Non so se da grande sarò una
scrittrice. Le mie trecce penzolavano come lucido nero cordame sulle spalle e
già scrivevo. Cronache, temi, riassunti e canzoni senza musica. E la maestra mi mandava in giro per la
scuola a leggere nelle classi i miei fogli stropicciati per la vergogna. Quando battevano le mani ero già sulla porta. La madre superiora faceva finta di sorridere, ma
per lei ero sprudente, cioè non prudente, anzi maleducata, perché rispondevo a
tono alle ingiunzioni sciocche. Non datevi la mano, bambine, non prendetevi a
braccetto, tenete gli occhi bassi. Bassi a chi? Io ero piccolissima di statura,
ma era me che lei mandava alla sede statale della scuola a sbrigare pratiche
burocratiche.
Correvo per le strade del paese,
in discesa e in salita. E il ritmo del passo erano le trecce a batterlo. Le trecce
nere, scudisci spessi e fruscianti. Ali di corvo con riflessi blu
iridescenti. E nelle, pause delle corse, i salti sulle campane tracciate per
terra col gessetto rubato dalla lavagna.
Non so se sarò scrittrice da
grande, nemmeno ora che la mia unica treccia cade più molle sulle spalle. Ed è
bianca.
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