lunedì 18 agosto 2014

La collana di Venere



 

Bene. Ci siamo riusciti. Siamo stati davvero bravi. Ci guardiamo negli occhi che riflettono reciprocamente i nostri sguardi brillanti. E nel punto di incontro si realizza come ologramma la proiezione del successo. La scena più importante del film: Mitilini di Lesbo ci ha nuovamente ingoiati. A distanza di un anno.
Ci siamo illusi, pensavamo che non si sarebbe ricordatata di noi, che avrebbe dimenticato imprecazioni e smadonnate, passaggi ripetuti sulle stesse strade, orfane di cartelli o indicazioni. E dire che ci avevano avvertiti. Mitilini prende e non lascia andare. Ti accoglie nel suo grembo ctonio, popolato in primissima fila di palazzi turchi, chiesone ottocentesche e casupole bizantine. Nelle retrovie, insegne di supermercati e bancarelle sulle quali si possono trovare in vendita forme di tomaie in stagno a 11 euri. Sull’acqua verde brillante, barche ormeggiate per tutto il lungomare fanno da orlo fluttuante a bar chiassosi con divanetti di finta pelle, che solo a guardarli la sauna è assicurata.
- Questo affare, io lo spengo.
Mentre dico questo al filosofo disfatto, scaravento nel vano portaoggetti l’imbelle strumento di navigazione.
Tamarra, l’auto nuova che il nostromo si sforza di dominare, si spegne nel bel mezzo di un isterico sorpasso.
- Cristo! – sbotta il filosofo, perdendo la sua proverbiale impassibilità – ora accosto. Diamogli un po’ di tempo. La destinazione è nella lista “Mie Posizioni” dall’anno scorso.
- Infatti come l’anno scorso ci siamo persi.
Si sa che i commenti acidi non aiutano. Ripartiamo, la strada è in salita e si inerpica improvvisamente con un tornante a gomito. Stretto.
-Fermati! - il mio è un urlo di dolore. Ho sentito che “Vassili” si è rovesciato.
Tamarra viene paternamente condotta su un esiguo spazio al lato della carreggiata. Apro la portiera e scendo. Mi porto furiosamente sull’altro lato di Tamarra, apro lo sportello posteriore e vedo “Vassili” che mi fa le feste tutto gongolante. Le foglioline tremano nel vento che si insinua nell’abitacolo. Mi sussurra di essere sopravvissuto ai 50° del ventre del traghetto, di essere stato anche lui bravo. Freme come un cagnolino che scodinzola, felice di rivedere il padrone.
- Non è successo nulla! È vivo e vegeto. Si è rovesciato soltanto il tuo secchiello da pesca.


 Divagazione: il filosofo usa per tenere i pesci che acchiappa in un secchiello rosa di Hello Kitty, unico contenitore a forma e funzione di secchio reperito sul mercato greco. Durante gli spostamenti il secchiello vezzoso ospita provvisoriamente alcuni trofei: tre sassi a forma di cuore, un pezzo di legno scolpito, a imitazione sasso, dalla sabbia e dal vento, un sughero di rete da pesca raccattato su un muretto di un parcheggio e la piccola infingarda, resistente a tutto, Rosa di Samos. 


Riprendiamo la ricerca dell’incrocio che dovrebbe condurci a Plomari. Lo troviamo a navigatore spento sulla scia di labili ricordi.
Facciamo una sosta improduttiva al  Sacro Fico posto quasi all’ingresso del paese. Viene su da un burrone, circondato da un muretto franoso, al centro della carreggiata. I fichi più belli sono sui rami in alto o su quelli centrali. Picche.
- Domani li ritroveremo in piazza sul banchetto di un contadino.
Rimontiamo. Mi tengo in grembo il cappello: giace dispiaciuto, nostalgico dei fichi che avrebbe potuto ospitare. Afflosciato.
Arriviamo. Scarichiamo. Io premo per andare in spiaggia. Mi preparo in un attimo. Mi guardo allo specchio: un cimelio imprevisto veste la mia gola. Una collana di Venere biancheggia sulla carnagione abbronzata.
- Dovrò prendere il sole stesa e non in piedi – dico a me stessa ad alta voce.
Il filosofo si fa avanti, mi abbraccia e mi chiede dallo specchio: - Cos’è questa storia della collana? Non ricordo tu avessi portato collane.

Nota di promemoria:
1) “Vassili” è la pianta di basilico comprato sul lungomare di Samos.
2) La Rosa di Samos è una piccola banale cactacea (presa diciamo in ricordo) da una pianta ubertosa e trapiantata in un vasetto di citronella (esaurita).
3) La collana di Venere è la ruga del collo che nelle donne tradisce l’età. Quella (destinata a moltiplicarsi) che viene nascosta da eleganti foulard o da giri di perle o da pullover a collo alto. Qui io non ho nessuno di tali mascheramenti.

Splash!

*composizione grafica e foto sono mie.

domenica 10 agosto 2014

Parentesi



Ho due figli: una femmina e un maschio. Quando nacque la prima, la mia vicina di casa d’allora mi consolò: in casa dei galantuomini, prima le femmine poi gli uomini. Ci eravamo amati goffamente, io e lui. Nessuna preparazione, nessun addestramento. Il letto fu una branda a una piazza, con un materasso provvisorio. Non avevamo mobili, camera da letto, cucina all’americana. Fu amore subito tra noi e la pupattola bionda dagli occhi fulminanti. Nonostante le notti da svegli, fino a quando la pupa andò in prima elementare e da allora si distrasse in altro modo, per nostra fortuna.




Non volevamo altri figli. Uscivamo stremati dai primi sette anni dell’angelica creatura. La guardavamo dormire (quando capitava, ma capitava)  increduli e sollevati: faccia di cera, palpebre frementi. Montavamo la guardia a turno, tanta era la paura che potesse succedergli qualcosa, tanta era la gioia di contemplarla. Eravamo provati dalla solitudine, dal trovarci da soli ad affrontare il nuovo: lavoro, ambiente, prole. Non una mamma solerte o una sorella affettuosa, nemmeno una cugina di secondo o terzo grado. Noi e lei, e bastò.

Poi  arrivò lui/lei, il tumore, la malattia. Il mio corpo giovane, e finalmente addestrato all’amore, ne rimase ferito, ma io fui ancora tutta intera  per il mio compagno. Mangiammo insieme il pane della paura e della speranza. L’amore ci allappava i sensi, la gioia, il piacere.

E senza che lo cercassimo, anche questa volta, dopo sette anni, rimasi incinta. Dalle lacrime ingoiate su quel cuscino, dalla imperturbabilità esibita del mio amante (incantata parola) per il mio corpo leso fu concepito il secondogenito. Ci amammo una notte, all’inizio con un orecchio proteso verso l’altra stanza, a un rumore nel sonno, a un risveglio improvviso. La pupa dormiva, finalmente.


Il secondo scherza ma non troppo, quando si autodefinisce il figlio secondario. La prima scherzava ma non troppo, quando diceva che a quel maschio prepotente le si davano tutte vinte.



A entrambi vorrei dire che l’amore si moltiplica, non si divide. Alla prima di non dimenticare da quale desiderio sia arrivata, al secondo di ricordare da quale rinascita sia sbocciato. Di non invidiarsi reciprocamente gli occhi del loro padre e i miei. Ché l’amore si moltiplica, non si divide mai! A spartire ricchezza, povertà arriva. E stavolta Marx non c’entra affatto.

* Ah, la riduzione cabalistica di 16 è 7. Siamo a casa di Pitagora mica per caso!

mercoledì 6 agosto 2014

Grappa vs Ouzo ( e una pianta di basilico)



Il viaggio è incominciato, anzi interrotto. La prima sosta è imposta dalle guerre, dalle piccole, futili guerre di posizione di due persone che si incamminano verso la meta, ma con nella mente sentieri diversi. Ogni tanto i sentieri si intersecano e allora: sosta.

L’hotel è il solito da parecchi anni: non ci chiedono più nemmeno il documento. Sanno che vogliamo una camera non fumatori. Ci siamo arrivati in macchina: è nuova, scintillante e sufficientemente tamarra per farmi immortalare al suo fianco. Poi penso che è una 4x4 dei poveri e comincia a piacermi di più. Odio i cassoni che occupano tronfi le corsie delle strade cittadine. Noi si va in Grecia: strade sterrate aspettateci! Ma giacché ci siamo, perché non acquistare un bottiglia di grappa al vicino supermercato. Farebbe il paio con quella di ouzo che abbiamo ricevuto in dono l’anno scorso dal nostro albergatore di Lesbo.




- Christofore!

Il richiamo di María, sua moglie, si fa acuto ogni qual volta lui mi si avvicina.

- Se sei italiana, Christoforos parla italiano, se sei inglese, lui parla inglese!

La mia omonima mi mette con acido garbo in guardia nel caso mi passasse qualche grillo per la testa. Il filosofo fa finta di nulla. Sorride sornione, al solito. Per questo che ha i baffi.

-María, - mi fa Cristoforos - conosci quella canzone “a casa di Irene si mangia si beve, a casa di Irene l’amore si fa”? – e rimane con la mano a mezz’aria e un sorriso estasiato sul viso.

No che non la conosco. Cosa sarebbe ‘sta casa di Irene? E quando l’avrà imparata? Svicolo.

Christoforos annaffia ogni pomeriggio, dopo il tramonto. Quando arriva sotto il mio balconcino lo sento cantare.

- “Tu mi fai girar, tu mi fai girar come fossi una bambola…"

 Scopro nei giorni che il tal “Christofore!” ha studiato in Italia. Ci è venuto per tre anni con la sua università a studiare agraria. Ora cura il giardinetto/orto del Pano Sto Kima, dal quale rubo ogni giorno basilico, menta e portulaca per insalata di patate. Questa cresce spontanea, è infestante, e tacito così le rimostranze del pudico, legalista filosofo. Scuote la testa, non è convinto.

- Tieni le mani a posto! – mi esorta, sapendo che farò a modo mio.

- Ma se gli faccio un favore! Gli ripulisco le rogge! Non vedi che lascia marcire i meloni? Per non parlare delle zucchine, le fa diventare dei mostri panciuti! Quella è la perchiazza.

Il filosofo scuote la testa. Non è convinto.

- Come sai che non è tossica?

- Tu sei figlio di impiegati, cosa ne puoi sapere di erbe?

Non gli dico che nel mio dialetto si ingiuriano così le persone di non elevata statura. Quindi io c’entro, eccome! Ma sto zitta e non gli do soddisfazione.




Insomma quest’anno con una bottiglia di grappa di Franciacorta in aggiunta al bagaglio, ci imbarchiamo a Brindisi e sbarchiamo a Patrasso, notte in Atene. Anche qui gli albergatori ci conoscono, sanno già che chiederemo di passare quasi tutto il giorno dopo  nella hall, con la Tamarra in garage fino all’ora del traghetto. Anche quest’anno ci offriranno poltrone e acqua fresca. Se mettiamo la testa fuori, rischiamo di seccarci come i tentacoli di polipo in bella mostra sui fili, davanti alle taverne isolane prima d’essere arrostiti.

Arriviamo a Samos. Facciamo conoscenza con l’isola e le sue strade tortuose. In hotel ci accoglie Despina, è incinta, suo marito è molto giovane (come lei), hanno una bambina che si chiama Smaragda ( come l’hotel e come la nonna). Dico al filosofo che può stare tranquillo. Nessuno griderà “Christofore!”

Il giardino è selvatico, un ammasso indistinto di piante diverse. Una piantina di menta piperita occhieggia seminascosta tra sgargianti ireos e irte palme, in un angolo. Ma la sera è il gelsomino che prevale, sfidando il meltemi più maleducato del solito. Da giorni.

Sul muretto troneggia il vaso di basilico che ho acquistato a Vathi. Con lui, il mio Vassili 2014, e la bottiglia in valigia, sbarcheremo a Lesbo. Preparati, Christofore!


*questa è letteratura, veh!