domenica 14 agosto 2016

Tessera del ricordo ovvero a ciascuno la sua madeleine






Non so più se accadesse nel 1955 o al massimo un paio d’anni dopo. Insomma, erano gli anni in cui qualcuno cominciava a vedere la televisione, ma noi si giocava a fare le torte di tufo. Noi: io e le mie sorelle. D’estate. La nostra casa aveva un cortile anteriore e uno, più grande, posteriore che terminava con un capannone dove mio padre riponeva gli attrezzi e il materiale quando si chiudeva il cantiere. Ricordo anche che per un periodo avemmo anche un cane lupo, Peks. La casa era isolata e l’abbaiare di Peks avrebbe dovuto proteggerci da qualche malintenzionato. Peks era tenuto legato perché noi avevamo paura di lui e dovevamo passarci davanti per andare al gabinetto, situato in un gabbiottino dentro il capannone. Gabinetto è una parola che abbiamo imparato più tardi, quando ne avemmo uno vero, correvano gli anni sessanta, tutto bello bianco e luccicante, in una stanza grande da ballarci dentro, che si chiamava bagno. Il pavimento era di piastrelle quadrate verde acqua, mentre le pareti erano bianche, coperte di mattonelle che papà aveva voluto fissare in diagonale perché, disse, facevano motivo, erano più belle. Ecco, questa è una cosa che non dimenticherò mai: i miei, analfabeti e ignoranti, avevano un gusto per la bellezza, che sapeva di miracolo. La vasca da bagno era ricoperta delle stesse mattonelle del pavimento e si erigeva rispetto a quello su uno zoccolo. Papà l’aveva voluta così, diversa dalle altre, appoggiate direttamente sul pavimento. E mamma, beh, mamma ci insegnava la bellezza dell’essere puliti e lustrati, pur nei vestiti rifatti dalle zie con le pezze americane che arrivavano direttamente dalla Merica in grandi balle odorose di disinfettante. Il che non significava che fossero pulite. E qui entrava in azione mamma, ci pensava lei. 
In casa nostra non c’erano artisti, nessuno suonava il pianoforte (che non sapevamo nemmeno cosa fosse), nessuno dipingeva. Salvo a scoprire negli anni che papà aveva una passione segreta per le pietre e cominciò a scolpire dopo i settant’anni. E mia madre, oltre a renderci immacolati e perfetti, leggeva. Sì, questa fu la sua virtù artistica: non avere nemmeno il cesso in casa e... leggere! Insegnarci a leggere. Solo un’artista, e ricca, poteva farlo. Fu così che io, grazie al senso estetico dei miei, istillato quotidianamente nella perfezione dei piccoli gesti, nella cura della persona e delle cose, potevo tranquillamente a otto/dieci anni andare a comprarmi le scarpe da sola, ma senza soldi. Tanto il negoziante sapeva che poi sarebbe passato qualcuno a pagare. La pura verità.
Come sempre mi lascio trasportare e perdo il filo.  Ma la divagazione è stata addirittura teorizzata, e quindi mi prendo il gusto di perdermi nelle parole, come nelle strade del mio paese che percorrevo variando continuamente percorso andando a scuola. Ma in tutta segretezza: fu così che esplorai il Castello, il Rosale, il Maneggio, la Passione e Montescupolo. Quartieri allora lontanissimi da Santa Lucia dove noi si era di casa. Mamma non doveva sapere, ci mancherebbe.
Le torte di tufo, si diceva. Anche se avrebbero cominciato a chiamarci terroni, in qualche parte dell’Italia conosciuta una ventina d’anni dopo, noi non le mangiavamo di certo. Era il nostro gioco nel cortile, mentre mio fratello aveva il permesso di razzolare per strada quando voleva a piedi o con la bicicletta che arrivò proprio il ’57 a una befana. Il tufo lo grattavamo dal muro di cinta della casa: giallo, tenero fino a diventare impalpabile (e quello diventava cipria), lo si impastava con altra terra o argilla e un po’ di acqua. E si formavano torte dalla superficie verde, abbellite con le erbacce strappate sotto lo stesso muro. Le piante di mia madre erano intoccabili. Ci avrebbe tagliato le mani, se avessimo osato soltanto prenderne qualche foglia.
Capitava spesso nella tarda mattinata, ora di ritorno dai campi, o nei pomeriggi assolati, che arrivasse zio Riccardo, l’unico in famiglia che avesse conservato il mestiere antico del contadino. Quando arrivava lui, mia madre era contenta. Sapeva che un paniere di fichi freschi avrebbe allietato il pranzo o la cena. Lei ne era golosa, Ne mangiava alcuni con la buccia, sono più buoni, diceva. Altri li sbucciava soprattutto per noi che guardavamo schifati il fico intero essere mangiato e persino con gusto. Lei ci diceva anche i nomi. Quei nomi sopravvivono nella mia mente solo in parte. Bianchi, Neri, San Giovanni, Attèv’, Scorzamara, Verderame. Gli altri si sono smarriti inesorabilmente. Lei era il nostro Adamo. Era lei che aveva la capacità di dare il nome alle cose e farcene percepire l’essenza e la regola.
Negli anni avrei imparato che “dare il nome” era un problema di grande importanza. Che ne sapevo allora di Bibbia e Socrate? Vedo gli occhi azzurri di mia madre che ci spiega e indica, e ci corregge. Quanta luce, tanta.
E da quella luce che parte oggi la mia gioia di fronte a un piatto di fichi greci. Tutti doverosamente raccolti dall’Albero del viandante (di cui parlo nel mio ultimo libro, alla faccia delle casualità). Ora so perché vengo qui in Grecia: a ritrovare un pezzo della mia vita dimenticata che riaffiora con qualche fastidio negli spazi interdentali con quei granellini, i veri frutti (detti, da quelli che sanno, acheni). Ah, corre voce che non la mela sia stato il frutto proibito, bensì il fico! Sarà stato per questo che mia madre aveva quel sorriso speciale?
Parlando parlando, mica mi sono accorta di avere anche svelato la mia età. Ma chissenefrega, come dice la mia amica Alessandra.

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