martedì 11 dicembre 2012

Senza ratti che Natale sarebbe!



Li ho visti. Sono arrivati e sono in cima ad un abete. Ho visto l’albero dei ratti. Addobbato esclusivamente con grossi surmolotti (rattus norvegicus) grigio chiaro di peluche. Altrimenti detti sorche, zoccole, ratti di chiavica. Di circa trenta centimetri e senza varianti antropomorfe come occhietti simpatici e musini a boccuccia. Proprio ed esclusivamente topi. Peluche di colore bigio/beige, che si inseguono senza soluzione di continuità per i rami sintetici di un piccolo abete plasticoso in un grande magazzino dalle merci colorate e offerte a prezzo modico. Taccio il nome, ma il suo slogan è Play, Live, Create, evocativo di un mondo luminose, sereno, felice. Un vero paradiso terrestre, insomma dove tutti si installano gioiosamente sui balconi di una casa di ringhiera. I bambini sono tranquilli, sorridono alla fantasia, gli anziani sono tutti in salute con le dentiere ben  incollate ai palati, le coppie tutte pacificate che siano etero o omosessuali. Senza ratti tra i piedi. Ragazzi la vita è un sogno, e c'è tanto spazio per tutti.

E poi, senza che gli abitanti del limbo alla ringhiera se ne accorgano, arriva l’albero dei topi di grossa taglia, capaci di arrivare fino in cima. Forse sono i lavoratori che manifestano contro l’azienda e i suoi contratti capestro? Ingoiamo anche loro, avranno pensato i creativi dell’Ikea (uh, pardon!), sbiadiamoli un po’, facciamoli parte del mondo natalizio, ma più che ratti non potranno essere. Quasi un avvertimento: attenti che questi vi mangiano persino l’albero natalizio.  Oppure è un incubo scaturito dal subconscio di coscienze fasulle, con tanto pelo grigiastro non solo sullo stomaco: il mostro delle saghe nordiche, l’incubo che dall’ultima Thule invade le ariose rassicuranti dimore del benessere plateale. Un cedimento all’oscuro elemento ctonio  che vince sulle linee apollinee dei soggiorni e delle camere da letto.

Se fottuto paradiso deve essere, che abbia almeno l’albero delle mele o quello dei fichi, filologicamente più credibile. A me piacerebbe tanto l’albero degli zoccoli. Piccole calzature lignee, naturali, in faggio o betulla, da tirarvi addosso, carissimi PlayLiveCreate, con incantato sorriso e luce negli occhi stile inquilino ikeano. In bell’ordine. Uno dietro l’altro, sulle vostre teste.

lunedì 12 novembre 2012

Antropologia spicciola, calici poetici e Chomsky (con dedica speciale per Alessandro)







Villa Mazzotti a Chiari. Una grossa bomboniera che ospita  la micro editoria. Dentro, un rifulgere di marmi, specchi e vetrate liberty. Nelle sale i banchi gioiosi dei piccoli editori che vi arrivano ripieni di speranze come confetti alla mandorla e talvolta finiscono con … l’incazzarsi come le formiche di ginomicheliana memoria. Dopo i primi smarrimenti sull’hobby del nonchalanty walking della gran parte dei visitatori, cominciano a divertirsi. A osservare l’umanità indolente (con qualche lodevole eccezione) che trascorre sotto i loro occhi.
Al banchetto dei poeti si beve. Per loro stessa ammissione i poeti si sentono i più trascurati e allora con apollinea saggezza si arrendono a Bacco. La Musa ‘mbriaca è felice.
 Mi offrono del vino, e come si fa a dire di no. Il calice di plastica ha una sua eleganza, la trasparenza si colora di giallo paglierino.
‒ Ottima malvasia dei colli piacentini ‒ sentenzia compunto uno della banda.
  Convengo, però l’offerta del calice mi dis-trae dal portare a termine una pericolante transazione con una coppia la cui metà muliebre tiene fra le mani un libro, un romanzo, e guarda l’altra metà con occhio devoto, in attesa della concessione del santo.
‒ Che si fa, lo prendiamo?
Lui non risponde, fa un passo indietro. Scuote la testa con veemenza tanto che anche le guance accompagnano tremolanti il movimento. Il signore in questione ha masticato molto e strati di residui lipidici sono depositati nella pelle della faccia che, data l’età, cede alla forza di gravità. Probabilmente è lui che tiene i cordoni della borsa e non la molla.
Questa è la tipologia più ricorrente di coppia che passeggia tra i libri in vendita.
La seconda tipologia, più rara, è a parti invertite. È lui l’intellettuale di casa, non chiede il permesso alla moglie per acquistare, ma viene aspramente rampognato perché “c’è lì un bel libro su come conservare la lattuga fresca in frigorifero e tu ti perdi in questo. Figurati, Dio di Spinoza! Basta andare in chiesa, no?”
Il risultato è identico. Le coppie sono una addizione: cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia. Lui depone, sorride, fa spallucce e se ne va. Vorremmo mica sfasciare matrimoni per Baruch!
Tipologia visitatore singolo, maschio:
si avvicina, dà un’occhiata, prende in mano un libro. Mi batte il cuore, penso a come trattenerlo, inizio a parlare con la luce negli occhi, credo. Mi fa cenno di smettere.
‒ Prendo questo, grazie.
La mia loquela seduttiva mi rimane aggroppata in gola, ma metto in cassa e taccio. Non si possono avere tutte le soddisfazioni. La banconota da dieci euro si adagia lieve, una pennellata rosa, sul fondo marrone della cassettina di legno non laccato. Sì, perché talvolta i piccoli editori coltivano con altera  perseveranza fisime speciali, eco compatibili: carta riciclata, server che si nutre di energia eolica, contributo per il rimboschimento e cassetta in legno naturale, magari di sandalo per coprire l’odore dei soldi.
 Rimugino. Aveva ragione la Inge F. quando affermava che i libri si devono vendere come barattoli di marmellata, come cetrioli sottaceto. Ma lei era alla guida del più grande ipermercato libraio in Italia. Che ne sa la moglie del Giaguaro del piccolo editore? Editor, traduttore, grafico, impaginatore, e spesso stampatore fai da te, di quel piccolo tesoro che è finito nelle mani ruvide del laconico signore di cui sopra?
Bene fece Bianciardi a scambiare il suo cappotto liso, e rivoltato tante volte, con il paletot (fine lana di cammello) cucito a mano che indossava Il Feltrinelli. Non sapeva il grande  Luciano che stava vendicando ante litteram la vita agra anche dei piccoli editori.
Tipologia ragazza impegnata:
‒ Mi parla dei suoi libri, per favore?
Stavolta la domanda mi coglie impreparata come in un un’interrogazione di matematica a sorpresa. Deglutisco, sorrido e parto.
‒ Ecco, questo romanzo è di una scrittrice messicana, intriso di cultura classica…
La ragazza, riccioli neri e visetto da madonna mi interrompe.
‒ Che studi bisogna aver fatto? Io non ho fatto il classico. Mi sono appena iscritta a un laboratorio teatrale, Jodorowsky, ha presente!?
Ho presente. Depongo il romanzo colto e raffinato e propongo entusiasticamente il testo di un altro autore messicano che scrive di “psicomagie”  in chiave ironica e visionaria.
‒ Mi sembra difficile ‒ sussurra la ragazza spaventata. Decide per il primo. La cultura classica le sembra più rassicurante. Evvai!
Una seconda rosea banconota si adagia leggera sulla sorella. L’odore del sandalo l’avvolge paterno.
Tipologia “a me interessa”
Stavolta tocca all’editore alle mie spalle. La signora ha una voce imperiosa, mi giro incuriosita. “A me interessa” è un esordio che manda in solluchero il micro. Finalmente l’epifanica discesa dell’angelo lettore, il fanatico cercatore di tesori nascosti, il maniaco dell’inconnu.
‒ Mi interessano questi libretti.
Il micro esulta. È il suo prodotto di punta. Piccoli libri filosofici contenuti in piccolo cofanetto che si apre a libro (!) di cartone rosso fuoco. L’apoteosi del piccolo, com’è giusto.
Il micro editore apre il cofanetto, estrae i volumetti e spiega che la signora può prendere quelli che desidera, scambiarli con quelli degli altri cofanetti, allineati e composti come i nanetti pronti ad entrare in miniera.
‒ No, no ‒ fa la signora garrula ‒ a me interessa il cofanetto.
Il micro si controlla e con aplomb degno di lord Brummel risponde:
‒ Signora, i contenitori espositivi non sono in vendita ‒ e risprofonda nella lettura di un testo che tiene fra le mani e che legge tra un bookselfwalker (perdonate il conio, ma l’inglese fa figo) e l’altro, dal titolo: “L’insostenibile pesantezza del Comp”.

“… la prospettiva deve cambiare: mentre la grammatica fornisce un sistema interpretativo altamente astratto, il parser deve rendere conto di certe limitazioni di carattere mnemonico-attenzionale tipiche dell’uomo.”
I micro leggono e studiano Chomsky, chapeau!
Poeti, un altro calice, per favore.

mercoledì 31 ottobre 2012

Una sola automobile, due ceffoni







Due volte a settimana il mio filosofo tiene la sua lezione in facoltà. Un filosofo moderno, perché quelli antichi camminavano, passeggiavano, esploravano piazze e usci di caverne. Lui no. Corre a spandere il verbo in macchina con autista, che sarei io. Due volte a settimana ritorno a casa con un sottofondo di borbottii, i miei, contro l’elogio della pigrizia che mi siede e vive accanto.
Accendo la radio per evitare di sprofondare nelle mie melmose rampogne. So che non devo rimuginare, mi conosco, non voglio guastarmi la giornata. E poi è colpa mia se abbiamo una sola macchina. Il filosofo caldeggia l’acquista di un altro trabiccolo, ma mi oppongo con la ferocia ambientalistica che mi contraddistingue.
‒ Due persone, due macchine? Ma “siam passi”?
Non aggiungo che, se il filosofo dovesse pagare il parcheggio per la giornata che rimane in università, bisognerebbe fare un mutuo, e le propine accademiche scadrebbero al livello di mancetta per adolescenti petulanti. Un gelato allo yogurt quando andiamo al cinema, alla domenica pomeriggio. Già ci siamo vicini.
Ergo in solo vehiculo stat res.
Radio 2. Mi assale la voce querula di Chiambretti, sollevo la mano dal volante per cambiare programma, ma irritazione su irritazione, mi giunge la voce tremula dell’Emilio. Sì, il direttore della rete illegale, il frequentatore di bische, il procacciatore di femminei sollazzi per l’utilizzatore finale. Stamattina nasce storta. Ci sono mattine così, il mondo , Saturno (uno dei miei pianeti, e l’altro è Marte), mi rema contro.
Però.
Un momento.
‒ Lanci un tuo partito…
Penso a una celia chiambrettiana.
‒ Sì, non un partito, un movimento di opinione. Perché nel bene e nel male faccio opinione…
‒ Il tuo slogan?
‒ “Vogliamo vivere, e il sottotitolo è La dignità è un diritto”!
Spengo la radio. Mi concentro sul semaforo che sta cambiando colore. Inchiodo sul rosso. In questa piazza c’è la telecamera. Quella che manca ormai al canuto direttore. Non si tinge più, anche se non rinuncia al suo bel fondotinta e alle punturine vitaminiche sul viso. Di altro e di altrove non so, ma posso ipotizzare.
 “Vivere”, “dignità”, “diritto”.
Invoco la rifondazione del vocabolario, altrimenti almeno due schiaffoni, suvvia. Simpatici, al volo, come quelli di Amici miei.
Intanto il filosofo sta chiacchierando di Dottrina dello stato. Il mio, di stato, è prostrato. Cazzo, che bell’inizio di giornata!

venerdì 5 ottobre 2012

"O voi che siete in piccioletta barca..."




Sembra noioso, ma spesso non lo è. Che cosa? Fare la spesa. Uno dei doveri più ripetitivi e mai espletati del tutto. Per quanto si mangi poco… la dispensa mostra una voracità illimitata.
Coppia di signori più o meno della mia età (Che devo dirvela? Si vince facile.) Il monticello bruno delle melanzane luccica di rugiada. No, non è la freschezza a produrre la meraviglia mattutina, ma più prosaicamente il passaggio dai frigoriferi dei depositi alla temperatura ambiente. E siamo ancora sui venti gradi abbondanti. Giustificata in pieno la voglia di una bella parmigiana.
Dicevo, la coppia.
Lui: ‒ Prendi due melanzane.
Lei si stringe nelle spalle, resiste. Ne prende una, la soppesa. Guarda il marito, sperando che lui l’aiuti nella scelta. Io scalpito. Se si fanno da parte, sarebbe meglio. La sporta di plastica spessa comincia a pesare. Ha già ingoiato pomodori, fagiolini, scarola, prezzemolo, sedano e carote. E il filosofo che stoico la regge mi fa cenno di sbrigarmi. I due mi guardano con una strana luce negli occhi. Non raccolgo.
Lui, facendosi coraggio: ‒ Chiedi alla signora!
Sì, perché io mi sono intrufolata nella loro sospensione valutativa e cerco di prendere le mie melanzane. Le ho scelte con gli occhi.
Lei mi guarda ed esclama: ‒ Ma devono perdere l’acqua!?
‒ Sì, se vuole ‒ faccio io con malagrazia, lo ammetto.
Intanto la signora mi ha risoffiato il posto.
‒ Si fanno in tanti modi, vero?
‒ Vero ‒ confermo. Poi, mossa a compassione e, sospinta a mia volta dalla pressione della fila che si va componendo dietro di me non troppo ordinatamente, butto lì una sfilza di proposte che si scontrano con il mesto contrappunto “Ma devono perdere l’acqua!” 
Io rischio di disidratarmi, comincio a sudare, ingoio saliva.Nello stesso tempo vedo le melanzane trasudare, inondare la mia cucina della loro acqua. Partoriranno? O il flusso continuerà spumeggiante e solenne come cascate?
Lei: ‒ C’è chi fa la caponata, vero?
Io, interessata: ‒ Ecco, vada a prendere allora un bel sedano!
‒ Sedano? ‒ la signora è sconvolta. Gli occhi di suo marito diventano più grandi, quelli del mio si stringono fino a diventare due fessure.
‒ Lascia stare, va là ‒ ci soccorre sfinito e pentito il marito numero uno. Il filosofo riapre gli occhi, io afferro le mie melanzane.
Li guardo allontanarsi mesti con il loro pacchetto di carote. ‒ Per la minestrina ‒ aveva trovato il tempo di dirmi la signora.

Morale della favola: la moda teleculinaria fa più danni di quanto non si creda. Spinge anziane signore alla cucina “esotica”, mette in crisi matrimoni, determina una densità di corpi statici davanti ai banchetti delle verdure che solo dio lo sa. Lo stesso accade nei supermercati al banco del pesce, e persino al banco della carne. Ormai ci strizziamo reciprocamente l’occhio col pescivendolo, col macellaio subissati loro malgrado da quesiti culinari. Costretti a spiegare che il pesce bisogna squamarlo, che lo spezzatino non cuoce in venti minuti.
“ O voi che siete in piccoletta barca/tornate a riveder li vostri liti…! Che Dante mi perdoni se spargo i suoi versi come fosse prezzemolo.

Cucinate quello che sapete senza farvi mortificare e, se odiate cucinare, non sentitevi in colpa, sorelle! Ché le cuoche televisive tali non sono, fanno finta.