lunedì 25 novembre 2013

Chiamatemi Mària.



Il pensiero fisso di stamattina è il mare. Dichiaro subito che non so nuotare. I miei piedi fanno fatica a staccarsi dal suolo all’asciutto: sono piccola di statura, aderente al piano zero e, da quando la forza di gravità è aumentata per odiose cause ponderali, io tendo ad acquattarmi naturalmente verso il basso e lì rimango. Figurarsi nell’acqua.
Ho conosciuto davvero il mare che avevo più di vent’anni. Mi ci aveva già portato una zia all’età dei cinque, ma non ricordo nulla del mare. Ricordo un letto dove si dormiva di traverso, in una camera angusta e poco illuminata. Lo si condivideva con la zia suddetta e un paio di cugine più grandi. Andare al mare e ricordarsi solo un letto superaffollato: spintoni, calci, sudore, fruscii ininterrotti di ventagli. Senza lenzuolo di sopra, tanto faceva caldo e non solo per la meteorologia. Immaginate un po’: dormire in quattro in un letto, d’estate, in un paese dove la temperatura nel mese d’agosto sale come la febbre di un’influenza invernale. La situazione migliorava leggermente quando la zia si alzava a metà della notte e si stendeva su un panno direttamente sul nudo impiantito della stanza.
Mia zia era nubile, ma attratta dal sentimento materno. Portava con sé al mare le nipoti, lo faceva per le sue sorelle, liberandole per due settimane di me e delle mie cugine. Ma una infida, sottile vox populi sussurrava di pretesti, di alibi per auspicati incontri da concludersi degnamente in un matrimonio che non arrivava. C’è una foto che ci ritrae sulla spiaggia. Noi bambine tremanti e insaccate in costumi extralarge, adattati con spille sulla schiena e nodi sulle spalline. Mia zia in posa da calendario per camionisti (d’allora): il fianco leggermente proteso in avanti, una coscia inclinata sostenuta dall’equilibrio precario del piede in punta sulla sabbia e una mano dietro l’orecchio a trattenere la chioma ricciuta. Il sorriso metteva in mostra la sua bella dentatura e noi non capivamo allora perché le sue labbra fossero rosso fuoco anche al mare. Le nostre erano sempre livide, non uscivamo mai dall’acqua.
La mamma ci parlava spesso dell’odore del mare, dell’aria del mare, soprattutto quando apriva una cozza e la mangiava cruda spruzzata di limone. Lei al mare non c’era mai stata. Ma quando diceva sospirando “ah, l’odore del mare!” tutti noi cinque la guardavano a bocca aperta e sentivamo con lei il mare che profumava. Le cozze non ci piacevano con il loro gusto asprigno, ma il mare lo sognavamo come una promessa di felicità inebriante.
Ci tornai, al mare, col mio fidanzato. Allora non si diceva ragazzo né tantomeno uomo. Ripenso al mio e al suo imbarazzo. Lui che timidamente mi voleva insegnare a nuotare, io che mi vergognavo di essere in costume, per quanto castigato. Così è stato. Così fu.
Oggi amo il mare, anche se non so nuotare, e ogni anno che ci ritorno ingaggio con le onde una sfida che non va oltre le dieci bracciate. Sono i piedi a tradirmi, i maledetti piedi che gridano “terra!” ad ogni respiro. Allora io obbedisco e tocco.
Come lavoro bene di fronte al mare! Io lo guardo e i tasti sembrano andare più veloci, le parole più sciolte, e i refusi aumentano in proporzione alle mie occhiate verso l’acqua.


Quest’anno, nell’isola di Lesbo, il mare era una cuna. Uso questo termine perché mi sentivo accolta come in una culla di legno, quella delle favole, per intenderci. Nessun Foppapedretti funzionale ed elegante. Sotto gli occhi irridenti del filosofo, che sa nuotare ma non ama farlo, io mi raggomitolavo nell’acqua, quasi in posizione fetale, e mi lasciavo cullare nel suo seno. Sarei potuta restare lì delle ore. Dimentica di tutti i miei guai, delle mie paturnie, delle mie ansie. Dimentica persino delle pagine che avevo lasciato incompiute e tradite per un bagno in mare. Fregandomene dei refusi vigliacchi, di quel dolore sotterraneo e inespresso per la vita mia e degli altri. Mare, Maria. Lui singolare, io il suo plurale latino. D’ora in avanti chiamatemi Mària.

* foto mia, Pano Sto Kima, Agios Isidoros, Plomari, Lesbo.