domenica 20 luglio 2014

L'arte di Milano



Mia madre aveva un modo tutto suo di esortarci a fare bene le cose.
- E che ci vuole, l’arte di Milano?!
Il nome della città così lontana pioveva su di noi con terrificante soggezione. Milano era la città dove andavano a cercare lavoro quei nostri compaesani che erano i più poveri di tutti. Figli di braccianti, per lo più, che giuravano e spergiuravano che mai avrebbero fatto il lavoro del padre. Alzarsi ogni mattina all’alba e, all’imbrunire, presentarsi freschi di toiletta in piazza e mezza nazionale tra le labbra a vendere le braccia per il giorno dopo. E le braccia si vendevano anche a seconda della simpatia del caposquadra che selezionava i più mansueti, quelli che non faceva storie, quelli che facevano andare, a testa bassa, braccia e mani, e anche piedi quando arrivava la vendemmia. Tra noi che eravamo appena un gradino sociale al di sopra, chi andava a Milano era un ribusciato, un facchino o alla peggio uno scansafatiche.
L’arte di Milano era il paradigma di un’arte misteriosa e indefinibile che si impara solo se si è fortunati. Perché anche questo voleva dire andare a Milano. Trovare la fortuna, abitare in un appartamento e tornare al paese d’estate con la lagna tipica del Ciao, neh!
I Ciaonè arrivavano in treno, in auto stipate all’inverosimile e poi, molti anni dopo, in pullman rosso  della ditta Marino.
- Hai fatto la piscina? Mo’ che andiamo da paparino!
La milanese ciaonè apostrofava così la sua bambina che se l’era fatta nelle mutandine. Ne nacquero barzellette inenarrabili che facevano sganasciare dalle risate gli uomini seduti all’ombra del muro accanto alla porta di un bar.
Che tenerezza facevano i Ciaonè. Con la loro voglia di annegare anche con le parole nei vezzi dei milanesi autoctoni.  Che poi quasi nessuno abitava a Milano davvero, ma erano sparsi per le borgate che allora nascevano apposta per loro, braccia svendute all’industria del nord. Ci tornavano ogni sera, sfraganati di lavoro, a dormire. Senza piazza né campanile.
Milano era l’avventura, il benessere, la sicurezza e una Fiat 1100 di seconda o terza mano da far girare per le strade del paese e far morire di invidia così soprattutto i vicini. I Ciaonè arrivavano in massa per la festa di San Sabino, il patrono del mio paese, in agosto.  Per amore del santo e del campanile. E delle angurie monumentali, ammassate sui camioncini, che facevano crack non appena il coltello veniva conficcato nella dura corazza e mostravano il rosso del cuore fragrante.
- Alla prova, neh!
Arrivavano anche da Torino, ma era Milano il riferimento lessicale che identificava l’emigrante fortunato. Povera Torino, esclusa dalla fama del verbo popolare. Va’ a sapere che strada prendono le parole e perché. I Ciaonè erano sussiegosi. Non perdevano mai l’occasione di sciorinare un Noi a Milano si fa così, A Milano no, non è così, generando un ruvido fastidio  negli interlocutori che, solo perché rimasti in paese, venivano declassati. Nulla più era buono in paese. A Milano, invece!

Insomma non ci voleva l’arte di Milano per imparare a fare tutto quello che serviva in casa. Sono quasi sicura che per i maschietti nessuna madre abbia usato quest’espressione. Tanto loro erano fuori a giocare al pallone o a sbizzarrirsi in bicicletta per le strade del quartiere. Tornavano sporchi, con le ginocchia sulle quali non si distinguevano più le tracce di sporco dalle cicatrici per le cadute. Successe che mio fratello fu mandato via dalla scuola perché aveva le ginocchia sporche. E non ci volle l’arte di Milano a mia madre, armata di spugna, bacinella e sapone, per dimostrare sotto gli occhi della professoressa scettica che le ginocchia del ragazzino erano così: una geografia rugosa di pelle istoriata, di cicatrici formatesi sotto le croste spesse, cadute naturalmente, sfidando infezioni pericolose. Aggiunse che ogni giorno quel figlio tornava a casa con i segni delle sue imprese. Le sue ginocchia erano trofei! Insomma non ci voleva l’arte di Milano per capire. Mia madre tornò a casa soddisfatta della sua dimostrazione, come un venditore che avesse piazzato un intero corredo da matrimonio. Emmadonnasantissima!

Non ci voleva l’arte di Milano per imparare a pelare le patate, a friggere i peperoni, a lavare i panni e anche a stenderli in modo che poi la stiratura non fosse più difficoltosa. Non ci voleva l’arte di Milano nemmeno per quella.
Io non so se, mossa dal desiderio di imitare mia madre, l’artista di casa, mi sia impadronita senza saperlo dell’arte di Milano. So invece che non avrei nessuna arte, se due donne non me l’avessero insegnata. Per l’arte di Milano in cucina e non solo, dico grazie alle mie maestre.



L'arte di Milano fu necessaria  a me per fare le valigie e partirmene dal paese.
[A mia madre Vincenza per la curiosità e l’alacrità, l’apertura alle novità e la voglia di cimentarsi; A Rina, madre del filosofo, per la precisione, la cura del particolare (ahi, come  e quanto strofinava l’orlo delle pentole!), la scelta degli ingredienti, l’amore alla tradizione].