‒ Buongiorno, ho subito un borseggio.
‒ Borseggio in che senso, signora?
‒ Nel senso che m’hanno alleggerito di borsellino e portadocumenti.
Comincio a seccarmi. Sono stanca, ho fatto di
corsa un pezzo di strada, fino a che due anime pietose si sono offerte di
accompagnarmi fino alla questura in macchina. Sai,…il bancomat. Già il
bancomat. Chisseloricordavapiù. M’assale l’ansia. E se me l’avessero già usato?
‒ Allora vada dall’ispettore.
‒ Dove, di grazia?
‒ In fondo al corridoio.
Mi avvio al fondo del budello. La porta davanti
a me è spalancata: vedo un ragazzo africano che parla col suddetto ispettore.
Anche lui borseggiato? Ovvio, se è lì con una faccia da morto appena alzatosi
sul catafalco. La pelle vira al violetto. È pallido. Esce. Arriva il mio turno.
‒ Prego s’accomodi.
L’ispettore è davanti a me. Giovane quarantenne
pasciuto. Braccialetto d’oro al polso. Fascetta di fidanzamento con
brillantino, fermato da una fede all'anulare gravido. Qualche capello bianco, pizzetto.
Sopracciglia depilate e sottolineate da un filo di matita.
Ma sarà mica il momento di ammirare ‘ste
sopracciglia! Mi riprendo.
‒ Mi hanno derubata.
Ho paura a usare il termine borseggio, ché mi toccherebbe spiegare in che
senso.
Borseggio: furto della borsa o del portafoglio o
di entrambi, eseguito con destrezza specie in mezzo alla folla. È il mio caso:
zainetto di pelle. Cerniera aperta e zac, nemmeno un fremito. E dire che
l’avevo su una spalla, fermato con il braccio. È stata una signora a dirmi
della cerniera aperta.
L’ispettore mi guarda mentre io mi ripeto
mentalmente cosa dire per semplificare, per fare presto. Per poter bloccare il
bancomat. Oggi è sabato, giorno di spese, ma non a mie, spero.
‒ Mi fornisca il documento di identità.
Lo guardo sorridendo, penso per un attimo che
stia scherzando, che voglia fare il bonario, il paterno. Cosa che con me non
va: ho più di sessant’anni, capelli grigi per scelta. Mi fanno senso i capelli
tinti dacché Berlusconi si incatrama residui capellosi e cuoio ex capelluto.
Sguardo deciso. Oddio… deciso mica tanto: lo vedrò tra un momento. Ma è la voce
che non perdona.
‒ Le ho detto che mi hanno derubato: sono qui
senza carta d’identità, senza bancomat (accelero), senza tessera sanitaria, mi
manca persino la tessera della riduzione parcheggio per residenti.
‒ Altre tessere?
‒ Hai voglia! Biblioteca, Feltrinelli, Arci, pizzeria La Cocccinella (quella
sotto casa, una pizza gratis ogni dieci, ero al nono timbrino)...
‒ E come faccio io a identificarla?
‒ Ispettore, non mi dica così (prendo il toro per le sopracciglia)! Mi dica
invece cosa dovrei fare per farmi identificare. Le tessere sono svanite, nisba,
rubate, furate. Furto, ho detto furto.
Mi guarda con sufficienza, accende il computer,
digita il mio nome e legge le informazioni: residenza, città, ecc…
ecceterissima per sapere chi sono. Mi guarda, recalcitra.
E ora?
E ora?
‒ Aspetti, ho un marito. Basta lui per identificarmi?
Mi riguarda stavolta accigliato, cazzo che
sopracciglia, penso.
‒ Ecco: nel mio pc ho una scannerizzazione della carta d’identità. Gli dico
di portarmela.
Annuisce gravemente. Forse ci siamo.
‒ Se vuole può fare qui le foto per la denuncia. Così le do il certificato
sostitutivo della patente.
Gentile.
‒ Ah, grazie.
Arriva trafelato il mio consorte. Ha bloccato il
bancomat. Esibisce la foto della mia carta d’identità.
L’ispettore parte in ricognizione della carta e
del mio viso. Lì ho ancora i capelli scuri.
Vado alla macchina delle foto: cinque euro e
scatto. Tre volte, sfrutto ogni possibilità di sfuggire alla stampa allucinata
che esce dalla fessura all’esterno: Stralunata, diciamo pure brutta: occhiaie
fin sotto gli zigomi, cedimenti facciali, il capello bianco floscio, ingrigito. Non parliamo del
resto. Mi rassegno.
Ritorno dall’ispettore che ha smesso la sua aria
paternalistica, vista la presenza del consorte. Mi affida a lui, anzi è a lui
che spiega cosa fare per riottenere i documenti. Vorrebbe farmi sentire una
donnetta ingenua, anziana, incanutita.
Vado in Comune, ufficio anagrafe. Denuncio
smarrimento. Mi chiedono tre foto. Esibisco quelle fatte in questura, son solo
due.
‒ Vada a fare le foto.
Trovo un fotografo. Stavolta la foto sarà
migliore, a colori: La guardo. Tutto è grigio. Capelli, golfino (rosa shocking)
giacca (verde oliva). Occhi grigi. Tutto così. Il fotografo mi ha portato via i
colori. Un altro ladro. Mi guardo: non sono io. Se dovessi identificarmi, direi
che sono un’altra persona. Ma com’è che è cominciato tutto 'sto grigiore? Starò mica
svanendo?
Sarà stato il ladro. Quello che mi ha portato via
il borsellino viola, il portadocumenti arancione. E anche il colore della mia
faccia. Anzi mi ha portato via l’ identità.
Mi chiedo: se fossi stata vedova, se fossi stata
senza amici, se fossi stata una perfetta sconosciuta, l’ispettore cigliuto come
mi avrebbe identificato? Chissà.
come ti avrebbe identificato?
RispondiEliminaNon so, ma io ti riconosco nei colori vivi, quelli dei fiori più belli e odorosi. Ecco, sì, avrebbe potuto pensare che sei un fiore, un bellissimo e profumato fiore :)
Il fatto è orribile, ma il racconto (scremato dall'affetto e dalla solidarietà) mi ha fatto scompisciare dalle risate. Ah, Marì, che bellezza leggerti!
RispondiEliminaGrazie a entrambe!
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