sabato 1 gennaio 2011

Caterina dei miracoli

Anche oggi giochiamo a scacchi.  Osservo il teatro della battaglia, la scacchiera. Ripasso le regole che Caterina mi ha elencato la prima volta che son salito quassù per incarico del droghiere, quello che sta sull’angolo della piazza del mio paese.
‒ Portale questo pacco, tu che gironzoli da quelle parti.
 È vero, io gironzolo, che altro potrei fare? Mi piace stare da solo, io e la montagna. Non devo dare spiegazioni alla montagna. Lei è lì che ammicca sorniona: prendimi, se puoi. E dopo la montagna, il rifugio della mia biblioteca, dove sogno la vita e vivo vite altrui, accoglie il mio passo felpato.
Caterina un mercoledì mi ha invitato a entrare. Mi ha preso dalle mani il pacchetto del droghiere e mi ha offerto un liquore di ribes. È cominciata così. Da allora, ogni mercoledì, salgo da Caterina, ma prima passo dal droghiere.
 ‒ Devi consegnare qualcosa a Caterina?
Un pretesto, chiaro, ma lui ha capito il mio gioco. Non mi piace tanto la sua condiscendenza, anche se sono anziano, non sono ancora del tutto rimbambito.
‒ Sì. Caterina per telefono mi ha ordinato farina e zucchero. Ecco qua, mi fai proprio un favore.
 La drogheria, in questo piccolo paese, continua ad essere una specie di emporio odoroso di spezie, ma anche di saponina e di caramelle. Puoi trovarci un po’ di tutto. No, non è un supermercato. Il locale non ha uscite di sicurezza, luci a neon, cartelloni pubblicitari. È angusto, ma i contenitori di caramelle a destra e quelli dei legumi a sinistra della cassa sembrano scrigni pieni di antichi tesori. C’è ancora il vecchio Lapo dietro la cassa. L’insegna è sempre la stessa. Non cambia quasi nulla nel mio paese.
Io non ho ancora imparato a giocare bene a scacchi. Caterina ridacchia alla fine di ogni partita.
 ‒ Tu non ti concentri, devi pensare alla mia risposta, alle mie mosse. Tu muovi a caso e negli scacchi non si fa così. Numero uno: "La casa della scacchiera posta nell'angolo a destra del giocatore deve essere di colore chiaro".
È successo qualche mese fa. Caterina interrompe spesso la mia concentrazione: ‒ Sei ancora un principiante ‒ dice e  gira la scacchiera di novanta gradi  per incominciare una nuova partita. Già, sono un principiante.
Caterina è spuntata miracolosamente nella mia vita come un croco sul terreno d’inverno, appena abbandonato dalla neve. Un piccolo sole giallo che ammicca dal basso. Mi sento di nuovo attratto da una donna, dopo tanto tempo di dolore consumato in solitudine. Per vederla affronto due ore di scarpinata in montagna e non per andare a funghi o per cacciare qualche animale che si fa beffe di me da anni, di me che sparo in aria per vederlo fuggire sano e salvo. Pensandoci bene, anche la caccia finora è stata un pretesto per star solo.
 Per questa donna cammino, anzi mi inerpico per due ore sul sentiero impervio che conduce alla sua casa. La casa di Caterina è proprio in alto, su una spianata verde delimitata da larici e abeti rossi. Un gradino nel fianco della montagna che riprende a fuggire quasi  subito verso l’alto da dove osserva impassibile tutto ciò che si muove quaggiù. Al centro del prato attorno alla casa Caterina ha fatto piantare un cedro del Libano che sta crescendo e tra un po’ supererà in altezza larici e abeti.
‒ Non sei mica sulle montagne del Libano ‒ le ho detto il giorno che sul prato si affaccendavano gli operai del vivaio venuti dalla città a piantumare.
‒ Questo sarà il mio Libano ‒ mi ha risposto visibilmente irritata.
Da quel giorno, tutti i mercoledì, arrivando dal sentiero, ogni dieci passi sollevo lo sguardo in direzione della casa di Caterina, ma il bosco lassù impedisce la sua vista, sicché ogni volta mi chiedo se la casa esista davvero, se Caterina esista davvero. Caterina, il miracolo.
Caterina ha settant’anni come me, un caschetto impertinente di capelli bianco argento che scuote con vivaci scatti della testa. Anche a lei piace stare da sola. Altrimenti perché se ne starebbe lontana anche dal paese? Quando nel salutarla l’abbraccio sa di fiori, di cose buone che sentivo quando era piccolo attorno alle donne della mia famiglia. I miei abbracci sono lievi, appena accennati perché Caterina non ama gli abbracci.
‒ Su, su andiamo alla scacchiera.
Mi sottopongo con pazienza alla tortura di rimanere seduto per un’oretta sui cuscini del pavimento. Sono grandi e colorati, di sete sgargianti, isole di lusso sul ruvido pavimento in vecchio cotto. Immagino ondeggiare su di noi la tela bianca di una tenda nel deserto. La tenda di un sultano. Non ho mai visto il deserto, né tantomeno una tenda. Mi sento come lo sceicco bianco del film. Alzo lo sguardo e vedo scintillare tra le travi a vista del soffitto una grossa ragnatela dove è in agguato indisturbato Spider, il ragno di casa. Fila e aspetta.
‒ Sediamoci, allora.
Mi sorprende ancora la sua scontrosità, ma comincio a pensare che anche per lei il mercoledì non venga soltanto per la sua dannata partita a scacchi. Ogni volta che salgo da lei le porto qualcosa, anche se il droghiere non ha nulla da farmi consegnare. Oggi ho raccolto, guardingo come un bracconiere, un mazzetto di genziane. Caterina mette le genziane di un blu sfavillante in una piccola brocca di ceramica dipinta in verde. Una delle sue ultime creazioni. Caterina è un’artista e di colori se ne intende.
‒ Sei stato attento a non superare il numero consentito, bravo ! ‒ mi ha detto Caterina.
 Io so che le sono piaciute. So che non lo ammetterebbe mai. Anche lei mi sembra prigioniera di un antico dolore che fatica a sciogliersi. È la prima volta che io porto fiori a una donna.
Quanti sono i mercoledì che salgo su questa baita? Non lo so, ne ho perso il conto. So che la salita diventa ogni volta più lieve, più breve. Caterina mi aspetta quasi ogni giorno, e io non posso, proprio non voglio farla aspettare. La prima mossa oggi sarà mia, e sono sicuro che lei non si arroccherà.




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