lunedì 30 gennaio 2012

Uno e trino (in Aeroporto a Francoforte)




Storia vecchia, si sa. I maschi giocano dai sei mesi ai centonovant' anni.. Il primo trastullo è il pistolino, per cui ogni aggeggio che capita loro tra le mani ne diventa il surrogato, un surplus di potenza e godimento. Poi venne l’epoca del fucile e il ludico maschietto lo usò come il prolungamento del proprio organo. Sparava proiettili, centrava  bersagli. Al culmine della propria esaltazione, come dice la Franca nazionale, dall’alto del proprio prepuzio prese a costruire campanili e grattacieli, seppure in epoche diverse tra loro.
Un giocattolo per volta sembrava sufficiente a colmare la distanza tra il birillo esistenziale e l’universo. Con l’avvento della modernità il giocattolo unico non bastò più, sicché si fece uno e trino: fu così che nell’aereoporto di Francoforte mi é capitato di vedere una creatura di genere maschile armeggiare simultaneamente con lap top, cellulare e iPad. Mi si svelò così il mistero della trinità che tanto mi aveva angustiato nelle lezioni di catechismo. Non mi chiedete l’identificazione del singolo aggeggio nelle divine persone, sarebbe sacrilego e non vorrei urtare la sensibilità di qualcuno. I misteri della fede sono tali per definizione. Io mi sono sentita annientata col mio povero e-book reader nuovo di zecca.  Ho spento il mio reader e ho aperto un vecchio libro, per non incorrere nel rischio di sembrare in competizione con la trimurti tecnologica dell’homo ludens. O con la sua potenza tutta virtuale, ma così ben ripatita.

domenica 22 gennaio 2012

Noia

Sento il mio corpo pulsare
Di calore compresso
Leone in gabbia
che sogna ruggiti
e passeggia folle
da una sbarra all’altra
spalancando le fauci
ormai silenti.
 

Sono le orecchie a cogliere
Il fischio
Della noia.

sabato 14 gennaio 2012

Con la complicità di Vincenza ( ... terzo tempo della vendetta)


Avevo promesso di vendicarmi di Neruda (nel penultimo post), ma credo che, avendo osato tradurre  l’Ode al carciofo del poeta cileno che io adoro, l’impegno sia stato onorato. Pertanto compio il terzo tempo, quello che mi appartiene con maggiore credibilità: fornire la mia ricetta per i carciofi. Anzi, mia non è. Sicuramente la partenza è quella dei carciofi alla romana, ma della variante che li rende ancora più gustosi, ammesso che sia possibile, sono debitrice a Vincenza, coprotagonista del mio romanzo familiare (Così è la vita, amore mio), che in quanto a grinta guerriera nulla aveva da invidiare al carciofo. In quanto a tenero cuore non c’è storia. Cuore di mamma vince facile.
Ho in orrore le sbrodolate…mi riprendo immantinente.
Dunque avevamo lasciato i nostri carciofi, nettati e acconciati in acqua. Ripeschiamoli uno ad uno. Con l’aiuto di un coltellino appuntito pareggiamo la base in modo che stiano dritti. Scaviamo con cautela nel cuore per estrarne l’eventuale barbetta. Tritiamo uno spicchio d’aglio, una manciata di prezzemolo, una bella cucchiaiata di capperi dissalati. Mescolare tutto con un cucchiaio scarso di pan grattato per carciofo, sale e pepe q.b.
Riempire il “pozzetto” centrale e farcire, se si riesce, le brattee esterne, aprendole delicatamente. Dopodiché deporre i guerrieri in tal modo agghindati in una pentola bassa (doppio fondo o antiaderente), puntellandoli con i segmenti di gambo in modo da non lasciare spazi vuoti, aggiungendo olio evo, vino bianco (preferibilmente Malvasia bianca del Salento oppure un Orvieto classico) e acqua in parti uguali fino a raggiungere l’orlo dei carciofi (due a persona). A fuoco lento fino a che i rebbi della forchetta attraversino senza fatica la base del carciofo. Aggiustare di sale. A cottura ultimata, aggiungere fettine di mozzarella sulla capocchia di ciascun carciofo e spengere il fuoco, lasciando la pentola coperta per tre o quattro minuti affinché il formaggio si ammorbidisca col calore.
Servire caldi con lo stesso vino usato per la cottura.
La vendetta si è consumata in tre tempi:
la traduzione dell'Ode al carciofo di P. Neruda;
la tecnica per abbordare il carciofo (riabilitando Maria la cuoca dell'ode;
la mia ricetta.
Ecco, è tutto. Con buona pace del poeta.

giovedì 12 gennaio 2012

Ghost hunter



Lui

Il gatto arriva quasi ogni giorno. Avanza con incedere aristocratico a passetti cadenzati. Solleciti. Si arresta proprio sul ciglio del cornicione e si accoccola con sussiego nel solco della giuntura dei coppi. Immobile guarda nel vuoto. Il cielo è liquido nella luce tenue del crepuscolo. Sembra voglia trattenere gli ultimi bagliori del giorno che va via. Le sue ultime gocce di luce. Gli uccelli sono ritornati tutti nei loro nidi. Forse un nido di rondine potrebbe essere proprio sotto uno di quei coppi. Paolo si sporge dalla ringhiera, aspira voluttuosamente il fumo e poi lo butta fuori in piccole pausate volute. L’immagine del gatto si fa confusa, offuscata dal fumo della sigaretta che sale fino ai suoi occhi. Il gatto rimane immobile, ieratico. Non c’è pericolo per le per le rondini, sarebbero comunque riuscite a volare via prima che il persiano bianco potesse, con spregio tutto felino del pericolo, sporgersi per scovare la preda. Il gatto sembra guardare un punto indeterminato. Paolo immagina la luce sottile delle sue pupille quasi serrate, dalla sua postazione può vedere il gatto non il bagliore dei suoi occhi.
Quando il persiano occupa il suo cono visivo, Paolo pensa a Oscar. Ha letto di lui qualche tempo fa su un giornale nazionale, il giornale che sua moglie gli fa trovare sul tavolino accanto al bicchiere già pieno della sua bibita preferita. Accade a Steere House, ospedale di Providence negli Stati Uniti. Oscar è un gatto che si posiziona ai piedi del letto dei malati di una famosa clinica statunitense quando la morte del malato è imminente. Non ha mai sbagliato. Oscar è bianco e nero, un comune soriano. Ha un bel mantello soffice Oscar, le sue zampette sono candide e vellutate. Eppure il placido gattone crea inquietudine tra i pazienti nella casa di cura: già perché l'animale, è ormai convinzione degli osservatori, riesce a presentire la morte dei malati.
Paolo si allontana dalla ringhiera. La sigaretta si è esaurita. “Non gettare giù il mozzicone!” L’imperioso ritornello risuona nelle sue orecchie. Schiaccia la cicca nel posacenere, che ha poggiato per terra con eccessiva insistenza, infastidito, inquieto. Anche il portacenere non manca mai sull’altarino dell’amore coniugale: sua moglie vive solo per lui. Senza la boccata d’aria e di fumo sul balcone non potrebbe accettare il ritorno a casa. Si gira verso la ringhiera in direzione della terrazza di fronte: il persiano è sparito, andato. Buonanotte. Paolo rientra, va al tavolino e si versa di nuovo dallo shaker un altro Margot. La sua inquietudine si stempera nell’alcool che gli brucia la gola, facendo piazza pulita dei suoi trasalimenti. È pronto per un’altra ottusa serata familiare.



Lei

Sì, io sono sua moglie. “Dovresti essere felice “, ha detto mia madre il giorno del mio matrimonio. “Di bello è bello, ha una posizione. Moglie di un notaio, ti pare poco?” Vai a fare la signora, figlia mia”. Sì, mi piaceva, io ho deciso, io l’ho sposato. E ora sono qui ancora dopo dieci anni a chiedermi perché, perché non ho il coraggio di lasciarlo. Mia madre, le mie amiche, il paese. Ecco, è tornato dal lavoro come al solito con la faccia truce, come a dire non rompermi le scatole anche tu. Entrando, incrocia sulla porta la donna delle pulizie. La scansa manco avesse visto uno scarafaggio. “Vado, signora, a domani”, lei mi guarda condiscendente e leggo il suo pensiero un tantino irriverente“Questo campione è tutto tuo”. Lei mi ha sorpreso con gli occhi rossi, qualche volta, e ha capito. La mattina è lei che rifà i letti delle due camere, che mette a posto. Le donne non hanno bisogno di parole.
Tutte le sere apparecchio per lui il “suo” tavolino. Drink, giornale e posacenere. Sì, lui pensa che voglia coccolarlo, ma sono anni che aspetto che l’alcol gli vada di traverso, che si riempia i polmoni del catrame di quella sua sigaretta venefica. Ma fuori, a fumare fuori! Una soddisfazione da niente. Lo vedo fumare in balcone e penso agli abbracci che non mi ha dato, ai baci che non ho avuto, ai figli che non ho partorito. “Ti ho sposato solo perché si smetta di sparlare in paese di me. Non mi piacciono le donne. Non piangere, troveremo un accordo, un equilibrio”.
“Hai visto quel persiano bianco sul terrazzo di fronte?” mi ha detto una sera. “Sembra che arrivi proprio quando ci sono io”. La cosa strana è che sembra capire quando sto per tornare dentro e se ne va”. Sai quanto me ne importa del tuo gatto, ho pensato mentre portavo ancora del ghiaccio per il suo MARGOT, martini bianco, triple sec, succo d’arancia e fragola . Peccato che la terrazza sia troppo lontana per un salto. Dai, gatto, saltagli addosso, strappagli gli occhi. Prendigli l’anima. Sono completamente fuori di me. Sarà meglio che beva anch’io un po’ del suo Margot.



Il gatto

Che cosa stupida pensare che gli gatti non capiscano quello che succede. Gli esseri umani sono presuntuosi. Limitati. Quando parlo con Oscar, mio cugino americano, ce lo diciamo sempre. Loro, gli umani, pensano che noi gatti guardiamo nel vuoto e vediamo i fantasmi, che siamo dei ghost hunter. Per noi è naturale parlarci, anche se siamo agli antipodi di questa terra. Oscar, da qualche tempo, si è assunto il compito di fare compagnia a quelli che muoiono, nell’indifferenza di tutti, nella casa di cura dove lui abita, a Providence, Stati Uniti. I suoi amici hanno il morbo di Alzhaimer e nessuno bada loro, nessuno capisce i loro sguardi persi nel vuoto e il loro farneticare. Allora lui, quando arriva il momento del trapasso, si mette ai piedi del letto per accompagnarli, per dire loro “Non abbiate paura, non fa male”. Una sorta di terapia per scacciare la paura del buio che sta per ingoiarli.
Io scendo su questo cornicione e ho preso in carica i due che abitano proprio qui di fronte. Mi avvicino quanto più possibile e mi fermo sul limitare dell’abisso. Cosa faccio? Niente. Come Oscar aspetto. Li vedo passare l’uno accanto all’altro senza mai sfiorarsi. Sarà che a noi gatti ci piace tanto strusciarci. Be’, non son qui per parlare della mia felina goduria. Tra poco farà scuro, e allora li vedo anche meglio  al di là dei vetri chiusi. Vorrei accompagnarli nell’oltrepassare la soglia che li trattiene entrambi al di qua della felicità. Vorrei dire loro “Coraggio, non fa male, andate, ognuno per la propria strada". Per noi gatti la libertà è più goduriosa perfino dello strusciarsi. Ma questi non capiscono. Sono davvero limitati gli esseri umani.

martedì 10 gennaio 2012

Vendicarmi di Pablo Neruda (in tre tempi)





Il carciofo dal cuore tenero

si vestì da guerriero

impettito, eresse

una piccola cupola,

si mantenne

all’asciutto

sotto

le sue squame

attorno a lui

le verdure impazzite

si incresparono

divennero

viticci, infiorescenze,

bulbi commoventi,

dentro le zolle

dormì la carota

dai baffi rossi

la vigna

inaridì i tralci

da cui sgorga il vino

la verza

si diede a provar gonne

l’origano

a profumare il mondo

e il dolce

carciofo

lì nell’orto,

vestito da guerriero,

brunito

come bomba a mano,

orgoglioso,

e un giorno

a ranghi serrati

in grandi canestri

di vimini, camminò

alla volta del mercato

a realizzare il suo sogno:

la milizia.

Nelle filiere

mai fu tanto marziale

come alla sagra

Gli uomini

fra le verdure

con i loro bianchi camici

erano

i generali

dei carciofi

le file ordinate

le voci di comando

e la detonazione

di una cassa che cade

ed ecco

allora

arriva

Maria

con il suo cestino

sceglie

un carciofo

lei non ha paura

lo esamina, lo osserva

controluce come fosse un uovo,

lo compra

lo infila a casaccio

nella sua sporta

tra un paio di scarpe,

un cavolo e una

bottiglia

di aceto

finché

entrando in cucina

lo annega nella pentola.

Così termina

in pace

la carriera

del vegetale armato

che ha nome di carciofo

poi

scaglia a scaglia

spogliamo

la delizia

e mangiamo

la pacifica polpa

del suo verde cuore.   (Pablo Neruda)








“Questa qui dà i numeri” lo penserei anch’io, se non fosse che le mie letture (mi devo consolare ogni tanto dell' insipienza della mia scrittura) non mi avessero pilotato verso don Pablo. Leggo e rileggo la sua memorabile “Ode al carciofo”. Rimango a bocca aperta davanti al carciofo che emerge maestosamente sotto i miei occhi, impavido tenero guerriero. Una metalessi da fare paura. Quello che non riesco a digerire (ché di alimentazione si tratta) è la povera Maria, una cuoca pasticciona (butta con noncuranza il carciofo nella sua sporta tra scarpe, cavolo e una bottiglia di aceto), che arrivata a casa annega senza un biff lo scaglioso legume (passatemi il francesismo) in acqua bollente. Così com’è, cotto e mangiato, direbbe una nota signora degli schermi culinari.

Questo, no! Non posso sopportarlo. La poesia è pericolosa, le sue metafore mirano all’assoluto, agli archetipi che, una volta escogitati (devo ammettere divinamente dai poeti, quelli veri), ti si appiccicano addosso come la pece e… addio. Mi chiamo Maria, è noto, ma non vorrei rimanere imbrigliata nel prototipo della Maria dell’ode, con la quale condivido soltanto il gesto sicuro nella scelta del soldatino corazzato di viola e di verde.




Mi tocca quindi il bieco compito di distrarvi dalle affabulazioni estetiche di don Pablo e riportarvi nella prosaicità dei precetti asseverativi di una cuoca che aborre l’abborracciamento (notare l’allitterazione, nonché lo pseudo poliptoto) sulla preparazione del nobile ortaggio.

 Il carciofo, capolino del Cynara Scolymus, va acquistato solo se:

 Le sue brattee sono serrate, chiuse, e non lasciano intravedere il cuore che emerge

 Il gambo ha la lunghezza di circa 15 cm ed è turgido

 Le vostre dita, premendo la pancia del carciofo, avvertono resistenza (sennò che corazza è?) e non vuoto.




Quindi, una volta sul vostro piano di lavoro, cominciate a mondare il carciofo dalle brattee, (le poetiche squame) visibilmente più legnose. Proseguite senza usare il coltello che falcia senza pietà, insieme alle parti dure, anche le tenere (non si spreca come ho visto fare in Piazza Erbe a Verona dalla vecchina che mondava carciofi per la grassa borghesia cittadina, e come vedo fare, inorridisco, in cucine televisive). Il consiglio è quello di usare le mani, piegando le brattee una ad una: si spezzeranno nel punto in cui la ferrea durezza cederà a una consistenza più cedevole e dal colore che tende al giallino. Il carciofo si espugna assediandolo tutt’intorno. Una vera fortezza. Arrivati in cima, allora sì che potete segarne ciò che rimane e pareggiare.

Solo a questo punto affrontate il gambo che, a seconda delle preparazioni, richiederà un taglio diverso:

 Netto alla base

 Oppure lasciando due o tre centimetri.




I gambi non si buttano via: si possono pelare con facilità dato che il fusto è carnoso e striato longitudinalmente. Fate come fareste con un gambo di sedano, con un pizzico di decisione in più, per toglierne i filamenti. I gambi si cuociono insieme ai cuori. Sono la parte più dolce. Dimenticatevi di utilizzare i gambi, se i carciofi non sono freschi.

Tuffate i carciofi in una ciotola colma di acqua in cui avrete stemperato un paio di cucchiai di farina (se non volete che anneriscano, perché il carciofo non dimentica la sua natura guerriera e continua e sputare bile ferrosa. Il succo di limone, ottimo condimento a cottura ultimata, potrebbe intaccarne il sapore originario).

(continua…)

martedì 3 gennaio 2012

Diario di una cuoca persa nei vapori delle pentole



A volte i giorni
Sembrano un budino mal riuscito
(l’agar agar ha tradito)
Si squacquera con l’affondo
del cucchiaio goloso.

A volte i giorni
sembrano chicchi di melagrana
sprizzano nettare purpureo
e lasciano (nocciolo bastardo)
Il palato allappato.

A volte i giorni
Sembrano ferrose lenticchie
Mangiate voluttuosamente
(nella notte delle mille promesse)
Mentre Esaù il sadico se la ride.

A volte i giorni
sembrano vele sfrontate
(invano il timoniere regge la barra)
ignare della rotta e del destino
Oltre l’orizzonte fraudolento.

A volte i giorni
(anafora che sa di stufato)
Sembrano grani di un rosaio
Lignei misteri ineffabili
Sclerotico volgere del nulla.

(Basta che è pronto, si va in tavola!)