(nulla più vero della finzione)
- Papà, ci stai a essere
intervistato?
Lui mi guarda,
schiaccia un’arachide tra le dita e infila una nocciolina nella bocca sdentata.
- Visto che mi hai chiamato!
- Cominciamo
dall’inizio. Quando sei nato?
Tra me e lui un mortaio
di pietra sul tavolo. Tra me e lui l’opera delle sue mani, un oggetto
comune ma in disuso. Antico e perfetto. È confine sensibile questo mortaio di pietra
grigia, forse pietra della Murgia. Gliene regalava un pezzo ogni tanto il suo
amico marmista. Sui bordi del mortaio i segni del suo lapis. Il lapis me lo
ricordo bene: rosso, schiacciato, da muratore. La mia casa ora è punteggiata di
mortai. Quello che rimane di lui sono questi piccoli invariati mastelli di
pietra.
- Sono nato in dicembre,
forse il 22, ma sono stato segnato il 16 gennaio del 1915. Quella è rimasta la
data ufficiale. Allora quasi nessuno registrava i figli nel giorno della
nascita. Pensavano di scappare davanti alle guerre. Ma in che anno siamo
adesso?
- Siamo nel 2014.
- Di già? Il tempo
passa veloce anche fuori del tempo, non pensavo.
- Che cosa ti ricordi
da bambino?
- Ti sembrerà strano,
ma ricordo il freddo e le botte. E dover andare a comprare il vino.
- Come mai il vino?
- Non mi piaceva il
vino perché mi mandavano a comprarlo a credito. E toccava sempre a me. Ero il
terzo dei miei fratelli, il lavoro sporco toccava a me.
- Ma il cantiniere non
era amico di tuo padre?
- A maggior ragione. Avevo
sei o sette anni allora, ma già mi era chiara una cosa. Vedi, l’amicizia ha
bisogno di stima gratuita. Che vergogna avevo nel fare quel debito. Scrivevano
il nome in un quaderno tutto sgualcito. Ecco mi sentivo anch’io così: maltrattato.
- Sempre esagerato. Che
c’è di male in un debito?
- C’è di male che ti
senti schiavo, non sei un uomo libero. Anche se poi paghi. Anche se con gli
interessi. C’è una regola nella vita. Per essere libero non devi avere debiti.
Devi guardare chi sta meglio di te negli occhi e dirgli: non ti devo niente. E
devi essere libero anche dal bisogno, altrimenti la libertà diventa una carta
falsa.
Tra le mie mani il
mortaio. È freddo, la superficie è resa ruvida dai colpi testardi della
bocciarda. Come il marciapiede davanti al cancello di casa. La pietra è la
stessa.
- Per questo quando hai
cominciato a lavorare in proprio pigliavi con te ex carcerati?
- Certo, non ti è
ancora chiaro? Che ti ho mandato a fare a scuola? Questo accadeva nel ‘53 o ’54,
non mi ricordo più con esattezza. So che l’ho fatto. Stammi a sentire: se uno
ha il pane e magari un pomodoro da metterci sopra, non va a rubare. C’è una
categoria precisa invece che ruba senza averne bisogno.
- Un’intera categoria?
Addirittura!
- Sì, sono i politici e
quelli che tirano loro la giacchetta. Forse non proprio tutti, ma una volta che
sono lì cambiano molte cose. Vedi, loro non sudano, non tornano a casa con la
schiena rotta. Basta una firma. Firma magica. E che ne sanno loro dei bisogni
della povera gente? Per saperli ti devi sporcare le mani, avere la gola secca
di polvere e i crampi allo stomaco. Oppure ti aggrappi alle scale del
Municipio. Te la ricordi la storia della casa?
- E come faccio a
dimenticarla!
- Ce la espropriarono
per costruire una scuola. E ci buttarono fuori senza tante storie. Io lo so
perché non mi vollero assegnare una casa popolare. Con cinque figli e una
moglie… beh, non ti dico come stava tua madre di salute.
- E le assegnarono ai raccomandati.
Tutti a stipendio fisso, impiegati delle Poste, del Comune e maestri di scuola.
Con la tessera in tasca, quella scudocrociato.
- Capisci adesso? Ma in
che anno si era, nel 1961?
- Papà, che ti metti a
fare tu le domande?
- No, io le domande non
le so fare. Dalla scuola sono scappato che avevo sette anni, figuriamoci.
- E com’è che davi
lezioni agli ingegneri in cantiere? Lì, ci voleva la matematica.
- Che ne so, figlia
mia! Io lavoravo e basta. Mastro muratore. Le cose stavano in piedi, se le
facevi in un certo modo. Senza imbrogliare, altrimenti ti crollava tutto
addosso. E bisognava rifare daccapo.
Gli ridono gli occhi
mentre mastica un’altra nocciolina. Pane, pomodoro e noccioline: il suo pasto preferito.
- Papà?
- Che c’è? Mi vuoi lasciar andare? Non fare
come quando me ne andavo in cantiere.
- Cosa facevo?
- Piangevi disperata,
non c’era verso di calmarti. Avevi meno di due anni. Svegliavi i vicini. Allora
tua madre ti portava da Nardina che abitava al pian terreno. Lei si alzava
sempre presto, tutte le mattine caricava il mulo per il marito che andava a
lavorare in campagna. E così non vedevi che io uscivo. Avevo preso l’appalto
per l’acquedotto, subito dopo la guerra. Nel ’51. Questa data me la ricordo
bene. Passavo la giornata a scavare i canali per i tubi dell’acqua. C’era tutto
il paese sottosopra.
- Papà, mi fai vedere
le mani?
- Perché, che cos’hanno
le mie mani?
- Niente, le voglio
toccare.
- Eccole qua.
Vedo aprirsi verso di
me, palme di fronte, le mani grandi come
tegami da farci due uova fritte. Forti, grandi e raspose come foglie di fico,
piene di calli incistati come nodi nei tronchi. Aspre e piene di carezze. Trasudano
potenza e orgoglio. Secche ancora di calce. Vi appoggio piano le mie che
tradiscono figliolanza, ma sono visibilmente più piccole. Mi godo l’ attimo.
- Riprendiamo. Papà, ti
vorrei fare un’altra domanda, ma non so se posso.
- Giacché stiamo, da
trenta facciamo pure trentuno.
- Se la mamma era
sempre malata, sofferente, com’è che avete avuto cinque figli?
Vedo che la sua faccia
si contrae. Spesso ho pensato con rancore che lui era stato un irresponsabile e
che la mamma fosse stata vittima della sua esuberanza sessuale. Questa cosa ce
l’avevo in gola. Prima non avrei osato, ora so di poterlo fare.
- Figlia mia, al
ritorno dalla guerra noi eravamo gigli dei campi. Quella era la vita: io e tua
madre insieme. E tutti e due li abbiamo voluti i figli. Tutti quanti, anche
quelli che si sono fermati per strada, e ce ne sono stati. Con queste mani
impastavo calce e cemento e lavoravo, tre giornate in una, per darvi da mangiare.
Pane e companatico. L’unica nostra consolazione era quello che provavamo l’uno
per l’altra.
Ha abbassato la testa e
si è zittito. Lui che mai l’ha fatto davanti a nessuno. L’ha chinata davanti
alla mia superficialità di figlia, alla mia mancanza di pudore di fronte alla
sua reticenza. Abbasso anch’io le armi. C’è una zona che non si può violare. L’abisso
dove vive l’essenza del desiderio, intimità si chiama. Giusto.
- Papà?
- Che c’è ancora? S’è
fatto tardi e tua madre mi sta chiamando. Da quando è arrivata qui anche lei,
s’è persa la pace. Fammi andare.
Nel mortaio di pietra
una nocciolina brilla di sale e ammicca.
[n.d.r. L’intervistato fu
muratore e scalpellino, nato nel 1914. Morto a 92 anni]
Un atto d'amore intenso e delicato, più intimo forse (dato il genere prescelto) di "Così è la vita, amore mio".
RispondiEliminaNotevole, per tacere d'altro, la parte sulle regole o condizioni per essere "liberi". Giuseppe Magurno
Quanta bellezza e quando amore. Come sempre leggerti mi incanta.
RispondiEliminaGrazie Maria
Patrizia B
Ti adoro.
RispondiElimina"...l’amicizia ha bisogno di stima gratuita".
Fabrizio