Ciccibùm.
Fu la prima cosa che mi
venne in mente appena lo vidi.
Due riccioli come virgole
impertinenti sulle orecchie ne fecero immediatamente la mascotte del reparto.
Nacque alle quattro e venti di mattina il mio Ciccibùm. Sì, perché, al di là
del serafico aspetto del viso, era un maschio. Si dové portare anche lui la sua croce nel primo
anno di vita: essere scambiato per una femmina tanto era bello, ma poco male, ancora non se ne
accorgeva. Le cose nel reparto maternità nei sette anni della mia assenza erano
cambiate. Le ostetriche più carine e gentili. Mi dissero che era morta la
“maestra”, un donnino segaligno quasi invisibile, ma tutta di un ferreo pezzo:
si sussurrava che vietasse alle ostetriche anche di sorridere.
Ciccibùm fece tutto da solo, mise
fuori la sua testa dall’origine della vita e sembrò dire "presto", "rapidi”. La
velocità fu tale che la ginecologa, un fior fiore di medico dicevano, dimenticò
nella mia vagina un bel tampone. Ma Ciccibùm metteva fretta a tutti, e la
fretta “l'onestade ad
ogn'atto dismaga” tuona
con perentoria gravità il poeta. Fatto sta che l’ostetrica mi chiese
gentilmente il permesso di dare un’altra sbirciatina, quando la dottoressa
illustre se ne andò gettandomi uno sguardo sussiegoso. Fui così salvata dalla
setticemia e Ciccibùm ebbe la sua mamma a completa disposizione.
A sette mesi scalò il box e si
scaraventò giù. Fu preso al volo dalla provvida sorella
A nove mesi correva come un pazzo
nel corridoio, scansando con millimetrica precisione il termosifone.
A un anno o poco più costringeva
gli astanti a esercizi di esegesi filologica: cobanna (dicesi acqua panna)
quando aveva sete; abaciàc (quando voleva giocare con l’acqua o farsi il bagno.
Ma la prima parola era stata “cane” e la prima frase era stata cantata in
dialetto canosino: era l’ingiunzione della nonna che ripeteva “statt’ddù” (stai
qui).
Ciccibùm collezionò in tempi
brevi, la velocità è il suo forte, una lunga e ininterrotta serie di incidenti:
nel pronto soccorso i medici ormai ci riconoscevano. Tra una mano ustionata e
steccata, ustione gastroesofagea col Niagara (scongiurata), un polso fratturato, due denti
incisivi offerti per due volte (e due
volte miracolosamente rinati) in sacrificio alla dea della velocità sul rirrio
(triciclo) e altre sciagure che mi fecero invecchiare di vent’anni
e rischiare ogni volta una denuncia per abbandono e incuria di minore.
Ciccibùm fu sull’orlo della
mutezza (o mutismo, non saprei) quando si tranciò di netto la lingua. Gli
rimase attaccata per un lembo. Gliela ricacciai in bocca, intimandogli di stare zitto e lo portai correndo
in ospedale. Solo dopo mi resi conto che avrebbe potuto ingoiarla. Fu ricucita. Adesso, quando mi capita di ripensarci, le viscere mi
si attorcigliano e vedo l’onda del sangue. Solo Kubrick mi può capire.
Due giorni dopo chiacchierava con
la sua solita scioltezza, incantando le infermiere. Aveva tre anni. Vi risparmio gli incidenti degli anni che seguirono.
A sette anni parlava a velocità
supersonica: la maestra ci perdeva la testa, e mi toccava fare da interprete.
A quindici anni disse che lui non
sarebbe tornato a scuola: voleva lavorare.
A scuola ci tornò. Strappò, non
sappiamo ancora come, un diploma da ragioniere con ottimi voti. Io solevo dire
che lui galleggiava (come uno stronzo). Sì, lo so che la mamma di un figlio non
dovrebbe dire ciò, ma è la pura verità. Gli insegnanti lo adoravano, e lui se li
giocava come un prestigiatore. Io vedevo i suoi libri giacere intonsi e
negletti sulla scrivania della sua camera. Ogni tanto li spolveravo per
consolarli dell’abbandono.
A diciannove anni mi telefonò
dopo un colloquio di lavoro presso una banca, dicendomi che avrei dovuto
insegnargli a fare il nodo alla cravatta.
Adesso è un serioso funzionario
di banca.
Sono l’unica delle
mie sorelle ad avere prematuramente capelli bianchi. Non chiedetemi perché.
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