mercoledì 31 ottobre 2012

Una sola automobile, due ceffoni







Due volte a settimana il mio filosofo tiene la sua lezione in facoltà. Un filosofo moderno, perché quelli antichi camminavano, passeggiavano, esploravano piazze e usci di caverne. Lui no. Corre a spandere il verbo in macchina con autista, che sarei io. Due volte a settimana ritorno a casa con un sottofondo di borbottii, i miei, contro l’elogio della pigrizia che mi siede e vive accanto.
Accendo la radio per evitare di sprofondare nelle mie melmose rampogne. So che non devo rimuginare, mi conosco, non voglio guastarmi la giornata. E poi è colpa mia se abbiamo una sola macchina. Il filosofo caldeggia l’acquista di un altro trabiccolo, ma mi oppongo con la ferocia ambientalistica che mi contraddistingue.
‒ Due persone, due macchine? Ma “siam passi”?
Non aggiungo che, se il filosofo dovesse pagare il parcheggio per la giornata che rimane in università, bisognerebbe fare un mutuo, e le propine accademiche scadrebbero al livello di mancetta per adolescenti petulanti. Un gelato allo yogurt quando andiamo al cinema, alla domenica pomeriggio. Già ci siamo vicini.
Ergo in solo vehiculo stat res.
Radio 2. Mi assale la voce querula di Chiambretti, sollevo la mano dal volante per cambiare programma, ma irritazione su irritazione, mi giunge la voce tremula dell’Emilio. Sì, il direttore della rete illegale, il frequentatore di bische, il procacciatore di femminei sollazzi per l’utilizzatore finale. Stamattina nasce storta. Ci sono mattine così, il mondo , Saturno (uno dei miei pianeti, e l’altro è Marte), mi rema contro.
Però.
Un momento.
‒ Lanci un tuo partito…
Penso a una celia chiambrettiana.
‒ Sì, non un partito, un movimento di opinione. Perché nel bene e nel male faccio opinione…
‒ Il tuo slogan?
‒ “Vogliamo vivere, e il sottotitolo è La dignità è un diritto”!
Spengo la radio. Mi concentro sul semaforo che sta cambiando colore. Inchiodo sul rosso. In questa piazza c’è la telecamera. Quella che manca ormai al canuto direttore. Non si tinge più, anche se non rinuncia al suo bel fondotinta e alle punturine vitaminiche sul viso. Di altro e di altrove non so, ma posso ipotizzare.
 “Vivere”, “dignità”, “diritto”.
Invoco la rifondazione del vocabolario, altrimenti almeno due schiaffoni, suvvia. Simpatici, al volo, come quelli di Amici miei.
Intanto il filosofo sta chiacchierando di Dottrina dello stato. Il mio, di stato, è prostrato. Cazzo, che bell’inizio di giornata!

venerdì 5 ottobre 2012

"O voi che siete in piccioletta barca..."




Sembra noioso, ma spesso non lo è. Che cosa? Fare la spesa. Uno dei doveri più ripetitivi e mai espletati del tutto. Per quanto si mangi poco… la dispensa mostra una voracità illimitata.
Coppia di signori più o meno della mia età (Che devo dirvela? Si vince facile.) Il monticello bruno delle melanzane luccica di rugiada. No, non è la freschezza a produrre la meraviglia mattutina, ma più prosaicamente il passaggio dai frigoriferi dei depositi alla temperatura ambiente. E siamo ancora sui venti gradi abbondanti. Giustificata in pieno la voglia di una bella parmigiana.
Dicevo, la coppia.
Lui: ‒ Prendi due melanzane.
Lei si stringe nelle spalle, resiste. Ne prende una, la soppesa. Guarda il marito, sperando che lui l’aiuti nella scelta. Io scalpito. Se si fanno da parte, sarebbe meglio. La sporta di plastica spessa comincia a pesare. Ha già ingoiato pomodori, fagiolini, scarola, prezzemolo, sedano e carote. E il filosofo che stoico la regge mi fa cenno di sbrigarmi. I due mi guardano con una strana luce negli occhi. Non raccolgo.
Lui, facendosi coraggio: ‒ Chiedi alla signora!
Sì, perché io mi sono intrufolata nella loro sospensione valutativa e cerco di prendere le mie melanzane. Le ho scelte con gli occhi.
Lei mi guarda ed esclama: ‒ Ma devono perdere l’acqua!?
‒ Sì, se vuole ‒ faccio io con malagrazia, lo ammetto.
Intanto la signora mi ha risoffiato il posto.
‒ Si fanno in tanti modi, vero?
‒ Vero ‒ confermo. Poi, mossa a compassione e, sospinta a mia volta dalla pressione della fila che si va componendo dietro di me non troppo ordinatamente, butto lì una sfilza di proposte che si scontrano con il mesto contrappunto “Ma devono perdere l’acqua!” 
Io rischio di disidratarmi, comincio a sudare, ingoio saliva.Nello stesso tempo vedo le melanzane trasudare, inondare la mia cucina della loro acqua. Partoriranno? O il flusso continuerà spumeggiante e solenne come cascate?
Lei: ‒ C’è chi fa la caponata, vero?
Io, interessata: ‒ Ecco, vada a prendere allora un bel sedano!
‒ Sedano? ‒ la signora è sconvolta. Gli occhi di suo marito diventano più grandi, quelli del mio si stringono fino a diventare due fessure.
‒ Lascia stare, va là ‒ ci soccorre sfinito e pentito il marito numero uno. Il filosofo riapre gli occhi, io afferro le mie melanzane.
Li guardo allontanarsi mesti con il loro pacchetto di carote. ‒ Per la minestrina ‒ aveva trovato il tempo di dirmi la signora.

Morale della favola: la moda teleculinaria fa più danni di quanto non si creda. Spinge anziane signore alla cucina “esotica”, mette in crisi matrimoni, determina una densità di corpi statici davanti ai banchetti delle verdure che solo dio lo sa. Lo stesso accade nei supermercati al banco del pesce, e persino al banco della carne. Ormai ci strizziamo reciprocamente l’occhio col pescivendolo, col macellaio subissati loro malgrado da quesiti culinari. Costretti a spiegare che il pesce bisogna squamarlo, che lo spezzatino non cuoce in venti minuti.
“ O voi che siete in piccoletta barca/tornate a riveder li vostri liti…! Che Dante mi perdoni se spargo i suoi versi come fosse prezzemolo.

Cucinate quello che sapete senza farvi mortificare e, se odiate cucinare, non sentitevi in colpa, sorelle! Ché le cuoche televisive tali non sono, fanno finta.