle gravidanze.
E poi arrivano loro, una coppia
di turisti: lei ha un tailleur pantalone di lino bianco con camicetta nera,
borsa bianca profilata di nero, sandali infradito di marca; lui sembra reduce
da un safari: pantalone al ginocchio blu (civettuoli laccetti griffati ne arricciano l'orlo) con tasche dappertutto, maglietta kaki
con coccodrillo a fauci spalancate, cappello texano con laccetto di cuoio,
scarpe da trekking color sabbia, senza calzini (fa più fico?). Vorrebbero
sedersi. Picche, risponde coralmente il salone affollato. I tavoli rigurgitano
di persone, molti hanno i bambini sulle ginocchia, schioccano baci. La coppia
arriccia il muso come la gallina che non riesce a far l’uovo, mi guarda come a dire: che schifo. Anzi se lo
dicono tra di loro. “Non pensavamo tanti!”. Questa nave non la prendiamo più!”.
Poi cominciano a parlare della Grecia entusiasti dei peperoni fritti (Boh,
penso io che i peperoni li mangio anche in Italia), delle melanzane (idem), del
Chefalotiri (pecorino di quello vero) e gongolano dell’incontro con l’esotico,
si compiacciono della semplicità (loro dicono: ma sono indietro!) dei padroni o
gestori degli studios. “Che bello, però!”
I neocoloniali a questo punto, notato il mio sguardo che li sfiora senza vederli, pensano che sia
una di loro, degli altri, e non si
preoccupano delle corbellerie che riescono ad accumulare in pochi minuti.
La nausea mi prende più forte,
anche se nessuno sta fumando da un po’. Vorrei dire loro che lo yogurt è un’invenzione
dei bulgari, che l’acqua di rose che la signora si sta spargendo sulle mani,"ma che odore c'è?", è
bulgara. Rinuncio. Preferisco ancora bearmi della bellezza opulenta di quelle
crocchie scure (qualcuna delle nonne si sistema il velo), della “Bubamara” che si fa pettinare dall’amica, della mamma
che provvede all’igiene della bambina. Un culetto da mangiare di baci. Mi
commuovo davanti al coraggio di questi uomini, alla fierezza di queste donne
che fanno casa sull’impiantito di un traghetto, ridono e scherzano tra loro per
prepararsi a un’avventura sconosciuta. Affermano con forza il loro diritto a esistere. Si danno coraggio. "Bubamara" si passa un
filo di rossetto e trova una posizione meno precaria al fiore ribelle tra i capelli. E io sento il violino di Goran, lo sbattere delle ali dell’oca,
il grugno del maiale che rosicchia un fanale di automobile, vedo persino un
gatto nero e un gatto bianco. Applaudo silenziosamente e ringrazio.
E mi sembra di sentirli, quei profumi, gli idiomi sbocconcellati, gli sguardi... è sempre un'avventura leggere quello che scrivi. Brava, Marì.
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