giovedì 3 dicembre 2015

Il tempo delle nere trecce







Non so se da grande sarò una scrittrice. Le mie trecce penzolavano come lucido nero cordame sulle spalle e già scrivevo. Cronache, temi, riassunti e canzoni senza musica. E la maestra mi mandava in giro per la scuola a leggere nelle classi i miei fogli stropicciati per la vergogna. Quando battevano le mani ero già sulla porta. La madre superiora faceva finta di sorridere, ma per lei ero sprudente, cioè non prudente, anzi maleducata, perché rispondevo a tono alle ingiunzioni sciocche. Non datevi la mano, bambine, non prendetevi a braccetto, tenete gli occhi bassi. Bassi a chi? Io ero piccolissima di statura, ma era me che lei mandava alla sede statale della scuola a sbrigare pratiche burocratiche.
Correvo per le strade del paese, in discesa e in salita. E il ritmo del passo erano le trecce a batterlo. Le trecce nere, scudisci spessi e fruscianti.  Ali di corvo con riflessi blu iridescenti. E nelle, pause delle corse, i salti sulle campane tracciate per terra col gessetto rubato dalla lavagna.
Non so se sarò scrittrice da grande, nemmeno ora che la mia unica treccia cade più molle sulle spalle. Ed è bianca.

sabato 3 ottobre 2015

B(orsite) & B(andiera)














Susanna lo pensava da tempo. Ma quella mattina ne fu convinta categoricamente. Lei e gli acciacchi  avevano un’intesa formidabile. Quasi un attaccamento affettuoso. In realtà li temeva, ma loro se ne infischiavano altamente. Però con rispetto. Cosa voleva dire? Che se la madama Borsite aveva deciso di stabilirsi e diventare cronica, lei/essa non aveva scelto a caso. Si era insidiata sotto l’omero sinistro e di lì operava uno scavo profondo, tenace, con chiara intenzione egemonica, ma non invadeva ancora la spalla destra.
Sa che io con la sinistra non ci faccio nulla, nemmeno un bicchiere sollevo. Per non parlare della Sinistra del cuore, la mia squadra preferita, che da un pezzo se l’è data a gambe. Qualche comparsata ai funerali e basta, bofonchiava Susanna.
Che fai, piangi per Pietro?
No, macché! La borsite, è la borsite maledetta. E Susanna giù lacrime di pena, una pena cosmica, dura ma friabile come il calcare.
Poteva dire, a sua giustificazione, che ormai piangeva per qualsiasi cosa la commuovesse appena appena, dando la stura alle sorgenti del rorido fiume sulle sue guance non ancora avvizzite del tutto. Colpa della borsite. La borsite custodiva come una vestale immacolata la sua dignità, il suo aplomb. Quasi la irritava, tuttavia, che la destra parte della sua impalcatura ossea ancora teneva botta. Qualche volta quasi per gelosia la destra cercava di attirare l’attenzione. Si sa, borbottava Susanna tra sé e sé, è gelosia tra sorelle, cupole e scapole, tra fratelli, omeri impoetici. Persino l’afflizione poteva essere oggetto di invidia: lì, sotto l’occhio della televisione, accorsa alle esequie del compagno Pietro. Si trattava pur sempre di immagine e bisognava sfruttare quel grande fratello che spiava nelle narici e nelle orbite degli astanti l’umidore elegantemente trattenuto.
Il dilemma rimaneva ancora quello del buon Vladimir Ilijc: che fare?
Ringraziò la sua destra parte se poteva ancora reggere quella bandiera rossa in mezzo alla gente. Così pianse senza ritegno per Pietro. Senza che alcuno potesse apostrofarla con un laido èlavitachecivuoifare, primaopoitoccaatutti.
Maledetta borsite, è la borsite. Ché non lo sapeva Susanna che sarebbe toccata a tutti e persino a te, Sinistradestra maledetta, imprecò.
Si sedette su un muretto al limite della piazzetta mentre le note della Bellaciao si perdevano nell’aria.
Sono anche scoordinati, constatò Susanna che aveva l’orecchio musicale ancora vivo. Nelle manifestazioni era lei che intonava e dava il ritmo agli slogan del gruppo di donne di cui faceva parte. Dodecasillabo, dev’essere dodecasillabo, sorelle compagne!
Sciolse la bandiera dal bastone, la ripiegò con diligenza prima in due, poi in quattro, poi in otto e infine in sedici: un rettangolino grande come un libro tascabile. Impugnò il bastone e se ne tornò a casa. Sebben che siamo donne//paura non abbiamo ritmò i suoi passi incerti. Non era vecchia come Pietro, Susanna aveva avuto il tempo di sentire una ragazzetta belloccia dire che sarebbe voluta nascere o vivere nel 1942, proprio come lei. Ma che avevano in testa ‘ste ragazze d’oggi?

giovedì 17 settembre 2015

Uno sguardo dal porto











I porti greci, Pireo a parte, sono posti tranquilli. Sonnacchiosi, pigri. Si vegliano improvvisamente dal nulla solo quando una nave attracca e riparte. Anche a Mitilini. Come quasi tutti i porti che abbiamo visitato sembra funzionare da solo, è praticamente “autogestito”. Nessun cartello, nessuna indicazione sulla disposizione all’imbarco. Un Exodos o un Eisodos sono tutto quello che la segnaletica concede. Tuttavia per il viaggiatore basta seguire l’onda, prima o poi un funzionario o una guardia vi si materializza davanti e vi dà una mano. Tutto in greco, con qualche parola di inglese. Loro. Noi greco tipota, e praticamente meno di nulla in inglese. Benedetta sia la gestualità mediterranea, loquace come poche altre: i gesti, i sorrisi, le esclamazioni o le imprecazioni vanno tutti “in porto”.
Capita spesso di stazionare sulla banchina prima dell’imbarco. Lì, si assapora il senso del tempo. Quando non devi fare null’altro che aspettare. Di notte conti le stelle, di giorno cerchi di difenderti dal caldo per non trasformarti in uno stoccafisso stecchito dall’aria: acqua, cappello e portiera dell’automobile aperta per un po’ di ombra.
In questi hanno ho osservato divertita e ammirata come le famiglie di emigrati turchi che provengono dalla Germania trasformino lo spazio attorno in accampamenti. Mentre gli uomini oziano e fumano, ciascuno come molti turchi, le donne si danno da fare: si stendono coperte, si aprono contenitori di cibo, si affetta il pane e si nutre tutti. La cosa che non smette di stupirmi è come facciano queste donne a muoversi con sicurezza ed efficienza, bardate con velo e abiti con manica lunga, a sopravvivere alla fatica. Inappuntabili, controllate. Parlano sottovoce, non danno in escandescenze. Le invidio per questo e ne ho pena vedendole così “prigioniere” degli abiti. Loro non si scompongono. Sembra. Hanno automobili grandi, spesso furgoni, e pagano i biglietti del traghetto. Viaggiatori qualsiasi verso i paesi d’origine.

Quest’anno gli emigranti si chiamano rifugiati.

A Samo: li abbiamo visti. Girano in gruppi di dieci o quindici persone ai margini delle strade nell'isola. Sono per lo più giovani uomini, ma ogni tanto c'è con loro una donna velata e bambini attaccati alla gonna. Più indietro, qualche anziano. Hanno dei fagotti come quelli con le cocche nelle storie di Remy, piccoli zaini, borse di plastica. Oggi il mucchio dei fagotti ha attirato la nostra attenzione sul lungomare di Vathi, la capitale di Samo. Alziamo lo sguardo con pudore: allineati contro il muro ci sono i giovani. Gli altri sono seduti sotto la rada ombra di qualche albero. Un funzionario di polizia (?) mette sul petto di ciascuno un cartello prima di fotografarli. Ha una mascherina sulla bocca. Stavolta li abbiamo visti di persona. La bocca si allappa, i denti si stringono, gli occhi si abbassano. Il mare attorno a queste isole ogni tanto fiorisce di grandi fiori arancione: galleggiano giubbini di salvataggio, abbandonati alla deriva. Basta questo per capire la tragedia che si sta consumando sotto i nostri occhi. Stasera la luna tra gli alberi è particolarmente vivida, il tramonto ha sfoggiato la livrea più spettacolare. In lontananza brillano di rosso in un punto le coste della Turchia: la centrale elettrica. Chissà quanti altri si stanno affidando ai trafficanti di persone, alle onde scure. Non aggiungo parole, sono afasica. Dovrebbero bastare i fatti. La cronaca. Ma lo spettacolo sul piazzale del porto di Samo è ancora lì: ha un posto indelebile tra gli occhi e lo stomaco. Sembra un mercato delle pulci, o il mercato sui marciapiedi in fondo a Ballarò, quello che io chiamo il mercato "delle cose spaiate". Merce esposta sui marciapiedi o sul fondo stradale. Stracci ammucchiati, se non fosse per un paio di vezzose ballerine di finta vernice con fiore di plastica, che rilucono sotto la luce di un lampione, per un paio di sandali, per due scarpe invernali. Strani mucchi con piedi. La guardia impone ai mucchi di disfarsi per agevolare le operazioni di attracco della nave in arrivo. Non è cattiva, dice loro di alzarsi e allontanarsi. Si separano come cocci di vasi rotti in piccole unità dolenti, ciascuna col suo cartone. I più vecchi avranno al massimo una trentina d'anni. Delle donne difficile vedere l'età: sono velate e addossate alla recinzione del porto, sotto la pensilina. Un riguardo da parte degli uomini, spero. Sulla rete di recinzione sono stesi panni i cui colori si ingrigiscono nel buio: una rete che rimanda ad altri reticolari storici.

A Lesbo: scendendo dal traghetto, sfiliamo tra due ali di uomini in tuta mimetica. Dietro di loro l'accampamento. Meno male che questi hanno le tende, penso. Una Onlus francese distribuisce acqua. Poi lasciamo Mitilini e la sua popolazione accresciuta della metà, dicono i bene informati. Andiamo al mare, quello da cartolina. Quello che al tramonto diventa color del vino, ma che ti fa pensare a Omero e anche a Leonardo Sciascia. Un libro quasi obbligatorio leggere, Il mare color del vino, profetico e amaro. Chi non ricorda “Il lungo viaggio”? Anche quello un viaggio di speranza, di uomini ingannati dallo scafista dell’epoca, verso l’America. Sbarcati a loro insaputa sulla costa siciliana mentre si spegne piano piano l’illusione di essere arrivati nella terra sognata. “Non c’era fretta di portare a casa la notizia di essere sbarcati in Sicilia”.
Lesbo è percorsa da frotte di ragazzi, di donne e di bambini (pochi in verità). Procedono ai margini delle strade come pecorelle smarrite. Qualcuno ha una borsina di plastica, altri un asciugamano sulle spalle, altri nulla. Camminano come zombi instancabili, esseri invisibili ai più. Sembra un film di fantascienza. Dove dormiranno ora che s'è fatto buio? Dove appoggeranno la testa? Cosa mangeranno? Tutti gli altri intorno, noi compresi, passeggiamo, visitiamo musei, ci facciamo il bagno in un mare che ogni giorno perde lo splendore di cartolina, diventa il mistero da scrutare: quanti ancora ne arriveranno. Viene da pensare a come e quando si possono lavare, alla loro religione e alle abluzioni richieste per la preghiera. E alle donne, alle donne mestruate e non. Come faranno? Certo lavarsi non è una priorità. E se gli uomini possono calarsi nelle onde per rigenerarsi, alle donne non è permesso. Se dovessero bagnarsi, lo farebbero vestite di tutto punto, ma la sera gli abiti bagnati addosso sono freddi. Sulle spiagge non si vedono. Dietro muretti, alberi, case diroccate si proteggono dagli sguardi indiscreti. Come fanno a sopravvivere a tutto ciò? Stanotte la luna è piena, grandissima in perigeo, ma non basta a illuminare la strada di questi viandanti.
E poi c’è stato quel grande gommone grigio sulla spiaggia deserta di Plomari. Mezzo sgonfio. Mi sono avvicinata. È squarciato da una parte. Sembra rinforzato da strisce di gomma adesiva (presumo), verde smeraldo sul grigio. Non c'è nessuno. Sotto la parte ancora gonfia potrebbe esserci qualcuno o qualcosa. Non ce la faccio da sola a sollevarlo. In questo mare sta diventando difficile bagnarsi anche solo i piedi. Ritorno alla mia sediolina da spiaggia. Il telo giallo è sfrontato. Mi giro di spalle al sole. Io e le mie cazzate di sassi e tramonti. Di melanzane e feta. Di sirtaki e Mannoia a voce spiegata su youtube.
La partenza si annuncia difficile. 100 afgani hanno tentato di salire su una vane per il Pireo. Sono stati respinti con granate assordanti. A mezzanotte il porto di Mitilini è spettrale sotto le scarse luci a neon. I rifugiati si addensano. Lasciano le panchine, le code ai gyros, le poltroncine dei caffè (molti siedono ai caffè e consumano qualcosa tra telefonate frenetiche incessanti). Sono diversi da quelli di Samo. Meno arruffati, più sicuri. Tanti uomini parlano con i poliziotti: esibiscono biglietti e carte di imbarco. Saliamo finalmente e la porta della nostra cabina chiude fuori l’odore penetrante di piscio che a rivoli inondava tutto il piazzale, formando strane geometrie sul cemento. Non nascondo il sollievo. Sui bordi della banchina ancora file di tendine. S’aspetta il turno. Chi salirà sulle navi? Solo i Siriani in grado di pagare? Non è dato di saperlo. Kalò taxidi, rifugiati o emigranti che siate.