Sono trentatré gli anni trascorsi.
Le porte del tempo si aprono esattamente alla metà della mia vita. Se non fosse
per questa foto ora avrei dimenticato un sacco di cose. Il vestito di garza
indiana, trafugato a mia sorella che lo aveva dismesso, la luce dorata di un
pomeriggio di agosto sul mare di Calabria, la prima vera vacanza della nostra
vita, il secondo bambino dopo sette anni, anche lui biondo e bello e di gentile
aspetto. Per la precisione trentatré anni e sei mesi dalla sua nascita.
- Si accomodi. Allora, lei è qui per abortire.
Non signora. Né signorina. Il
buongiorno è solo mio.
Di fronte al ginecologo, che
sapevo cattolico e obiettore, primario dell’ospedale di paese, queste parole mi
colpirono come una scudisciata. Rimasi a bocca socchiusa per alcuni lunghissimi
istanti. Proprio io che con le parole ricamo istintivi sproloqui e passionali invettive.
Ricordo di aver detto che ero lì per controllare se ci fosse una gravidanza in
atto. Che le prime analisi delle urine non erano chiare. Secca, quasi
perentoria. Non concessi nulla alla conversazione col bruto. Mi confermò la
gravidanza, ordinò una ecografia. Sarei dovuta tornare a esame effettuato. Non
ci tornai più. Mi rimase addosso la sensazione di quello sguardo torvo, di
quelle parole così sgradevoli e inquisitorie. Un ricordo rimasto a infastidirmi
per tutto il tempo che intercorse fino al parto.
Oggi, che è il ventuno febbraio
2016, ho ripescato per caso questa foto sbiadita dallo scatolone di cartone,
che straborda di vecchi piccoli album in cui i fotografi sistemavano le foto
dopo la stampa. Plastica marrone la copertina, fogli di luce e tessere
di vita all'interno. Un mosaico che va perdendo colore e definizione.
Mi chiesi già allora cosa mai
avesse indotto il medico a farmi quella domanda brutale, ingiustificata. Forse
la risposta è in quel vestito di garza indiana, nei miei ricci scomposti. O
forse nell’anulare nudo del brillio dell’oro. La fede nunziale mi ha sempre
dato fastidio e, pur amando gli anelli (ne regalo spesso, scegliendoli con cura
e badando al dettaglio) non ne ho mai portati. Era bastato il mio abbigliamento
a mettermi nella lista delle “svergognate”, ad assegnarmi intenzioni estranee,
di più, ripulsive. Ero vestita da hyppie, mi si dice. Come se. Da hyppie mi
vestii per tutta la gestazione. Sostituii gli abiti prémaman, di pieghe e
fiocchetti e volant, leziosaggini impure, con vestiti indiani, severi nella
linea, ma ricamati e intarsiati di specchietti, di laccetti a chiudere la
scollatura. Ne facevano anche di pesanti, adatti all’inverno dell’attesa. Al
sopraggiungere dell’estate successiva, col bambinello di sei mesi, rispolverai
il vestito di garza, ché nulla si buttava, e in una casa con quattro sorelle il
riciclo era occasione di divertimento e contiguità di affetti. Le cose si buttano
quando si rompono e non si posso più riparare.
Oggi guardo quello che trentatré
anni fa mi toccò in sorte. Un vestito di garza indiana, una treccia nera (al
mare i ricci s’ingarbugliano) e un altro bambino da tenere in braccio. In
braccio lo terrei ancora adesso, se non fosse per la sopraggiunta difficoltà
delle proporzioni corporee e le forze centrifughe della vita, ma lì, tra le mie
braccia, ci rimarrà, anche quando non saprà di esserci o farà finta di non saperlo,
in barba al tempo trascorso e futuro, fino a quando il colore delle fotografie
sarà del tutto stinto, fino a quando io ci sarò, e anche oltre. Il posto giusto
per un compleanno.
Nessun commento:
Posta un commento