giovedì 13 marzo 2014

Intervista impossibile



(nulla più vero della finzione)

- Papà, ci stai a essere intervistato?

Lui mi guarda, schiaccia un’arachide tra le dita e infila una nocciolina nella bocca sdentata.

- Visto che mi hai chiamato!

- Cominciamo dall’inizio. Quando sei nato?

Tra me e lui un mortaio di pietra sul tavolo. Tra me e lui l’opera delle sue mani, un oggetto comune  ma in disuso. Antico e perfetto. È  confine sensibile questo mortaio di pietra grigia, forse pietra della Murgia. Gliene regalava un pezzo ogni tanto il suo amico marmista. Sui bordi del mortaio i segni del suo lapis. Il lapis me lo ricordo bene: rosso, schiacciato, da muratore. La mia casa ora è punteggiata di mortai. Quello che rimane di lui sono questi piccoli invariati mastelli di pietra.

- Sono nato in dicembre, forse il 22, ma sono stato segnato il 16 gennaio del 1915. Quella è rimasta la data ufficiale. Allora quasi nessuno registrava i figli nel giorno della nascita. Pensavano di scappare davanti alle guerre. Ma in che anno siamo adesso?

- Siamo nel 2014.

- Di già? Il tempo passa veloce anche fuori del tempo, non pensavo.

- Che cosa ti ricordi da bambino?

- Ti sembrerà strano, ma ricordo il freddo e le botte. E dover andare a comprare il vino.

- Come mai il vino?

- Non mi piaceva il vino perché mi mandavano a comprarlo a credito. E toccava sempre a me. Ero il terzo dei miei fratelli, il lavoro sporco toccava a me.

- Ma il cantiniere non era amico di tuo padre?

- A maggior ragione. Avevo sei o sette anni allora, ma già mi era chiara una cosa. Vedi, l’amicizia ha bisogno di stima gratuita. Che vergogna avevo nel fare quel debito. Scrivevano il nome in un quaderno tutto sgualcito. Ecco mi sentivo anch’io così: maltrattato.

- Sempre esagerato. Che c’è di male in un debito?

- C’è di male che ti senti schiavo, non sei un uomo libero. Anche se poi paghi. Anche se con gli interessi. C’è una regola nella vita. Per essere libero non devi avere debiti. Devi guardare chi sta meglio di te negli occhi e dirgli: non ti devo niente. E devi essere libero anche dal bisogno, altrimenti la libertà diventa una carta falsa.

Tra le mie mani il mortaio. È freddo, la superficie è resa ruvida dai colpi testardi della bocciarda. Come il marciapiede davanti al cancello di casa. La pietra è la stessa.

- Per questo quando hai cominciato a lavorare in proprio pigliavi con te ex carcerati?

- Certo, non ti è ancora chiaro? Che ti ho mandato a fare a scuola? Questo accadeva nel ‘53 o ’54, non mi ricordo più con esattezza. So che l’ho fatto. Stammi a sentire: se uno ha il pane e magari un pomodoro da metterci sopra, non va a rubare. C’è una categoria precisa invece che ruba senza averne bisogno.

- Un’intera categoria? Addirittura!

- Sì, sono i politici e quelli che tirano loro la giacchetta. Forse non proprio tutti, ma una volta che sono lì cambiano molte cose. Vedi, loro non sudano, non tornano a casa con la schiena rotta. Basta una firma. Firma magica. E che ne sanno loro dei bisogni della povera gente? Per saperli ti devi sporcare le mani, avere la gola secca di polvere e i crampi allo stomaco. Oppure ti aggrappi alle scale del Municipio. Te la ricordi la storia della casa?

- E come faccio a dimenticarla!

- Ce la espropriarono per costruire una scuola. E ci buttarono fuori senza tante storie. Io lo so perché non mi vollero assegnare una casa popolare. Con cinque figli e una moglie… beh, non ti dico come stava tua madre di salute.

- E le assegnarono ai raccomandati. Tutti a stipendio fisso, impiegati delle Poste, del Comune e maestri di scuola. Con la tessera in tasca, quella scudocrociato.

- Capisci adesso? Ma in che anno si era, nel 1961?

- Papà, che ti metti a fare tu le domande?

- No, io le domande non le so fare. Dalla scuola sono scappato che avevo sette anni, figuriamoci.

- E com’è che davi lezioni agli ingegneri in cantiere? Lì, ci voleva la matematica.

- Che ne so, figlia mia! Io lavoravo e basta. Mastro muratore. Le cose stavano in piedi, se le facevi in un certo modo. Senza imbrogliare, altrimenti ti crollava tutto addosso. E bisognava rifare daccapo.

Gli ridono gli occhi mentre mastica un’altra nocciolina. Pane, pomodoro e noccioline: il suo pasto preferito.

- Papà?

 - Che c’è? Mi vuoi lasciar andare? Non fare come quando me ne andavo in cantiere.

- Cosa facevo?

- Piangevi disperata, non c’era verso di calmarti. Avevi meno di due anni. Svegliavi i vicini. Allora tua madre ti portava da Nardina che abitava al pian terreno. Lei si alzava sempre presto, tutte le mattine caricava il mulo per il marito che andava a lavorare in campagna. E così non vedevi che io uscivo. Avevo preso l’appalto per l’acquedotto, subito dopo la guerra. Nel ’51. Questa data me la ricordo bene. Passavo la giornata a scavare i canali per i tubi dell’acqua. C’era tutto il paese sottosopra.

- Papà, mi fai vedere le mani?

- Perché, che cos’hanno le mie mani?

- Niente, le voglio toccare.

- Eccole qua.

Vedo aprirsi verso di me,  palme di fronte, le mani grandi come tegami da farci due uova fritte. Forti, grandi e raspose come foglie di fico, piene di calli incistati come nodi nei tronchi. Aspre e piene di carezze. Trasudano potenza e orgoglio. Secche ancora di calce. Vi appoggio piano le mie che tradiscono figliolanza, ma sono visibilmente più piccole. Mi godo l’ attimo.

- Riprendiamo. Papà, ti vorrei fare un’altra domanda, ma non so se posso.

- Giacché stiamo, da trenta facciamo pure trentuno.

- Se la mamma era sempre malata, sofferente, com’è che avete avuto cinque figli?

Vedo che la sua faccia si contrae. Spesso ho pensato con rancore che lui era stato un irresponsabile e che la mamma fosse stata vittima della sua esuberanza sessuale. Questa cosa ce l’avevo in gola. Prima non avrei osato, ora so di poterlo fare.

- Figlia mia, al ritorno dalla guerra noi eravamo gigli dei campi. Quella era la vita: io e tua madre insieme. E tutti e due li abbiamo voluti i figli. Tutti quanti, anche quelli che si sono fermati per strada, e ce ne sono stati. Con queste mani impastavo calce e cemento e lavoravo, tre giornate in una, per darvi da mangiare. Pane e companatico. L’unica nostra consolazione era quello che provavamo l’uno per l’altra.

Ha abbassato la testa e si è zittito. Lui che mai l’ha fatto davanti a nessuno. L’ha chinata davanti alla mia superficialità di figlia, alla mia mancanza di pudore di fronte alla sua reticenza. Abbasso anch’io le armi. C’è una zona che non si può violare. L’abisso dove vive l’essenza del desiderio, intimità si chiama. Giusto.

- Papà?

- Che c’è ancora? S’è fatto tardi e tua madre mi sta chiamando. Da quando è arrivata qui anche lei, s’è persa la pace. Fammi andare.

Nel mortaio di pietra una nocciolina brilla di sale e ammicca.

[n.d.r. L’intervistato fu muratore e scalpellino, nato nel 1914. Morto a 92 anni]










domenica 9 marzo 2014

Nonna Gaetana




La nonna si chiamava Gaetana. Quel nome le tirò addosso l'omaggio inconsapevole alla virgiliana Caieta: fu nutrice dall’età di sedici anni, quando venne rapita dal suo innamorato e si sposò, e lo rimase fino a quando il suo petto smise di sgorgare latte profumato. Allattò tanti bambini: undici i suoi e molti quelli degli altri. Offriva il capezzolo a qualsiasi bambino di cui udiva il pianto.
- Oggi il bambino piange in continuazione, portalo da Gaetana. 




E il miracolo avveniva. Gaetana tirava fuori senza pudore la sua grassa mammella e offriva quiete e ristoro, una calda appaciante consolazione. Meglio della papagna, l’infuso dei semi di papavero, che faceva crescere bambini scemi. Gaetana era fiera della sua lattea sorgente. Le capitava che, mentre allattava i suoi o gli altri, bambini più grandi si avvicinassero a guardare con facce stranite la massa di carne da cui usciva il latte. Allora Gaetana per liberarsene, sottraeva la mammella al poppante e spruzzava il getto di latte sulle facce degli incauti osservatori. I bambini si allontanavano strillando, fingendo spavento, ma con le dita raccoglievano le gocce di latte e se le portavano alla bocca leccandosele golosamente.
Fu per questa sua natura di curare la vita attorno a lei che Gaetana si offriva anche di lavare i morti, vestirli e accompagnarli fino alla fossa di terra che li avrebbe ricoperti. Nutrice fu e lo rimase. Ma fu per stanchezza, per la resistenza che si assottigliava ogni giorno di più che, quando sua figlia partorì il suo quinto figlio, Gaetana disse: femmina schiattata, proprio una femmina! Quasi dispiacendosi che alla nuova venuta fossero accollati i suoi compiti, il suo destino, di cui però non si era mai lagnata.
Quando la bambina compì il primo anno, sua figlia si ammalò gravemente e allora si fece una triste spartizione. I primi tre, due femmine e un maschio, sarebbero rimasti in famiglia; le ultime due furono assegnate alle rispettive nonne. Gaetana tenne per sé Sabina, la più piccola. Femmina schiattata.  Bionda e cicciottella, se la mangiava di baci e carezze. 
Ogni giorno, una delle sorelle, la seconda, andava dalla nonna a giocare con Sabina. Talvolta se la caricava in braccio e la portava a giocare con lei a casa della mamma. Gaetana, nonostante il suo amore per la vita e per i bambini, cominciò a odiare quella nipote scostumata che osava portarsi via la sua Sabina. Contava le ore e i minuti fino a quando la bambina le veniva restituita. Sabina era un cherubino paffuto. Gaetana faceva cucire dalla figlia, che ancora zitella viveva con lei, i vestitini arricciati in vita, che mettevano in risalto la morbidezza delle gambette e le calzette bianche nelle scarpe col cinturino della nipote.
 La sorella più grande, che poi aveva solo quattro anni di più ed era anche lei una bambina, si guadagnò il nome di scarafaggio. Aveva i capelli neri come l’inchiostro, grandi occhi che davano al giallo come quelli dei cani e la pelle levigata dal riflesso violaceo, tipico delle brune mediterranee.
- Adì, è arrivato lo scarafaggio!
La bambina rideva dell’appellativo e non ci badava, aveva altro a cui pensare. Allora i grandi non si mettevano in discussione, nemmeno quando ti trattavano male. Si stava zitti, ma forse proprio per questo ci si induriva nel carattere, si maturava animo fermo nelle proprie idee e decisioni. Qualche volte Gaetana le permetteva di giocare con suo seno vizzo: Scarafaggio lo estraeva dalla scollatura e soppesava la mammella grinzosa come una sacchetta di canapa. Gaetana rideva, ma durava poco. E l’allontanava con una ruvido spintone. ­­­
- Vattene, Scarafaggio!
Scarafaggio allora abbracciava la piccola e se la portava quasi di corsa sulla strada tutta in salita fino alla loro casa. Ma non era sempre possibile. Gaetana obbligava le nipoti a rimanere sul ballatoio della scala che portava alla sua casa a giocare sedute e composte sulle pietre bianche dei gradini. Scarafaggio doveva stare attenta a non far cadere la piccola, ma giocare sui gradini non è che si potesse fare chissà che. Sulla porta, riparata da una rezza che fungeva da tenda, Gaetana si sedeva e sorvegliava. Su quella sedia rimase un giorno colpita da trombosi. Si riprese, ma rimase paralizzata tutto il lato destro e non riusciva più a parlare se non per pronunciare ancora due biascicate parole: Vattene, scarafaggio!
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