domenica 21 febbraio 2016

Il posto giusto





Sono trentatré gli anni trascorsi. Le porte del tempo si aprono esattamente alla metà della mia vita. Se non fosse per questa foto ora avrei dimenticato un sacco di cose. Il vestito di garza indiana, trafugato a mia sorella che lo aveva dismesso, la luce dorata di un pomeriggio di agosto sul mare di Calabria, la prima vera vacanza della nostra vita, il secondo bambino dopo sette anni, anche lui biondo e bello e di gentile aspetto. Per la precisione trentatré anni e sei mesi dalla sua nascita.


- Si accomodi. Allora, lei è qui per abortire.

Non signora. Né signorina. Il buongiorno è solo mio.

Di fronte al ginecologo, che sapevo cattolico e obiettore, primario dell’ospedale di paese, queste parole mi colpirono come una scudisciata. Rimasi a bocca socchiusa per alcuni lunghissimi istanti. Proprio io che con le parole ricamo istintivi sproloqui e passionali invettive. Ricordo di aver detto che ero lì per controllare se ci fosse una gravidanza in atto. Che le prime analisi delle urine non erano chiare. Secca, quasi perentoria. Non concessi nulla alla conversazione col bruto. Mi confermò la gravidanza, ordinò una ecografia. Sarei dovuta tornare a esame effettuato. Non ci tornai più. Mi rimase addosso la sensazione di quello sguardo torvo, di quelle parole così sgradevoli e inquisitorie. Un ricordo rimasto a infastidirmi per tutto il tempo che intercorse fino al parto.

Oggi, che è il ventuno febbraio 2016, ho ripescato per caso questa foto sbiadita dallo scatolone di cartone, che straborda di vecchi piccoli album in cui i fotografi sistemavano le foto dopo la stampa. Plastica marrone la copertina, fogli di luce e tessere di vita all'interno. Un mosaico che va perdendo colore e definizione.

Mi chiesi già allora cosa mai avesse indotto il medico a farmi quella domanda brutale, ingiustificata. Forse la risposta è in quel vestito di garza indiana, nei miei ricci scomposti. O forse nell’anulare nudo del brillio dell’oro. La fede nunziale mi ha sempre dato fastidio e, pur amando gli anelli (ne regalo spesso, scegliendoli con cura e badando al dettaglio) non ne ho mai portati. Era bastato il mio abbigliamento a mettermi nella lista delle “svergognate”, ad assegnarmi intenzioni estranee, di più, ripulsive. Ero vestita da hyppie, mi si dice. Come se. Da hyppie mi vestii per tutta la gestazione. Sostituii gli abiti prémaman, di pieghe e fiocchetti e volant, leziosaggini impure, con vestiti indiani, severi nella linea, ma ricamati e intarsiati di specchietti, di laccetti a chiudere la scollatura. Ne facevano anche di pesanti, adatti all’inverno dell’attesa. Al sopraggiungere dell’estate successiva, col bambinello di sei mesi, rispolverai il vestito di garza, ché nulla si buttava, e in una casa con quattro sorelle il riciclo era occasione di divertimento e contiguità di affetti. Le cose si buttano quando si rompono e non si posso più riparare.

Oggi guardo quello che trentatré anni fa mi toccò in sorte. Un vestito di garza indiana, una treccia nera (al mare i ricci s’ingarbugliano) e un altro bambino da tenere in braccio. In braccio lo terrei ancora adesso, se non fosse per la sopraggiunta difficoltà delle proporzioni corporee e le forze centrifughe della vita, ma lì, tra le mie braccia, ci rimarrà, anche quando non saprà di esserci o farà finta di non saperlo, in barba al tempo trascorso e futuro, fino a quando il colore delle fotografie sarà del tutto stinto, fino a quando io ci sarò, e anche oltre. Il posto giusto per un compleanno.