venerdì 14 settembre 2012

(Ro) Mantico Autunno




Per ogni foglia che cade
Giro una carta
La Papessa mi guarda male
Il Matto mi volta le spalle
L’Imperatrice sorride non si sa a chi
Albero, smettila
Trattieni  le foglie
Resisti
Alla fresca presa della scura notte
Rilancia
Sulla morsa gelida dell’alba
Un Sole che brilla
Un Asso di spade
Un tre di cuori.
Stai tremando, albero?
Smettila 
Il Mago è nella tua scorza
La Stella rifulge
Nell'oscuro grembo delle tue radici.

domenica 9 settembre 2012

In viaggio con Bubamara











Sono nel porto di Igoumenitsa, in fila sul molo, mescolata a tante altre persone. Non faccio caso a loro. Presto più volentieri orecchio allo scambio di battute tra marinai napoletani e greci, tra un malachas e un chi t’è muort’ mi perdo un po’ nelle sonorità mediterranee. Le parole note e ancor più quelle sconosciute sono la mia fissazione, la mia maledizione. Poi mi accorgo che non sono tra turisti, ma tra famiglie di almeno tre generazioni. Vecchi signori con collane  e medaglia, signore con fazzoletti a fiori a raccogliere i capelli, ragazze col velo e ragazze senza, sorrisi che luccicano di bianco e oro, bambini attaccati alle gonne delle loro mamme. Una di loro, Tania, mi dice, dopo un paio di sguardi, che lei lavora come badante. Solo allora capisco che faccio la fila con un gruppo di emigranti slavi. Bulgari per la precisione.

Saliamo sul traghetto. Il mio compagno è nel ventre della nave a parcheggiare. Mi dirigo verso la cabina assegnataci. Uno slalom tra coperte di velluto sintetico a fiori stese nei corridoi e su ogni spazio calpestabile, cuscini di raso con volant, fagotti aperti, piedi in bella vista. Non ci sono cattivi odori. Sguardi febbrili sul viso degli uomini, malinconici sui volti delle donne, incorniciati da crocchie di capelli setosi e corvini.
Al mattino, prima dello sbarco, ripercorro il mio itinerario tra ostacoli vari. Alcuni aitanti giovanotti escono dalle toilette con l’asciugamano sulla spalla. Scanso due bambini  che dormono abbracciati. Una ragazzina si trucca aiutata dall’amica: camicetta azzurra di maglina lucida, fiore di stoffa nei capelli, gonna con cintura di paillette. Una mamma, avrà sì e no vent’anni, deterge il culetto roseo di una bambina poggiata nel vano di un oblò nella sala del bar. Sui tavolini gli avanzi delle cene, bicchieri di plastica, una bottiglia di Gordon’s, ormai vuota, che ammicca. Si spande l’odore del caffè. Mentre aspetto che il mio compagno venga buttato fuori dalla cabina (lui e il dio sonno hanno una relazione mattiniera intensa) mi ordino un cappuccino e cerco un posto per sedermi. Difficile. Poi raccolgo uno sguardo che mi guida verso una sedia disponibile. Gli occhi che mi hanno sfiorato sono di un uomo di circa cinquant’anni (azzardo, perché ne dimostra di più). Ha un solo dente nell’arcata superiore, ma uno sguardo da pirata. Accanto a lui un ragazzo gli insegna a dire : mercato, bambino, acqua. Il suono "cqua" gli riesce difficile, lo ripete ridendo. Poi a un certo punto il “vecchio" lo interrompe e gli chiede con una certa ansietà: mercato, bazar? Il giovane annuisce. Annuisco anch’io, come se potessi intervenire in quella estemporanea didattica.
Mi intenerisce l’umiltà dell’adulto maturo di fronte alla dolce generosità del ragazzo più esperto.
L’odore forte di tabacco mi stordisce e mi dà la nausea, un retaggio delle gravidanze.
E poi arrivano loro, una coppia di turisti: lei ha un tailleur pantalone di lino bianco con camicetta nera, borsa bianca profilata di nero, sandali infradito di marca; lui sembra reduce da un safari: pantalone al ginocchio blu (civettuoli laccetti griffati ne arricciano l'orlo) con tasche dappertutto, maglietta kaki con coccodrillo a fauci spalancate, cappello texano con laccetto di cuoio, scarpe da trekking color sabbia, senza calzini (fa più fico?). Vorrebbero sedersi. Picche, risponde coralmente il salone affollato. I tavoli rigurgitano di persone, molti hanno i bambini sulle ginocchia, schioccano baci. La coppia arriccia il muso come la gallina che non riesce a far l’uovo,  mi guarda come a dire: che schifo. Anzi se lo dicono tra di loro. “Non pensavamo tanti!”. Questa nave non la prendiamo più!”. Poi cominciano a parlare della Grecia entusiasti dei peperoni fritti (Boh, penso io che i peperoni li mangio anche in Italia), delle melanzane (idem), del Chefalotiri (pecorino di quello vero) e gongolano dell’incontro con l’esotico, si compiacciono della semplicità (loro dicono: ma sono indietro!) dei padroni o gestori degli studios. “Che bello, però!”
I neocoloniali a questo punto, notato il mio sguardo che li sfiora senza vederli, pensano che sia una di loro, degli altri, e non si preoccupano delle corbellerie che riescono ad accumulare in pochi minuti.
La nausea mi prende più forte, anche se nessuno sta fumando da un po’. Vorrei dire loro che lo yogurt è un’invenzione dei bulgari, che l’acqua di rose che la signora si sta spargendo sulle mani,"ma che odore c'è?", è bulgara. Rinuncio. Preferisco ancora bearmi della bellezza opulenta di quelle crocchie scure (qualcuna delle nonne si sistema il velo), della “Bubamara”  che si fa pettinare dall’amica, della mamma che provvede all’igiene della bambina. Un culetto da mangiare di baci. Mi commuovo davanti al coraggio di questi uomini, alla fierezza di queste donne che fanno casa sull’impiantito di un traghetto, ridono e scherzano tra loro per prepararsi a un’avventura sconosciuta. Affermano con forza il loro diritto a esistere. Si danno coraggio. "Bubamara" si passa un filo di rossetto e trova una posizione meno precaria al fiore ribelle tra i capelli. E io sento il violino di Goran, lo sbattere delle ali dell’oca, il grugno del maiale che rosicchia un fanale di automobile, vedo persino un gatto nero e un gatto bianco. Applaudo silenziosamente e ringrazio.