lunedì 12 agosto 2013

Di bacinelle, aspersori e tappeti volanti



Si va in Marocco allora? Ho già prenotato.
La domanda  e il perentorio annuncio del già fatto arrivano dal Messico. La  Brutta, sempre lei, si preoccupa già che il suo arrivo in Italia si trasformi in una gabbia dorata. Non una tappa, ma uno sprofondo nella vita famigliare. Allora mi coinvolge nelle sue peregrinazioni. ‒ Sai, la mamma attraversa un brutto periodo ‒ deve aver detto a una sua amica. A me non importa la motivazione. Stare con lei mi piace sempre anche quando finiamo per dircele di santa ragione. Sì, per dircele, mai per darcele. Fortunatamente. Non mi resta che acconsentire.

In Marocco ci torno volentieri. La prima volta che misi piede in Marocco ebbi la solita botta allo stomaco. Di qui partono le mie emozioni e mai in forma di farfalle dalle ali etere e fruscianti, ma come piccoli, decisi, morsi di roditori. Un dolore sconosciuto che precede l’allargamento del cuore: in Africa! Mi è successo anche per la Sicilia, attraversando lo stretto sulla Caronte: sul molo di Messina vidi schierati i fantasmi di Pirandello, Brancati, Consolo in prima fila, più lontani ma ben visibili Verga e De Roberto, i più malinconici. Una strizzata d’occhio mi parve di coglierla sul viso di Leonardo Sciascia, accigliato nell’aspirazione dell’eterna sigaretta. ‒ Sei venuta a guardare in faccia la civetta? Non è una storia semplice. Poi si voltò di spalle con disincanto, mettendosi una mano nella tasca del pantalone. Così mi parve.
 Per non parlare di quando ho messo piede in America latina o in Grecia.

‒ Signora, vuole scendere o no?
La voce seccata del marinaio che mi restituì bruscamente al chiasso frenetico del molo messinese, quindi alle strade malridotte attorno al porto,  e infine al susseguirsi di palme esotiche (e nostrane) sull’autostrada verso Palermo.

Non ci sono fantasmi di scrittori all’aeroporto di Fes.
Quel tipo di fantasmi arrivano solo se puoi riconoscerli, altrimenti fanno gli aristocratici o è possibile che uno di loro si sia incarnato come un djinn dispettoso nel tassista che vuole portarci in centro. Noi si va alla stazione a prendere il treno per Rabat. Strappiamo una tariffa favorevole: andiamo in stazione allo stesso prezzo del bus.




‒ Sei entrata nell’atmosfera, vedo.
Mia figlia mi guarda e ride: ‒ Ho avuto due buone maestre, tu e la nonna. Hai dimenticato il mercato di Canosa? Contrattare è una sorta di pass per entrare in relazione. E poi hai visto che bel ragazzo lui?
Annuisco a tutte e due le osservazioni. Siamo due donne in viaggio e guarderemo con interesse tutte le bellezze locali. Senza eccezioni.



I giorni di Rabat.
  
La prima regola è sembrare del posto. Qui, nella medina di Rabat, risulta un po’ difficile. La maggior parte delle donne del quartiere è velata, ma il nostro impegno si è limitato a velarci di modestia: pantaloni lunghi e scialli neghittosi sulle spalle. Urge comprare una bacinella di plastica: nel grazioso riad che ci ospita c’è tutto, tranne il… bidet. Lo cerchiamo nella lunga teoria di bancarelle, botteghe e casse di verdure che fanno a gara nei colori con le spezie che occhieggiano dai sacchi rimboccati. Infine la nostra tragicomica quête è premiata. Così sembrerebbe, ma il ragazzino posto a guardia della merce ci guarda sconsolato. Non capisce, non sa il prezzo, non può chiamare il titolare. Le risposte, solo intuite, sono rigorosamente in quest’ordine. Poi l’illuminazione: il padrone è in moschea, è l’ora della preghiera.

Apprendo così che i mercanti possono lasciare incustodita la merce, quando il muezzin chiama alla preghiera; al massimo ci lasciano di guardia un ragazzino che rimane a bocca aperta davanti al nostro francese, o addirittura un’esile cordicella davanti all’ingresso del negozio. Nessuno tocca nulla: la mercanzia è intoccabile, protetta dalla pietas religiosa.

In un’altra giornata del nostro vagabondaggio mercatale, nella già ristretta corsia centrale, vediamo seduto in terra un vecchio mendicante. Vorremmo fare l’elemosina, non si riesce a posare la moneta in mano al postulante. Sembra che la rifiuti. È cieco, allora gliela posiamo delicatamente nella berretta ai suoi piedi. Si avvicina un passante con fare circospetto, e io già penso a una furbata malandrina.



Apprendo così che nessuno oserebbe rubare un’elemosina: il passante si china e sussurra all’orecchio del mendicante che ha appena ricevuto un obolo. Il vecchio china la testa, prende la moneta e la mette in tasca.


‒ Ricordiamoci del sapone d’argan ‒ è il ritornello di mia figlia che pare non possa fare a meno di questo cosmetico.
‒ Quanto ne devi comprare? ‒ le faccio io pensando a un paio d’etti.
‒ Direi almeno due o tre chili ‒ è la sua risposta che ignora volutamente la mia bocca aperta e tacita nello stupore.
Si va a comprare il contenitore. C’è una grandissima bancarella di recipienti di plastica di tutte le fogge e misure. Ogni giorno ci passiamo davanti e ci chiediamo ridendo cosa mai se ne facciano le donne di Rabat, che si assiepano come pecorelle contro un muro per sfuggire alla calura, di tutto quello scatolame di plastica. Ogni giorno la bancarella si azzera: vende tutto. La mattina dopo ricompare la montagna plasticosa e la folla variopinta delle donne in djellaba. Ne compriamo uno: dai due ai tre chili, ci ha detto il venditore, quasi disgustato che acquistiamo solo quello.
Al ritorno, col nostro contenitore stracolmo di una pasta verdastra (il miracoloso sapone di argan), Jasmine, la cameriera del riad,  si congratula con noi per aver acquistato “le gateau du Ramadan”.

Apprendo così che in Marocco le donne fanno per tempo le provviste per il Ramadan: zuppe, verdure, spezzatini di carne, datteri, fichi secchi, dolci di mandorle e ogni ben di dio (Allah mi scuserà). Spiegato l’arcano dell’acquisto forsennato dei contenitori di plastica.
Apprendo, rido, osservo, mi diverto, talvolta resisto.
‒ Mangiamo qui, mamma?
Quasi non sento la sua voce tra i richiami vocianti dei bancarellai. Fumo di pannocchie arrostite, afrore di spiedini di agnello, distese di foulard di viscosa, manichini di bambini col cranio spelacchiato e di adulti coi volti attraversati da spacchi e crepe, mendicanti accoccolati a ogni angolo, bancarelle di cinque varietà di menta e altre erbe odorose, venditori di sacchetti di petali di rosa, eleganti venditori in djellaba di tessuti artigianali, creperie che sfornano in continuazione quintali di pasta fillo, sciami di vespe golose (e ci hanno ragione, ci hanno) sulle brioches fragranti dei banconi delle pasticcerie, centinaia di gatti multicolori che attraversano gli spazi ingombri con disinvoltura da star sul red carpet. Insomma. Qui, dovremmo mangiare.
Il ristorante accoglie famiglie con bambini, gruppi di giovani, vecchi sdentati e… turiste  incaute. Tavolini traballanti, sedie di plastica vissuta. Molto vissuta. Sul marciapiede del mercato che sta chiudendo: un inserviente col sifone sciacqua i residui, tutti. Pesce, verdure, piume di pollo e gusci di uova. L’azione del cleaner si riversa sotto i tavoli. Per terra residui di cibo. Non fare la solita schizzinosa, leggo il pensiero di mia figlia nel suo sguardo in attesa.
Ma quanto è buono il pesce che ci viene servito! Si mangia con le mani, sfilando il pesce dalle lische. Da piatti comuni.

Ecco, anche questo ho imparato: esiste la bellezza e la bontà del cibo proprio in posti come questo, ma anche in altri dove, all’ingresso, un inserviente ti accoglie con una bacinella di metallo sbalzato, salvietta immacolata sul braccio, e ti lavi le mani prima di mangiare. All’uscita lo stesso inserviente ti aspergerà con acqua di fiori d’arancio con un inchino!

E così che l’aspersorio entra nella lista degli acquisti. È cosa troppo raffinata per poterci rinunciare. La lista si allunga. Solo per dare un’idea delle nostre scorribande nel suk:

2,5 kg sapone nero di argan
1 contenitore di plastica con coperchio (la buatta del gateaux du Ramadan)
Ras al hanout (mix spezie) gr 100
2 guanti “dell'imam” (per l'hammam)
1 leggio coranico in legno rivestito di stagnola sbalzata
7 oli essenziali, 60 ml cadauno (3 argan, 2 camomilla, 2 zenzero)
2 tappeti di fes
2 sciarpe (1 rebozo, 1 drappo da collocare)
1 copriletto/copritavolo
1 telo di cotone color oliva
5 libri: Mernissi, Laroui, Choukri, Chraïbi, El Meknassi
2 ciondoli d’argento vero (1 manina Fatima, 1 croce berbera)
3 paia babouches di pelle
2 babouches coccio
1 portacenere coccio
1 calligrafia
1 mazzetto di asticciole fermatende
2 ciotole raffinate di ceramica
2 segnalibri metallo con ciondolo portafortuna manina Fatima
1 sacchetto petali di rosa
1 aspersorio
33 ml. eau de fleurs d'orangier
2 pacchetti henné
3 pacchetti té
1 cartella marrone di cuoio caprino
1 pouf arancione di pelle di capra
2 borsellini simil tappeto persiano
1 cammello di thuya (radica)
1 mano Fatima thuya (radica)
1 mano Fatima pennacchione turchese reggitenda
10 stampini savarin di alluminio
2 boccette khol
4 bracciali di similargento (bellissimi).
Il risultato? Una notte intera, passata in una stanza da sogno in riad favoloso, a fare e disfare valigie nella speranza di poter gabbare i controlli all’aeroporto. 





All’alba, schiantate di fatica sul letto, ci ha confortato il richiamo prolungato oltre il solito dei muezzin che, da un minareto all’altro, davano inizio al Ramadan. Una litania melanconica, a tratti imperiosa e cullata dagli echi solenni. Si parte, Marocco arrivederci e vaffanculo Ryanair. Sono sicura che nella valigia Choukri sorride dal retro della copertina.

 

*Un ringraziamento speciale a Marouane, Habib e Edy, che ci hanno accolto in amicizia e con squisita cortesia.