Gli ultimi giorni di vacanza si
trascinavano in una specie di malinconica consuetudine. L’euforia era del tutto
sopita. Claudia si chiese se lei e il suo compagno non partissero con la
segreta speranza di ridare calore e vita alla loro relazione. Talvolta le
coppie, in questi casi, fanno un figlio gettandosi in un precipizio che
nemmeno immaginano. Loro due partivano. Il viaggio, il tempo, il mare, il cibo
dai nuovi aromi e un orizzonte sconfinato dalla nave che li portava all’isola.
Lì si sarebbero amati di nuovo con passione nei pomeriggi dopo la spiaggia,
nella camera ombrosa e rinfrescata dal ventilatore a pala sul soffitto. Claudia
fantasticava. Quell’aria smossa la eccitava: carezze che si aggiungevano a
carezze mentre facevano l’amore; una sorta di espansione cosmica dell’eros,
consumato, bevuto, assimilato con tutto il suo essere in una stanza.
In spiaggia ci andava da sola.
Lui aveva la pelle delicata, non amava esporsi al sole e nemmeno fare il bagno.
Nato in un paese a picco sul mare, era abituato fin da bambino a nuotare in
acque fonde. Dagli scogli o ti butti o niente. Lei aveva conosciuto il mare da adulta,
non sapeva nuotare e galleggiava come una paperella quando si lava le penne. Ma
da tempo amava stare in acqua, si affidava al dondolio del mare. Compiva gesti
inusitati come mandargli baci. Quando lanciava le braccia in avanti per mimare
una bracciata, si portava le mani alla bocca e mandava baci all’acqua con i
suoi polpastrelli, sfiorando le increspature delle onde e chiamandola madre.
Era sempre più convinta di farsi cremare quando la sua vita si sarebbe esaurita.
Diceva in giro che desiderava che le sue ceneri fossero sparse nel mare Egeo,
così finalmente avrebbe imparato a nuotare.
Il mare dell’isola: a volte
accarezza, a volte respinge o inghiotte. Con le sue buone ragioni, pensava
Claudia. Siamo suoi figli, proveniamo da quel ventre fecondo. Ha tutti i motivi
per incazzarsi: ogni tanto sulla sua superficie anche qui galleggiano bolle di
schiuma non prodotta dallo sciacquio sulle onde, ma da qualche sversamento di
criminali. Nell’isola attribuiscono la responsabilità alle navi turche, e
probabilmente anche i Turchi attribuiscono agli isolani la stessa azione criminale.
Fatto sta che, come una madre con i suoi bambini, si arrabbia, si agita, minaccia.
Claudia ormai ragionava, o sragionava diceva il suo compagno, in questi termini:
il mare si incazza, il mare si offende, il mare ti perdona quando abbandona la
sua furia e torna ad accarezzarti come lenzuolo di seta.
-Sono le maree - sorrideva con indulgenza supponente lui.
- Ma con qualcuno devo parlare -
ribatteva Claudia. – Visto che sono da sola parlo col mare, e anche con le
pietre. Sono bellissime, anche il sasso più brutto racconta storie infinite.
Ogni strato un colore, una consistenza, un odore.
- Lo so che ti chiamano “la
signora che parla alle pietre" - di nuovo quel sorriso che Claudia non capiva,
non capiva proprio.
- Beh, intanto sono quella che
parla! Qui anche gli altri ospiti mi chiamano per salutarmi, per scambiare un
cenno con gli occhi quando le lingue si ingarbugliano attorno a quell’inglese
bistrattato e ridotto ai minimi termini. E quando ce ne andiamo, ogni anno
lasciamo occhi lucidi dietro di noi. Come credi che avvenga tutto ciò. Te lo
dico io anche se lo sai benissimo. Con la parola: balbettata, annuita,
accennata, monca, sbagliata. Non sai quante cazzate mi vengono fuori e anche in
chi mi parla. Qualche volta si ride perché non riusciamo a capirci, ma ci intendiamo
lo stesso. Almeno c’è un elemento di gioia. Di sentimento condiviso. Do you understend? Katalaves?
Cominciarono a preparare i
bagagli già tre o quattro giorni prima della partenza.
- Che facciamo nel pomeriggio? -
chiese lui.
- Potremmo visitare il pezzo
dell’isola che va verso il promontorio al di là del golfo, quello con gli
sterrati.
Lui esitò. Sarebbe andato più
volentieri in paese a comprare i vermi per la pesca serale.
- Nulla ci impedisce di fare
entrambe le cose. Andremo a comprare i coreani sulla strada del ritorno. Così
non ti muoiono e non appestiamo il frigorifero con le bestie in decomposizione.
Lungo la strada Claudia lo faceva
fermare di botto tra le proteste di lui.
- Guarda che scorcio magnifico!
Scendiamo?
- Va bene, così do un’occhiata al
fondale. Se è sabbia, sarà buono per pescare. Meglio col galleggiante, non
correrò il rischio che gli ami si conficchino tra le pietre, e poi si spezzerà
la lenza, e addio.
- Guarda che colore ha il mare.
Come faremo a lasciare questo posto?
- Andiamo via, ci sono solo
sassi.
Si rimisero in macchina e
proseguirono. Quando l’asfalto finì nello sterrato, lui chiese.
- Che facciamo?
- Andiamo avanti, no?! Qui non
puoi nemmeno tornare indietro. Vediamo se c’è uno spiazzo dove fare la retro.
Lui eseguì.
- Ecco sotto quell’albero di
fico! Ti va bene?
- Lui eseguì.
La casa era isolata. Piccola, dipinta
di giallo canarino con le imposte blu squillante. All’imboccatura di un
vialetto laterale. Recintata da un muretto basso, un cancello chiuso impediva
l’accesso all’atrio, la cui pavimentazione era spaccata dalle erbe selvatiche
che stavano ormai occupando lo spazio. Il retro aveva tutto l’aspetto di quelle
costruzioni ampliate secondo necessità. Tetti di materiali diversi coprivano altri
due piccoli edifici. Alle spalle, un campo incolto, abitato, lo scoprirono
dopo, da due caprette legate da una cordicella, che li guardarono con occhi
antichi, sapienti di secoli. Maestoso, sul cancello, si ergeva un fico carico
di frutti maturi. Molti ne giacevano a terra appassiti o già decomposti. Una
bellezza inquieta, fatta di turgori e appassimenti. Una bellezza vera che
nasceva, cresceva e moriva nel ciclo vitale che la rendeva sodale di tutti gli
altri esseri. Un luogo selvatico, come la faccia delle caprette grigie che
brucavano guardinghe. Un luogo senza ammiccamenti.
- Ecco, qui sì che c’è la natura
selvaggia, indenne. Senza ammaestramenti e comodità. Ma come si fa a vivere
qui? - disse Claudia in preda a desideri contrastanti.
- Però è bello - se ne uscì lui
improvvisamente.
Claudia alzò la testa per
guardarlo. Raramente lo sentiva fare apprezzamenti sul panorama.
- Sarebbe bello anche venire qui
quando vogliamo stare da soli. Tu potresti scrivere in santa pace, io potrei
pescare. Qui il fondale è basso. Vedi? È sabbia – proseguì lui accostandosi a
una barca da pesca solitaria e in stato di apparente abbandono. - Potresti
anche fare il bagno, vedi?
- Sì, sembra un luogo vergine.
Chissà se la casa è in vendita. O se si affitta. Sarebbe il posto ideale per le
nostre due solitudini.
- Non credo si affitti, guarda
che è molto trascurata, a dir poco - Paolo ignorò la battuta sarcastica della
donna.
- Kalimera, kalimera! Kalò Iltate! -
Un fiume di parole incomprensibili, ma fascinose nel suono antico che
producevano, fluì dalla gola della signora che andò loro incontro per aprire il
cancello a metà del viale che evidentemente era di sua proprietà. La voce
acuta, dal tono musicale, proveniva dal fondo del sentiero a fianco della casa.
Una donna grassa, di bassa statura e capelli corti e abito blu, agitava le mani
in aria.
- Ecco avranno pensato che
vogliamo rubare i fichi - disse lui con una certa preoccupazione.
- Ma no, vado a vedere cosa
vuole. - Claudia si incamminò sul sentiero, si fermò un momento faccia a faccia
con le caprette e fu allora che ne incrociò gli occhi gialli. - Vieni?
Lui si mise il cappello e prese
il borsello dall’auto parcheggiata in qualche modo all’inizio del sentiero,
proprio davanti alla casetta delle fate.
- Vieni! - gli gridò Claudia
ormai avanti un bel po’.
La sagoma della donna si fece più
definita. Aveva il fiato corto, due occhi verdi che luccicavano di eccitazione.
Claudia percepì nel turbine parlato nuovamente la parola “caffè”.
- Dai, vuole offrirci il caffè!- gridò
di nuovo Claudia. Lui era risalito in macchina per parcheggiare decentemente. Altrimenti.
se fosse arrivata un’altra macchina, non sarebbe potuta passare.
Claudia lo aspettò a metà del
sentiero, facendo cenni alla signora di aspettare, sorridendo. Quell’offerta di
caffè cadde gradita come una doccia rinfrescante. Non aveva mai piovuto in
quella quarantina di giorni sull’isola. Qualche nuvola nera, da un paio di
giorni, arrivava minacciosa dall’alto delle colline, ma quando si avvicinava al
mare la matassa si sbrogliava, e la nuvola diventava d’un bianco ghiaccio,
dissolvendosi in ciuffi leggeri che si rispecchiavano sulla superficie dell'acqua. Le piccole onde sorelle rispondevano con le loro crestine festose. E il
temporale annunciato dal meteo finiva in una goccia sul parabrezza, che si
asciugava nel momento stesso del contatto col vetro bollente. Avevano riso in
onore di quell’unica goccia d’acqua.
- Pame, oriste!- La signora
continuava a elargire sorrisi e mono ellenikà. Solo greco, – li avvertì – ochi
anglikà, e nemmeno inglese.
- Buongiorno, mi chiamo Claudia e
lui è…
- Paolo - disse inaspettatamente
lui.
Claudia sa che è timido. Diciamo
pure imbranato. Soprattutto con le lingue. Si impiccia, chiama Gregorio l’albergatore
quando sa bene che si chiama Grigorius. Lei lo rimprovera, gli dice di fare uno
sforzo, di non italianizzare tutto. Non è corretto, almeno con i nomi si può
fare uno sforzo! Ma non gli riesce. Paolo la usa come interprete in ogni
occasione. Anche al ristorante la guarda per sollecitare le ordinazioni.
Qualche volta Claudia se la ride sfacciatamente, ma capita anche che si
innervosisca di fronte alla soggezione esasperante di Paolo. Claudia si consola
vedendo che in molte coppie chi ordina è lei, al massimo lui annuisce. Nei
musei chi fa i biglietti è lei, lui estrae il portafogli per pagare. Nei conti
e nel capire la cifra è imbattibile. Per quello non c’è bisogno di parlare, i
conti si fanno a mente e Paolo era un campione in aritmetica. Claudia tentenna
sempre, a lei i numeri interessano poco. Uno in più, uno in meno. Lei nei conti
sbaglia, nei confini si disorienta, non li vede, li attraversa. Un passo in
più, uno in meno non c’è differenza. Sa che non è vero. In realtà i passi sono
importanti. Non confessa che anche lei ha le sue esitazioni. Confonde ancora la
parola evrò, euro, con avrio, domani. E non solo. Ma lei non teme di fare
brutte figure pur di comunicare.
- Spiti, spiti!- gorgheggiò la
signora - micrì. Egò Andonìa!
Claudia spiegò a Paolo che la
signora li invitava a entrare in casa e diceva, quasi scusandosi che era
piccola. Si chiama Andonìa, Antonia.
- Sì, - replicò Paolo - la
faccenda delle t che diventano d e delle b che diventano v l’ho imparata
anch’io. Claudia lo vede sorridere, anche lei è felice. Non sa perché. Lo
capisce subito dopo. L’atrio della casa di Andonìa le ricordò la sua casa da
bambina. Pieno di vasi di fiori appesi alla recinzione, alle pareti, allineati
in terra. Vecchie buatte di conserva che si adornano di basilico profumato. Un
angolo con la cucina, un tavolo, sotto una tettoia. I piedi calpestarono un
pavimento di cemento grezzo sia nell’atrio che nelle due stanzette della casa,
stipata di ninnoli, centrini e passatoie fintopersiano. L’accoglienza festosa
di Andonìa le ricordava le sue zie materne con il loro seno prosperoso e la
faccia sudata nei saluti. Si sentì lanciata indietro nel tempo.
Antonìa rivelò un animo
d’artista: aveva decorato la parete di fondo del cortile con conchiglie e sassi
che luccicavano al sole che vi batteva sopra, insinuandosi tra le foglie delle
piante che lo reclamavano tutto per loro. Una santella in un angolo riproduceva la struttura delle chiese
ortodosse. La donna ne aveva abbellito le pareti con conchiglie e bottoni indorati.
La cappella centrale rigurgitava icone e lumini. Si segnò nel passare davanti e
Claudia la imitò, dicendo l’unica parola di preghiera che conosceva, Panaghìa. Andonìa
si illuminò felice di poter condividere quel sentimento.
- Caffè?
- Sì, sì - disse Paolo seguito da
Claudia che ripetè né, né, evkaristò polì!
I due si guardano. Non sapevano
cosa si sarebbero detti oltre i saluti. Anche Paolo si era emozionato, ma non
lo avrebbe mai detto. Si aspettava una reprimenda sul tentato furto di fichi, e
ne ricevevano invece un invito cortese. Andonìa intanto si feceva in quattro.
Oltre al caffè arrivò con un vassoio di dolci, melone e zucchina canditi. Come
facesse ad avere tante cose in quella casetta minuscola per loro rimaneva una
cosa stupefacente. Una sorta di scatola magica da cui fuoriuscivano tesori
insospettati.
Claudia si portò le mani giunte
al petto. Non sapeva più come dire grazie.
Si sentì un rumore di auto. Si fermò
una vecchia Punto.
- Andrasmou - sorride Andonìa.
- Mio marito - tradusse Claudia. - Ti ricordi di aner andròs al liceo? Il pronome enclitico? - Andramou, uomo mio, dedicandoglielo.
Ne scese un uomo piccolo e
abbronzato dal sole del cantiere. Faceva il muratore, il piastrellista, il
pavimentista. Insomma un muratore d’altri tempi, che tira su case complete.
Anche lui bevve il caffè. Tutti intorno al tavolino sghembo. Sulle sedie
impagliate ricoperte da cuscini fiorati. Il suo nome rimase nei tartagliamenti
della presentazione.
I silenzi furono popolati per
qualche minuto dagli sguardi reciproci. Dai sorrisi gentili. Dai gesti convulsi
di Andonìa e da quelli più pacati, ma non meno determinati di Claudia.
Mentre gli uomini si offrirono
reciprocamente la sigaretta, le donne intavolarono una conversazione che ebbe i
seguenti esiti.
A Claudia e Paolo, piaceva la
casa e avrebbero voluto saperne di più. Andonìa raccontò la storia della sua
famiglia, padre e madre, figli e nipoti. La conversazione si interrompeva solo
quando Andonìa, ispirata, si alzava e correva in casa, uscendone con fotografie
delle due figlie sposate e dei due nipotini. Per dire sposate fece il gesto
della corona sulla testa e poi le foto in abito bianco parlarono da sole.
- Egò ime jajà! Io sono nonna. E
si riempì di orgoglio. Il marito inspirò ed espirò nuvolette di fumo denso.
Si salutarono con la promessa che
sarebbero tornati due giorni dopo.
- È stata una cosa bella - disse
Paolo una volta sulla strada. Di nuovo per la seconda volta lui usò quella
parola. - Hai visto cosa aveva sulle mensole? La macchina per la pasta tutta
arrugginita e senza manovella. Potremmo comprargliene una nuova. Ma temo si
possa offendere.
- Si può fare prima di partire.
Se riusciremo a trovarla in città.
Tornarono qualche giorno dopo. Con
il pacchetto del regalo. Non lo mostrarono subito, ma dopo che Andonìa arrivò
con il vassoio e tre tazzine fumanti di caffè greco e una marmellata di chicchi
d’uva.
- Buonissima, - fece Claudia – ma
come ha fatto a lasciare i chicchi interi e turgidi? - E sorrise ad Andonìa.
E come caspita si dice, in greco,
regalo? E come accidenti si dice che vorrebbero ringraziarla per quel gesto di
ospitalità commovente e reiterata? Doro, regalo? Boh! E come spiegarle che non
è un regalo di turisti ammaliati dal folklore di quella casa e di quel cortile
fiorito e agghindato, ma un gesto di affetto? Nulla. Si limitarono a vedere il
volto di Andonìa che si bagnava di lacrime che aggiunte al sudore la
trasformarono in un grassa peonia rorida di pioggia.
Andonìa e il suo uomo (quanto
piacque a Claudia dell’andramù!) si parlarono guardandosi negli occhi. Quelli
dell’uomo si strinsero in un assenso. Lei si alzò, entrò in casa e ne uscì con
un sacchetto che emanava odore di naftalina. Ne tirò fuori una tovaglia ecrù,
ricamata a punto erba e la mise nelle mani di Claudia, mentre l’andramù portò
un grosso recipiente di olive in acqua di mare. In quel momento brillarono di
contentezza gli occhi di Paolo che chiese aiuto a Claudia.
- Come facciamo a dire di no.
Diglielo che sono troppe. Non vorrei che rimanessero senza.
- Eko varili - risponde Andonìa –
varili! Andonìa, che ancora qualche
minuto e avrebbe parlato italiano. Scoppiarono a ridere.
Si imbarcarono due giorni più
tardi, al solito un po’ spossati dai brontolii reciproci dei preparativi. Si
tornava a casa. Claudia seduta sul ponte all’aperto. Nell’aria e nel vento. Lui
di sotto nel salone del bar, con le tendine chiuse e le luci artificiali
accese.
- Mi è più comodo qui - aveva
detto.
Non aveva proprio torto. Le
sedioline di ferro del ponte erano scomode. Claudia vi si era acciambellata
come un gatto, ma quasi subito aveva tirato giù le gambe. Scriveva sulla sua
moleskine qualcosa, parole sparse. La moleskine, il regalo di Paolo prima di
partire.
- Non puoi non avere una, per una
scrittrice che si rispetti!
Claudia gli aveva risposto
facendogli una boccaccia, come una bambina dispettosa.
Ogni tanto chiudeva la moleskine
e fissava ipnotizzata il pavimento verniciato. Ebbe l’impressione che il ponte della
nave continuasse nel mare. Tutto era di quell’unico colore azzurro di luce. La
nave scivolava silenziosa tra gruppi di isole riarse e disseccate. Grumi di
terra nella vastità di quell’azzurro liquido e palpitante. Strinse tra le mani
la moleskine. Piccoli passi, pensò. Sono importanti i piccoli passi.
Sulla copertura del ponte, un
clicchettio secco, improvviso, insistente. Cominciava a piovere.
* foto mia
Ah, cara Claudia! Che invidia, per quell'arsura, per i tuoi sorrisi ampi, capaci di creare ponti ovunque. E che bel viaggio, da fare qui, con i piedi arpionati alla poltrona pieghevole, mentre riconosco le timidezze di Paolo e gli ami da pesca e i sassi e le paperelle galleggianti. Ti abbraccio.
RispondiEliminaElianto del mio cuore!
EliminaRitrovo nel tuo racconto colori, aromi, persone e animali che si sono depositati nel mio sguardo e nel mio olfatto, per antica consuetudine infantile. Ugualmente vi rinvengo quel senso di opsitalità verso lo "straniero", che soltanto per alcuni di noi è, come scrive Umberto Curi, "sorgente di interrogazioni" e "fonte di inesauribile inquietudine". L' Antica Madre mediterranea è ancora "magistra morum", per chi ha amore per l'antico e non considera l'hospes hostis. Colpisce la disnvolta sicurezza di Claudia, che si nutre di curiosità e di amore per la natura e l'umano; e fa sprizzare bagliori di simpatia il dantesco Paolo, sempre discreto e misurato, seppur connivente. Nel gioco delle parti, la coppia dei viaggiatori ritrova complicità e completezza, e si qualifica "simpaticamente". Il cielo, l'acqua e il traghetto prendono i due per incantamento e ce li restituiscono rilassati e paghi di riposo, ovvero diversamente creativi. La nostalgia dell'isola, per ora, può attendere...
RispondiEliminaVero che sembra d'essere a "casa", carissimo Giuseppe innominato!
EliminaVerissimo, Maria. C' e', come dire, un'aria di famiglia...
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