mercoledì 10 settembre 2014

Odorose peripezie






L’erba dei re. Per loro tre fu semplicemente Vassili.

All’inizio fu la vista del verde. Quella particolare sfumatura di verde, ancora gravido di giallo, così desideroso di blu. Di infinito. “Mentre che la speranza ha il fior del verde”. “Verdi come fogliette pur mo’ nate erano in veste, che da verdi penne percosse traean dietro e ventilate”. Sì, fu proprio questo ad attrarre la signora. Il colore verde di dantesca memoria. E poi fu il tatto, e l’olfatto gli tenne dietro come impellenza irruente. Il palato sciolse l’enigma.



- Sa di cannella - disse sicura.

- Come, di cannella? - replicò la figlia

- Certo, annusa prima mentre scuoto piano e poi annusa una foglia spezzata.

- Speziato, sì, è speziato - confermò autorevole il padre.



Intanto il piccolo basilico fremeva nel vento della terrazza sul mare. I suoi rametti, memori delle ali degli angeli del Purgatorio, vibravano, tentando forse un volo impossibile. Vassili si degnò di accompagnarli, lei, figlia e filosofo, in Tessaglia, in Macedonia, in Tracia. A Verghina lo parcheggiarono imbronciato (ma poi bevve e sorrise) sul davanzale della finestra dell’hotel, così a Gianina, finestra fronte lago, affinché non sentisse la nostalgia di casa, lui che era nato a Thasso, sulla terrazza quasi galleggiante nella baia di Alikì. Il lago era molto grande e si sperava che il piccolo Vassili lo scambiasse per mare. Con i bambini, a fin di bene, si può barare. Vassili in Italia ebbe vita lunga e prosperosa, riproducendosi in tante propaggini (eresia botanica, ma vabbuò) profumate che vennero regalate alle colleghe della signora. Arrivava a scuola con i vasetti di plastica raccattati in un vivaio e distribuiva bellezza in quella squallida sala docenti. Con grande scandalo dei colleghi che si consideravano i “guardiani del tempio” e non semplici passeur (Pennac sarebbe felice!). Lei, per spiegare Virgilio, arrivava in classe con Tamerice e Amarillis. E quando toccava al sublime Giacomo (lo chiamava così alla faccia degli snob) arrivava con le ginestre (di vivaio) profumate di poesia. Tra parentesi, quando chiese alla vice preside se fosse possibile ospitare un’Amarillis che avevano allevato in classe, la vicepreside fece un balzo indietro credendo fosse un animale e si quietò soltanto di fronte al lussurioso enorme fiore della bulbosa. E per spiegare il dattilo, la signora prof. mimava il tempo di un valzer immaginario, battendo sulla cattedra un, due tre/— ∪ ∪ / un, due, tre /— ∪ ∪ /un, due, tre… trattenendosi dal ballare tra i banchi.

Il profumo di Vassili, detto Premier, abitò varie terrazze e qualche giardino. La sua tutrice aveva soltanto un balcone, ma Vassili Premier non se ne lamentò mai. Ebbe davvero una vita felice.

Vassili Deux ammaliò la signora, che non sapeva opporre resistenza alle tentazioni, sul lungomare di Vathi, capitale di Samo, qualche anno più tardi. Ci passò davanti per due volte, alla terza entrò e lo comprò. Un pallone verde (le acciughe fanno il pallone…) tenero e compatto. Giovane guerriero corazzato nell’impalpabile levità delle foglioline. Questa volta fu solo la bellezza a vincere. Non venne usato in cucina né strappato per adornarsi come facevano un tempo le ragazze greche ai balli popolari. Fu collocato con studiata riflessione sul cornicione della camera dell’hotelluccio che li ospitava per le vacanze, in compagnia assai variegata e pimpante. La terrazza era custodita da piante rampicanti che, dal giardino sottostante, le facevano cortina e pergolato. A tappare ogni spazio vuoto ci pensavano rose, ireos, petunie e affini.

Stavolta in vacanza erano solo in due, perché gli orizzonti dei figli diventano necessariamente alternativi a quelli dei genitori, ma il nome del pallone verde fu nuovamente Vassili, e per non offendere la memoria di Premier si decise di chiamarlo Deux. Stirpe regale richiede decenza e garbo. La signora ne era estasiata: ogni mattina, appena alzata, usciva a salutare Vassili Deux, controllava che avesse bevuto, che nessun bruco si sognasse di pasteggiare con le tenere foglie. Il marito la immortalò mentre lo abbracciava, mentre infilava la faccia tra le foglie, mentre versava l’acqua al sitibondo (che caldo!), insomma seguiva le mosse di sua moglie, sospettando una qualche ragione dietro quel comportamento esagerato. Ci fu persino chi, Giorgio, su Facebook, vedendo quelle pose, le fece un commento ironico ricordando Elisabetta da Messina e insinuando che lì sotto, al fresco tra le radici, la signora avesse (idealmente?) sepolto gli amori segreti. Poi Vassili fu felice del trasferimento in un'altra isola: dal balcone vedeva il mare e sentiva meno la nostalgia del blu.

Vassili Deux diventò un personaggio. La sera, internet permettendo, gli amici le chiedevano di lui, soprattutto le amiche, ché Vassili era troppo bello e non si poteva non innamorarsene. Insomma un filo di amore, simpatia, ironia, indulgenza o derisione (scegliete voi) correva tra le maglie della rete.

Vassili Deux superò brillantemente il lungo viaggio di ritorno. Tre traghettamenti, due attraversamenti per terra: lui niente! Fiero e olezzante, tutta la macchina ne era inondata, toccò il patrio suolo della coppia, indenne come un sovrano sul trono, appunto.



- Sono a casa, finalmente - scriveva lei sulla sua bacheca di Faccialibro.

- E Vassili? - chiedevano insistentemente le voci amiche.



Tocca al narratore svelare la sorte di Vassili Deux. Si trova in un Camposanto. No, no, tranquilli, non è mica morto! Fa compagnia col suo profumo a una coppia di signori che avevano consegnato in dote alla figlia (la nostra “amica” di fb) l’amore per le piante, il naso per i profumi, il rispetto per tutto ciò che vive e ci circonda, l’attenzione nel guardare in terra e vedere le formiche, la voglia di guardare al cielo e dire: che bello stasera! E se volete sapere di Vassili Deux, d’ora in poi dovete chiederlo a voi stessi.






lunedì 8 settembre 2014

I piccoli passi


Gli ultimi giorni di vacanza si trascinavano in una specie di malinconica consuetudine. L’euforia era del tutto sopita. Claudia si chiese se lei e il suo compagno non partissero con la segreta speranza di ridare calore e vita alla loro relazione. Talvolta le coppie, in questi casi, fanno un figlio gettandosi in un precipizio che nemmeno immaginano. Loro due partivano. Il viaggio, il tempo, il mare, il cibo dai nuovi aromi e un orizzonte sconfinato dalla nave che li portava all’isola. Lì si sarebbero amati di nuovo con passione nei pomeriggi dopo la spiaggia, nella camera ombrosa e rinfrescata dal ventilatore a pala sul soffitto. Claudia fantasticava. Quell’aria smossa la eccitava: carezze che si aggiungevano a carezze mentre facevano l’amore; una sorta di espansione cosmica dell’eros, consumato, bevuto, assimilato con tutto il suo essere in una stanza.
In spiaggia ci andava da sola. Lui aveva la pelle delicata, non amava esporsi al sole e nemmeno fare il bagno. Nato in un paese a picco sul mare, era abituato fin da bambino a nuotare in acque fonde. Dagli scogli o ti butti o niente. Lei aveva conosciuto il mare da adulta, non sapeva nuotare e galleggiava come una paperella quando si lava le penne. Ma da tempo amava stare in acqua, si affidava al dondolio del mare. Compiva gesti inusitati come mandargli baci. Quando lanciava le braccia in avanti per mimare una bracciata, si portava le mani alla bocca e mandava baci all’acqua con i suoi polpastrelli, sfiorando le increspature delle onde e chiamandola madre. Era sempre più convinta di farsi cremare quando la sua vita si sarebbe esaurita. Diceva in giro che desiderava che le sue ceneri fossero sparse nel mare Egeo, così finalmente avrebbe imparato a nuotare.
Il mare dell’isola: a volte accarezza, a volte respinge o inghiotte. Con le sue buone ragioni, pensava Claudia. Siamo suoi figli, proveniamo da quel ventre fecondo. Ha tutti i motivi per incazzarsi: ogni tanto sulla sua superficie anche qui galleggiano bolle di schiuma non prodotta dallo sciacquio sulle onde, ma da qualche sversamento di criminali. Nell’isola attribuiscono la responsabilità alle navi turche, e probabilmente anche i Turchi attribuiscono agli isolani la stessa azione criminale. Fatto sta che, come una madre con i suoi bambini, si arrabbia, si agita, minaccia. Claudia ormai ragionava, o sragionava diceva il suo compagno, in questi termini: il mare si incazza, il mare si offende, il mare ti perdona quando abbandona la sua furia e torna ad accarezzarti come lenzuolo di seta.
-Sono le maree - sorrideva con indulgenza supponente lui.
- Ma con qualcuno devo parlare - ribatteva Claudia. – Visto che sono da sola parlo col mare, e anche con le pietre. Sono bellissime, anche il sasso più brutto racconta storie infinite. Ogni strato un colore, una consistenza, un odore.
- Lo so che ti chiamano “la signora che parla alle pietre" - di nuovo quel sorriso che Claudia non capiva, non capiva proprio.
- Beh, intanto sono quella che parla! Qui anche gli altri ospiti mi chiamano per salutarmi, per scambiare un cenno con gli occhi quando le lingue si ingarbugliano attorno a quell’inglese bistrattato e ridotto ai minimi termini. E quando ce ne andiamo, ogni anno lasciamo occhi lucidi dietro di noi. Come credi che avvenga tutto ciò. Te lo dico io anche se lo sai benissimo. Con la parola: balbettata, annuita, accennata, monca, sbagliata. Non sai quante cazzate mi vengono fuori e anche in chi mi parla. Qualche volta si ride perché non riusciamo a capirci, ma ci intendiamo lo stesso. Almeno c’è un elemento di gioia. Di sentimento condiviso. Do you understend? Katalaves?
Cominciarono a preparare i bagagli già tre o quattro giorni prima della partenza.
- Che facciamo nel pomeriggio? - chiese lui.
- Potremmo visitare il pezzo dell’isola che va verso il promontorio al di là del golfo, quello con gli sterrati.
Lui esitò. Sarebbe andato più volentieri in paese a comprare i vermi per la pesca serale.
- Nulla ci impedisce di fare entrambe le cose. Andremo a comprare i coreani sulla strada del ritorno. Così non ti muoiono e non appestiamo il frigorifero con le bestie in decomposizione.
Lungo la strada Claudia lo faceva fermare di botto tra le proteste di lui.
- Guarda che scorcio magnifico! Scendiamo?
- Va bene, così do un’occhiata al fondale. Se è sabbia, sarà buono per pescare. Meglio col galleggiante, non correrò il rischio che gli ami si conficchino tra le pietre, e poi si spezzerà la lenza, e addio.
- Guarda che colore ha il mare. Come faremo a lasciare questo posto?
- Andiamo via, ci sono solo sassi.
Si rimisero in macchina e proseguirono. Quando l’asfalto finì nello sterrato, lui chiese.
- Che facciamo?
- Andiamo avanti, no?! Qui non puoi nemmeno tornare indietro. Vediamo se c’è uno spiazzo dove fare la retro.
Lui eseguì.
- Ecco sotto quell’albero di fico! Ti va bene?
- Lui eseguì.
La casa era isolata. Piccola, dipinta di giallo canarino con le imposte blu squillante. All’imboccatura di un vialetto laterale. Recintata da un muretto basso, un cancello chiuso impediva l’accesso all’atrio, la cui pavimentazione era spaccata dalle erbe selvatiche che stavano ormai occupando lo spazio. Il retro aveva tutto l’aspetto di quelle costruzioni ampliate secondo necessità. Tetti di materiali diversi coprivano altri due piccoli edifici. Alle spalle, un campo incolto, abitato, lo scoprirono dopo, da due caprette legate da una cordicella, che li guardarono con occhi antichi, sapienti di secoli. Maestoso, sul cancello, si ergeva un fico carico di frutti maturi. Molti ne giacevano a terra appassiti o già decomposti. Una bellezza inquieta, fatta di turgori e appassimenti. Una bellezza vera che nasceva, cresceva e moriva nel ciclo vitale che la rendeva sodale di tutti gli altri esseri. Un luogo selvatico, come la faccia delle caprette grigie che brucavano guardinghe. Un luogo senza ammiccamenti.

- Ecco, qui sì che c’è la natura selvaggia, indenne. Senza ammaestramenti e comodità. Ma come si fa a vivere qui? - disse Claudia in preda a desideri contrastanti.

- Però è bello - se ne uscì lui improvvisamente.

Claudia alzò la testa per guardarlo. Raramente lo sentiva fare apprezzamenti sul panorama.

- Sarebbe bello anche venire qui quando vogliamo stare da soli. Tu potresti scrivere in santa pace, io potrei pescare. Qui il fondale è basso. Vedi? È sabbia – proseguì lui accostandosi a una barca da pesca solitaria e in stato di apparente abbandono. - Potresti anche fare il bagno, vedi?

- Sì, sembra un luogo vergine. Chissà se la casa è in vendita. O se si affitta. Sarebbe il posto ideale per le nostre due solitudini.

- Non credo si affitti, guarda che è molto trascurata, a dir poco - Paolo ignorò la battuta sarcastica della donna.

- Kalimera, kalimera! Kalò Iltate! - Un fiume di parole incomprensibili, ma fascinose nel suono antico che producevano, fluì dalla gola della signora che andò loro incontro per aprire il cancello a metà del viale che evidentemente era di sua proprietà. La voce acuta, dal tono musicale, proveniva dal fondo del sentiero a fianco della casa. Una donna grassa, di bassa statura e capelli corti e abito blu, agitava le mani in aria.

- Ecco avranno pensato che vogliamo rubare i fichi - disse lui con una certa preoccupazione.

- Ma no, vado a vedere cosa vuole. - Claudia si incamminò sul sentiero, si fermò un momento faccia a faccia con le caprette e fu allora che ne incrociò gli occhi gialli. - Vieni?

Lui si mise il cappello e prese il borsello dall’auto parcheggiata in qualche modo all’inizio del sentiero, proprio davanti alla casetta delle fate.

- Vieni! - gli gridò Claudia ormai avanti un bel po’.

La sagoma della donna si fece più definita. Aveva il fiato corto, due occhi verdi che luccicavano di eccitazione. Claudia percepì nel turbine parlato nuovamente la parola “caffè”.

- Dai, vuole offrirci il caffè!- gridò di nuovo Claudia. Lui era risalito in macchina per parcheggiare decentemente. Altrimenti. se fosse arrivata un’altra macchina, non sarebbe potuta passare.

Claudia lo aspettò a metà del sentiero, facendo cenni alla signora di aspettare, sorridendo. Quell’offerta di caffè cadde gradita come una doccia rinfrescante. Non aveva mai piovuto in quella quarantina di giorni sull’isola. Qualche nuvola nera, da un paio di giorni, arrivava minacciosa dall’alto delle colline, ma quando si avvicinava al mare la matassa si sbrogliava, e la nuvola diventava d’un bianco ghiaccio, dissolvendosi in ciuffi leggeri che si rispecchiavano sulla superficie dell'acqua. Le piccole onde sorelle rispondevano con le loro crestine festose. E il temporale annunciato dal meteo finiva in una goccia sul parabrezza, che si asciugava nel momento stesso del contatto col vetro bollente. Avevano riso in onore di quell’unica goccia d’acqua.

- Pame, oriste!- La signora continuava a elargire sorrisi e mono ellenikà. Solo greco, – li avvertì – ochi anglikà, e nemmeno inglese.

- Buongiorno, mi chiamo Claudia e lui è…

- Paolo - disse inaspettatamente lui.

Claudia sa che è timido. Diciamo pure imbranato. Soprattutto con le lingue. Si impiccia, chiama Gregorio l’albergatore quando sa bene che si chiama Grigorius. Lei lo rimprovera, gli dice di fare uno sforzo, di non italianizzare tutto. Non è corretto, almeno con i nomi si può fare uno sforzo! Ma non gli riesce. Paolo la usa come interprete in ogni occasione. Anche al ristorante la guarda per sollecitare le ordinazioni. Qualche volta Claudia se la ride sfacciatamente, ma capita anche che si innervosisca di fronte alla soggezione esasperante di Paolo. Claudia si consola vedendo che in molte coppie chi ordina è lei, al massimo lui annuisce. Nei musei chi fa i biglietti è lei, lui estrae il portafogli per pagare. Nei conti e nel capire la cifra è imbattibile. Per quello non c’è bisogno di parlare, i conti si fanno a mente e Paolo era un campione in aritmetica. Claudia tentenna sempre, a lei i numeri interessano poco. Uno in più, uno in meno. Lei nei conti sbaglia, nei confini si disorienta, non li vede, li attraversa. Un passo in più, uno in meno non c’è differenza. Sa che non è vero. In realtà i passi sono importanti. Non confessa che anche lei ha le sue esitazioni. Confonde ancora la parola evrò, euro, con avrio, domani. E non solo. Ma lei non teme di fare brutte figure pur di comunicare.

- Spiti, spiti!- gorgheggiò la signora - micrì. Egò Andonìa!

Claudia spiegò a Paolo che la signora li invitava a entrare in casa e diceva, quasi scusandosi che era piccola. Si chiama Andonìa, Antonia.

- Sì, - replicò Paolo - la faccenda delle t che diventano d e delle b che diventano v l’ho imparata anch’io. Claudia lo vede sorridere, anche lei è felice. Non sa perché. Lo capisce subito dopo. L’atrio della casa di Andonìa le ricordò la sua casa da bambina. Pieno di vasi di fiori appesi alla recinzione, alle pareti, allineati in terra. Vecchie buatte di conserva che si adornano di basilico profumato. Un angolo con la cucina, un tavolo, sotto una tettoia. I piedi calpestarono un pavimento di cemento grezzo sia nell’atrio che nelle due stanzette della casa, stipata di ninnoli, centrini e passatoie fintopersiano. L’accoglienza festosa di Andonìa le ricordava le sue zie materne con il loro seno prosperoso e la faccia sudata nei saluti. Si sentì lanciata indietro nel tempo.

Antonìa rivelò un animo d’artista: aveva decorato la parete di fondo del cortile con conchiglie e sassi che luccicavano al sole che vi batteva sopra, insinuandosi tra le foglie delle piante che lo reclamavano tutto per loro. Una santella in un angolo riproduceva la struttura delle chiese ortodosse. La donna ne aveva abbellito le pareti con conchiglie e bottoni indorati. La cappella centrale rigurgitava icone e lumini. Si segnò nel passare davanti e Claudia la imitò, dicendo l’unica parola di preghiera che conosceva, Panaghìa. Andonìa si illuminò felice di poter condividere quel sentimento.

- Caffè?

- Sì, sì - disse Paolo seguito da Claudia che ripetè né, né, evkaristò polì!

I due si guardano. Non sapevano cosa si sarebbero detti oltre i saluti. Anche Paolo si era emozionato, ma non lo avrebbe mai detto. Si aspettava una reprimenda sul tentato furto di fichi, e ne ricevevano invece un invito cortese. Andonìa intanto si feceva in quattro. Oltre al caffè arrivò con un vassoio di dolci, melone e zucchina canditi. Come facesse ad avere tante cose in quella casetta minuscola per loro rimaneva una cosa stupefacente. Una sorta di scatola magica da cui fuoriuscivano tesori insospettati.

Claudia si portò le mani giunte al petto. Non sapeva più come dire grazie.

Si sentì un rumore di auto. Si fermò una vecchia Punto.

- Andrasmou - sorride Andonìa.

- Mio marito - tradusse Claudia. - Ti ricordi di aner andròs al liceo? Il pronome enclitico? - Andramou, uomo mio, dedicandoglielo.

Ne scese un uomo piccolo e abbronzato dal sole del cantiere. Faceva il muratore, il piastrellista, il pavimentista. Insomma un muratore d’altri tempi, che tira su case complete. Anche lui bevve il caffè. Tutti intorno al tavolino sghembo. Sulle sedie impagliate ricoperte da cuscini fiorati. Il suo nome rimase nei tartagliamenti della presentazione.

I silenzi furono popolati per qualche minuto dagli sguardi reciproci. Dai sorrisi gentili. Dai gesti convulsi di Andonìa e da quelli più pacati, ma non meno determinati di Claudia.

Mentre gli uomini si offrirono reciprocamente la sigaretta, le donne intavolarono una conversazione che ebbe i seguenti esiti.

A Claudia e Paolo, piaceva la casa e avrebbero voluto saperne di più. Andonìa raccontò la storia della sua famiglia, padre e madre, figli e nipoti. La conversazione si interrompeva solo quando Andonìa, ispirata, si alzava e correva in casa, uscendone con fotografie delle due figlie sposate e dei due nipotini. Per dire sposate fece il gesto della corona sulla testa e poi le foto in abito bianco parlarono da sole.

- Egò ime jajà! Io sono nonna. E si riempì di orgoglio. Il marito inspirò ed espirò nuvolette di fumo denso.

Si salutarono con la promessa che sarebbero tornati due giorni dopo.

- È stata una cosa bella - disse Paolo una volta sulla strada. Di nuovo per la seconda volta lui usò quella parola. - Hai visto cosa aveva sulle mensole? La macchina per la pasta tutta arrugginita e senza manovella. Potremmo comprargliene una nuova. Ma temo si possa offendere.

- Si può fare prima di partire. Se riusciremo a trovarla in città.

Tornarono qualche giorno dopo. Con il pacchetto del regalo. Non lo mostrarono subito, ma dopo che Andonìa arrivò con il vassoio e tre tazzine fumanti di caffè greco e una marmellata di chicchi d’uva.

- Buonissima, - fece Claudia – ma come ha fatto a lasciare i chicchi interi e turgidi? - E sorrise ad Andonìa.

E come caspita si dice, in greco, regalo? E come accidenti si dice che vorrebbero ringraziarla per quel gesto di ospitalità commovente e reiterata? Doro, regalo? Boh! E come spiegarle che non è un regalo di turisti ammaliati dal folklore di quella casa e di quel cortile fiorito e agghindato, ma un gesto di affetto? Nulla. Si limitarono a vedere il volto di Andonìa che si bagnava di lacrime che aggiunte al sudore la trasformarono in un grassa peonia rorida di pioggia.

Andonìa e il suo uomo (quanto piacque a Claudia dell’andramù!) si parlarono guardandosi negli occhi. Quelli dell’uomo si strinsero in un assenso. Lei si alzò, entrò in casa e ne uscì con un sacchetto che emanava odore di naftalina. Ne tirò fuori una tovaglia ecrù, ricamata a punto erba e la mise nelle mani di Claudia, mentre l’andramù portò un grosso recipiente di olive in acqua di mare. In quel momento brillarono di contentezza gli occhi di Paolo che chiese aiuto a Claudia.

- Come facciamo a dire di no. Diglielo che sono troppe. Non vorrei che rimanessero senza.

- Eko varili - risponde Andonìa – varili!  Andonìa, che ancora qualche minuto e avrebbe parlato italiano. Scoppiarono a ridere.

Si imbarcarono due giorni più tardi, al solito un po’ spossati dai brontolii reciproci dei preparativi. Si tornava a casa. Claudia seduta sul ponte all’aperto. Nell’aria e nel vento. Lui di sotto nel salone del bar, con le tendine chiuse e le luci artificiali accese.

- Mi è più comodo qui - aveva detto.

Non aveva proprio torto. Le sedioline di ferro del ponte erano scomode. Claudia vi si era acciambellata come un gatto, ma quasi subito aveva tirato giù le gambe. Scriveva sulla sua moleskine qualcosa, parole sparse. La moleskine, il regalo di Paolo prima di partire.

- Non puoi non avere una, per una scrittrice che si rispetti!

Claudia gli aveva risposto facendogli una boccaccia, come una bambina dispettosa.

Ogni tanto chiudeva la moleskine e fissava ipnotizzata il pavimento verniciato. Ebbe l’impressione che il ponte della nave continuasse nel mare. Tutto era di quell’unico colore azzurro di luce. La nave scivolava silenziosa tra gruppi di isole riarse e disseccate. Grumi di terra nella vastità di quell’azzurro liquido e palpitante. Strinse tra le mani la moleskine. Piccoli passi, pensò. Sono importanti i piccoli passi.

Sulla copertura del ponte, un clicchettio secco, improvviso, insistente. Cominciava a piovere.


* foto mia




martedì 2 settembre 2014

Il telo rapito




È questione di relazione. Forse.
Non sarà stato l’effetto farfalla a far sparire il mio favoloso telo da spiaggia acquistato qualche anno fa e mai usato? Giallo spugnoso da un lato e giallo- lilla in cotone indiano dall’altro. Ciuffetti di frangia sui lati. Non se se mi spiego.
Nessuno ruba nulla qui in Grecia. Da un mese e passa lasciamo sulla terrazza a piano rialzato tutti i nostri oggetti, e sono tanti. Canne da pesca, ciabatte, posacenere, computer e asciugamani al sole o alla luna. Eppure il telo è sparito, spostata la pietra a forma di carapace di granseola, che lo fermava sul muretto del balcone, buttata in terra la chiave della stanza, che noi furbi avevamo messo sotto come si fa con lo zerbino nelle migliori commedie, spostate le ciabatte da spiaggia che giacevano sotto il medesimo muretto. Insomma. Entriamo. Tutto è in ordine: si fa per dire, tutto è nel meraviglioso disordine prodotto dalla nonchalance vacanziera. Non manca nulla. I computer sono lì, occhiali da sole, cellulari, orologi. Persino i nostri stracci, orfani di firme non li vorrebbe nessuno. Penso. Finanche il mio gioiello ultimo, un aragoscorpione d’argento (?) penzoloni dal laccettino “in leader, signora italiana” mi ha detto Potis, il grecobangladesciano che è diventato il mio pusher di cavigliere colorate in plastica, o d’argento che arrugginisce.

Ipotesi 1 e 2
Qualcuno che voleva andare in spiaggia dalle 20 alle 22 mentre noi s’era al ristorante, qui a due passi.
Un dispetto fatto al nostro albergatore che rogna ogni volta che qualche incauto passante gli sposta le pietre del vialetto dal suo hotel verso la spiaggia.

Ipotesi 3 (inespressa, ma frutto dell’adolescente vanitosa che ogni tanto mi possiede come demonio da esorcizzare)
Vuoi vedere che la moglie del suddetto mi ha fatto lei un dispetto per dirmi di non parlare amabilmente col suo sposo?
Scartata. E se la dico al filosofo so’ cazzi. Sì, anche perché il suddetto ieri mattina mi ha avvicinata, lui grondante di goccioline, appena uscito dalla nuotata delle dieci. Fisico niente male per uno che ha dieci anni meno di me. Quindi non di primo pelo.
“Sai che da giovane devi essere stata bella da mangiare?” Io ho fatto un sorriso tirato per due ragioni che qui espongo:
1) Non c'è offesa più grande che dire a una signora “da giovane ti avrei mangiata”. ‘Sto cafone, vorrà mica aver voluto dire che mo faccio schifo? 
2)Davvero non ho capito se il desiderio fagocitario fosse riferito a me o ai peperoni che gli ho fatto assaggiare. Cucina italiana, ingredienti greci gli avevo detto.

Ipotesi 4
Il vento isolano. Ma ieri sera non c’era vento o almeno non così forte da sollevare la “granseola” marmorea e furare il telo.

Ipotesi 5
Un ladro, lui sarebbe pure entrato, ma qualcosa glielo ha impedito e si è accontentato del telo. Nuovo. Bello.
Abbiamo deciso che d’ora in avanti, nei quattro giorni che ci restano, chiuderemo tutto e porteremo via la chiave con noi. Dovunque si vada.
E stanotte io non ho chiuso occhio. Pensavo al telo perduto, alla stranezza della cosa.

A colazione, il mattino appresso, mi si sono schiarite le idee.
- Il telo furato fa il paio coi fichi! – dico con gli occhi sulla tazza di caffellatte (senza caffè, ma con la ciofeca del liofilizzato. Caffè nostro, finito da due giorni, sigh!).
Il filosofo mi guarda, aggrotta le sopracciglia, mi scruta senza capire.
Secondo me fa finta. Candido, finge di non sapere dei fichi che cogliamo sui bordi delle strade. Quelli selvatici, di tutti. Però la mattina al mercato rivediamo un vecchio raccoglitore che con il suo motorino scassato spesso intravediamo sotto qualche albero a cui la velocità dell’andatura di Tamarra non ci consente di fermarci. Ci siamo posti una regola: non più di tre o quattro fichi per albero. Come lavarsi una coscienza impolverata dal meltemi, intanto ne abbiamo comprati da lui.
Uno scettico mah!, e il filosofo si alza per portare nel lavello la sua tazza e anche la mia.
Troverò due ore più tardi il telo arrotolato attorno allo stelo di una pianta aerea di cetriolo nell’orto del simpaticone, nascosto tra le grandi foglie raspose delle zucchine, punteggiate di fiori arancione squillante. Il cialtrone mi permette di raccogliere il basilico, emìs dont’use ripete nella sua lingua localglobal.
Anche il filosofo non è stato capace di risolvere l’enigma. Allora: fico libero!