giovedì 12 gennaio 2012

Ghost hunter



Lui

Il gatto arriva quasi ogni giorno. Avanza con incedere aristocratico a passetti cadenzati. Solleciti. Si arresta proprio sul ciglio del cornicione e si accoccola con sussiego nel solco della giuntura dei coppi. Immobile guarda nel vuoto. Il cielo è liquido nella luce tenue del crepuscolo. Sembra voglia trattenere gli ultimi bagliori del giorno che va via. Le sue ultime gocce di luce. Gli uccelli sono ritornati tutti nei loro nidi. Forse un nido di rondine potrebbe essere proprio sotto uno di quei coppi. Paolo si sporge dalla ringhiera, aspira voluttuosamente il fumo e poi lo butta fuori in piccole pausate volute. L’immagine del gatto si fa confusa, offuscata dal fumo della sigaretta che sale fino ai suoi occhi. Il gatto rimane immobile, ieratico. Non c’è pericolo per le per le rondini, sarebbero comunque riuscite a volare via prima che il persiano bianco potesse, con spregio tutto felino del pericolo, sporgersi per scovare la preda. Il gatto sembra guardare un punto indeterminato. Paolo immagina la luce sottile delle sue pupille quasi serrate, dalla sua postazione può vedere il gatto non il bagliore dei suoi occhi.
Quando il persiano occupa il suo cono visivo, Paolo pensa a Oscar. Ha letto di lui qualche tempo fa su un giornale nazionale, il giornale che sua moglie gli fa trovare sul tavolino accanto al bicchiere già pieno della sua bibita preferita. Accade a Steere House, ospedale di Providence negli Stati Uniti. Oscar è un gatto che si posiziona ai piedi del letto dei malati di una famosa clinica statunitense quando la morte del malato è imminente. Non ha mai sbagliato. Oscar è bianco e nero, un comune soriano. Ha un bel mantello soffice Oscar, le sue zampette sono candide e vellutate. Eppure il placido gattone crea inquietudine tra i pazienti nella casa di cura: già perché l'animale, è ormai convinzione degli osservatori, riesce a presentire la morte dei malati.
Paolo si allontana dalla ringhiera. La sigaretta si è esaurita. “Non gettare giù il mozzicone!” L’imperioso ritornello risuona nelle sue orecchie. Schiaccia la cicca nel posacenere, che ha poggiato per terra con eccessiva insistenza, infastidito, inquieto. Anche il portacenere non manca mai sull’altarino dell’amore coniugale: sua moglie vive solo per lui. Senza la boccata d’aria e di fumo sul balcone non potrebbe accettare il ritorno a casa. Si gira verso la ringhiera in direzione della terrazza di fronte: il persiano è sparito, andato. Buonanotte. Paolo rientra, va al tavolino e si versa di nuovo dallo shaker un altro Margot. La sua inquietudine si stempera nell’alcool che gli brucia la gola, facendo piazza pulita dei suoi trasalimenti. È pronto per un’altra ottusa serata familiare.



Lei

Sì, io sono sua moglie. “Dovresti essere felice “, ha detto mia madre il giorno del mio matrimonio. “Di bello è bello, ha una posizione. Moglie di un notaio, ti pare poco?” Vai a fare la signora, figlia mia”. Sì, mi piaceva, io ho deciso, io l’ho sposato. E ora sono qui ancora dopo dieci anni a chiedermi perché, perché non ho il coraggio di lasciarlo. Mia madre, le mie amiche, il paese. Ecco, è tornato dal lavoro come al solito con la faccia truce, come a dire non rompermi le scatole anche tu. Entrando, incrocia sulla porta la donna delle pulizie. La scansa manco avesse visto uno scarafaggio. “Vado, signora, a domani”, lei mi guarda condiscendente e leggo il suo pensiero un tantino irriverente“Questo campione è tutto tuo”. Lei mi ha sorpreso con gli occhi rossi, qualche volta, e ha capito. La mattina è lei che rifà i letti delle due camere, che mette a posto. Le donne non hanno bisogno di parole.
Tutte le sere apparecchio per lui il “suo” tavolino. Drink, giornale e posacenere. Sì, lui pensa che voglia coccolarlo, ma sono anni che aspetto che l’alcol gli vada di traverso, che si riempia i polmoni del catrame di quella sua sigaretta venefica. Ma fuori, a fumare fuori! Una soddisfazione da niente. Lo vedo fumare in balcone e penso agli abbracci che non mi ha dato, ai baci che non ho avuto, ai figli che non ho partorito. “Ti ho sposato solo perché si smetta di sparlare in paese di me. Non mi piacciono le donne. Non piangere, troveremo un accordo, un equilibrio”.
“Hai visto quel persiano bianco sul terrazzo di fronte?” mi ha detto una sera. “Sembra che arrivi proprio quando ci sono io”. La cosa strana è che sembra capire quando sto per tornare dentro e se ne va”. Sai quanto me ne importa del tuo gatto, ho pensato mentre portavo ancora del ghiaccio per il suo MARGOT, martini bianco, triple sec, succo d’arancia e fragola . Peccato che la terrazza sia troppo lontana per un salto. Dai, gatto, saltagli addosso, strappagli gli occhi. Prendigli l’anima. Sono completamente fuori di me. Sarà meglio che beva anch’io un po’ del suo Margot.



Il gatto

Che cosa stupida pensare che gli gatti non capiscano quello che succede. Gli esseri umani sono presuntuosi. Limitati. Quando parlo con Oscar, mio cugino americano, ce lo diciamo sempre. Loro, gli umani, pensano che noi gatti guardiamo nel vuoto e vediamo i fantasmi, che siamo dei ghost hunter. Per noi è naturale parlarci, anche se siamo agli antipodi di questa terra. Oscar, da qualche tempo, si è assunto il compito di fare compagnia a quelli che muoiono, nell’indifferenza di tutti, nella casa di cura dove lui abita, a Providence, Stati Uniti. I suoi amici hanno il morbo di Alzhaimer e nessuno bada loro, nessuno capisce i loro sguardi persi nel vuoto e il loro farneticare. Allora lui, quando arriva il momento del trapasso, si mette ai piedi del letto per accompagnarli, per dire loro “Non abbiate paura, non fa male”. Una sorta di terapia per scacciare la paura del buio che sta per ingoiarli.
Io scendo su questo cornicione e ho preso in carica i due che abitano proprio qui di fronte. Mi avvicino quanto più possibile e mi fermo sul limitare dell’abisso. Cosa faccio? Niente. Come Oscar aspetto. Li vedo passare l’uno accanto all’altro senza mai sfiorarsi. Sarà che a noi gatti ci piace tanto strusciarci. Be’, non son qui per parlare della mia felina goduria. Tra poco farà scuro, e allora li vedo anche meglio  al di là dei vetri chiusi. Vorrei accompagnarli nell’oltrepassare la soglia che li trattiene entrambi al di qua della felicità. Vorrei dire loro “Coraggio, non fa male, andate, ognuno per la propria strada". Per noi gatti la libertà è più goduriosa perfino dello strusciarsi. Ma questi non capiscono. Sono davvero limitati gli esseri umani.

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