domenica 30 gennaio 2011

Banani, husky e profumo di spezie orientali.

Stamani, contrariamente al solito, ho fatto una lunga passeggiata nel mio quartiere. Un quartiere popolare di villette a schiera tra le quali si levano, come spioni un po’ disorientati, alcuni palazzi circondati da grandi spazi verdi, immersi nella luce uggiosa e livida che l’inverno regala generosamente alla val padana. Attorno, un diramarsi di viottoli, stradine e stradicciole tra siepi di lauroceraso, gelsomini (addormentati), e perfino qualche pianta più esotica, come un banano.
Mi fa tenerezza il banano in esilio: le sue grandi foglie sono accartocciate, pesanti, gravide di gelo e umidità. Resiste stoicamente anche alla stupidità di chi l’ha deportato in queste regioni.
E stamattina, contrariamente al solito, non ho incontrato nessun cane di grossa taglia, sguinzagliato e libero di deporre le sue deiezioni ovunque.
Per me che ho paura dei cani, e ancor di più di alcuni loro padroni, è stata una bella sorpresa. In genere, alcuni abitanti delle villette, forse pensando di essere in grandi parchi nobiliari e non in pochi miseri metri quadri di terra, si fregiano di mastodontici cani blasonati e piante esotiche che danno un’immediata sensazione di straniamento.
Può capitare facilmente di incontrare nell’estiva afa stagnante della pianura padana un povero husky con gli occhi accartocciati come le foglie del nostro amico banano. Nati per trascinare slitte sui ghiacci dell’Alaska, si tirano dietro un carico oneroso di umana ottusità. So di un rotweiler di nome Rea che vive con la sua padrona in un appartamento di circa settanta metri quadri, a pochi passi da casa mia, e condivide la magione anche con un gatto, il quale è perennemente costretto a vivere sopra un armadio. Non ardisce scendere per ovvie ragioni. Farebbe la fine delle gambe del tavolo che, un bel giorno, rosicchiato a dovere dalla placida Rea, pare sia crollato al suolo fragorosamente, mentre attorno al tavolo erano seduti i padroni e alcuni amici a cena. Gli amici avevano preso la precauzione di tirare su le gambe sotto il loro sedere e ingollavano amari bocconi in quella comoda posizione. La Rea è una vera Regina di Cuori. La sua crudeltà, come la sua rabbia, è archetipica.
Forse s’è capito perché, pur temendo istintivamente una cane, la paura mi passa dopo aver conosciuto il padrone. O si accresce, dipende dai casi.
Sono tornata a casa ritemprata da tutte le emozioni che la bella passeggiata ha evocato, ma la gola ha cominciato a pizzicarmi, a stizzire le mie corde vocali ispessite da anni di brontolii professionali e casalinghi.

È venuto il momento della mia bevanda anti mal di gola. L’ho preparata pregustandone i profumi,  ho sorriso al pensiero  che anch’io stavo ricorrendo all’esotico per consolarmi dell’avversa geografia residenziale come il   padrone del giardino col banano estraniante, e l’ho sentito fratello.


Tisana (o decotto?) per gorgheggi virtuosi.
Acqua 2,5 dl
5 grani di pepe nero
5 chiodi di garofano
1 pezzo di stecca di cannella
2 frutti di anice stellato
2 fettine di zenzero fresco
1 cucchiaino (o bustina) del vostro tè preferito
1 cucchiaino di miele o zucchero (facoltativo)

Mettere sul fornello un pentolino con l’acqua e tutti gli ingredienti ad eccezione del tè. Portare a ebollizione. Far bollire per un paio di minuti.
In una tazza mettere il tè e aggiungere la tisana-decotto. Filtrare se necessario.
Vi assicuro che due tazze al giorno stoppano un mal di gola che inizia a farsi sentire.

giovedì 27 gennaio 2011

Domani

Arriverà Primavera.
In silenzio
sulle ali gentili
Di Zefiro.

A volo radente
Spargerà il seme dell’oblio
Su quest’inverno
Duro
Greve
Funereo.

Accarezzerà  Primavera
le zolle incredule
gelate
rassegnate.
E ne trarrà fuori
La tiepida forza
del grembo
assopito.

lunedì 24 gennaio 2011

AAA Divano Rosso Vendesi


Sono stato chiamato in direzione. Nell’ufficio del direttore mi accoglie un’aria densa, quasi irrespirabile. Il posacenere sulla scrivania di mogano gronda mozziconi.
Nonostante il divieto di fumare appeso in bella mostra sul muro alle spalle della scrivania, l’ufficio del capo mantiene le sue atmosfere da film anni cinquanta. Non ci si meraviglierebbe, se alla porta si affacciasse Philip Marlowe con la sigaretta all’angolo della bocca.
All’ingresso c’è Mario, il centralinista. Dovrebbe anche dare informazioni e filtrare i visitatori, ma è facile trovarlo al bar di fronte, a bersi l’ennesimo caffè. Siamo una redazione un po’ cialtrona, ma conosciamo il mestiere. Il viavai non cessa per tutto il giorno.

‒ Allora, cosa mi combina? Gesualdi si è lamentato. Il suo lavoro è approssimativo.
Il direttore mi guarda accigliato e la faccia di Gesualdi, il caporedattore della Nera, si sovrappone vendicativa sulla sua.
Io rivolgo gli occhi alle punte delle scarpe. Sento le mie guance che scottano. Sono sicuro che virano al bordò. Mi succede, quando sono a disagio. Sono quello che dicono un timido.
‒ Lo chieda al capo redattore perché i miei pezzi non passano ‒ rispondo biascicando le parole. ‒ Io faccio del mio meglio. Io... cerco di fornire tutti gli elementi per un pezzo efficace. E poi, (ho un’impennata, sapendo di essere raccomandato) ognuno ha il suo stile.
Il dottor Giunti, direttore e padrone del nostro giornale, continua a fumare, ma non mi toglie gli occhi di dosso. La sigaretta tra le sue labbra termina con una tremula colonnina di cenere. In un angolo della sua bocca sboccia un piccolo fiore bluastro, segno della dilatazione di una vena a causa del calore della sigaretta.
‒ I suoi pezzi, come li chiama lei, risultano troppo asettici, esageratamente schematici. Mancano di pathos. Non filtra alcuna emozione, e la NERA ( e la sua voce si carica di toni minacciosi) si regge sugli scossoni emotivi che riusciamo a dare anche al lettore più distratto o più menefreghista. Guardi qua: «Marito quarantenne uccide moglie e amante». E poi: «Tunisino accoltella pakistano in piazza Rodi a Verona». Titoli esangui, mi scusi il gioco di parole, (e a me scappa un risolino) come i pezzi. No, non va. Cambi  strada altrimenti se ne ritorna agli annunci economici.

Sono stato promosso da poco alla Nera. Mi ha raccomandato l’ingegner Negroni, amico del dottor Giunti. Preparo i resoconti giudiziari per il redattore. Ma imposto anche il pezzo. Le famose cinque W: WHO, WHAT, WHEN, WHERE, WHY. Un conciso promemoria per accelerarne la stesura, quando il redattore ha il blocco del foglio bianco. Per la Nera il punto più trascurabile dovrebbe essere il WHY; il perché sarebbe compito degli inquirenti. Qualche ipotesi si può azzardare con le cautele del caso, ma qui finisce il mio lavoro e tocca al redattore rivestire di adeguati panni la scheletrica creatura.
 Un lavoro oscuro il mio, ma, ne sono sicuro, la gavetta mi porterà a raccontare storie complete, prima o poi. Giuro che mi sto impegnando. Devo onorare la raccomandazione del dottor Negroni.
Fino a qualche giorno fa, il mio compito era quello di moderare l’accettazione degli annunci economici, quelli dell’inserto gratuito del sabato. Dovevo controllare che gli annunci non contenessero parole ingiuriose, contrarie alla morale, bla, bla, bla.
Mi divertivo con gli annunci. Chi pensa invece che sia noioso leggerli e registrarli, non ha capito niente. Però ha ragione chi mi prende in giro. Sì, non è un lavoro degno di un cronista, di uno che ambisce a diventare una firma. Mi dicono tutti di perseverare, ma le Firme sono spocchiose e non sono disposte a insegnarti niente, anzi ruggiscono difendendo il loro territorio come bestie rabbiose e si azzannano anche tra di loro quando qualcuno ruba l’occasione di uno scoop a qualcun altro. Un inferno questa dannata competizione.
Gli annunci invece sono una ‘piazza’deliziosa’. Non hai bisogno di andartele a cercare le storie. Le storie sono lì sotto i tuoi occhi, ammiccano, chiedono solo di essere raccontate.
Volete un esempio di annuncio? Ecco, prendete questo:
«Vendesi divano letto quasi nuovo, tre sedute, velluto rosso. Materasso incluso. Prezzo da concordare. Trasporto a carico del venditore. No perditempo.»
Vedete, io leggo e percepisco il brulichio della vita che scorre, il trapestio di un trasloco fatto o da fare. Si accavallano le voci di una famiglia di tre, facciamo di quattro persone. O magari quattro persone e un cane. In questo caso il cuscino preferito dal cane presenta di sicuro un certo logorio del velluto, una radura di forma rotondeggiante, più sbiadita. E la macchia di fango, ne vogliamo parlare? Una macchia di fango che nemmeno il K2O è riuscito mai a disintegrare.
Il cane è uno spinone, accompagna il padrone a caccia. È bravissimo a stanare la preda, ma appena il padrone spara un colpo di doppietta, lo spinone corre a rifugiarsi sotto la macchina e non ne esce più. Preferisce i cuscini del divano. Sicuramente nelle cuciture vi trovereste qualche pelo sottile, impalpabile, ma implacabile. E se invece del cane ci fosse stato un gatto? Allora il divano facilmente avrebbe sugli angoli le lacerazioni delle sue unghie. Gli angoli dei divani offrono ai gatti casalinghi una goduria senza fine. Il rumore forsennato dei loro artigli è tale che di notte il nonno, perché potrebbe esserci un nonno, nonostante la sua incipiente sordità, non riesce a dormire per quel trac trac continuo e beffardo.
Il nonno dorme nello stanzino tra la cucina e il soggiorno. È arrivato in casa da poco, da quando è morta la nonna e da solo non poteva più stare. Sapeste che liti e che discussioni in famiglia! La signora giustamente non vuole farsi carico del suocero anziano.
‒ Tuo padre qui con noi? Sei impazzito? E chi ci bada? Tu non di certo. Quindi devo farlo io. Un altro carico da novanta sulle mie povere spalle. E dove lo mettiamo?
E poi la sistemazione si è trovata. Lo sgabuzzino è abbastanza ampio per un letto, un comodino e un armadio a due ante, struttura tubolare e rivestimento di tessuto plastificato.
‒ Va bene, per me va bene ‒ ha bofonchiato il nonno.
L’aria vi arriva da un finestrino a vasistas lungo tutta la parete.
 ‒ Mi basta che ci sia un po’ d’aria ‒ ha aggiunto il vecchio, guardando il vasistas in alto con gli occhi appannati dalla cataratta.
 ‒ Papà, ‒ gli ha detto il figlio ‒ ci starai benissimo. Come un re!
E intanto pensa che l’appartamento grande di suo padre, si potrà vendere in fretta e così potrà finalmente cambiare macchina e portare sua moglie in crociera. Mamma mia, per questa crociera che ritornello! La crociera è diventata la vacanza più ambita. Pare che le amiche di sua moglie tutte abbiano provato il brivido di una crociera. Persino della crociera sul Nilo. L’hanno fatta dopo aver visto in televisione un film con un famoso investigatore con i baffetti impomatati e la scriminatura centrale. Lui, un po’ patetico, ma i vestiti delle signore erano magnifici. Ah, la belle epoque!
‒ Anche la Grazia ci è andata, figurati! La moglie non demorde.
La parole di lei sono miste di isteria e autocommiserazione e, nello stesso tempo, alludono impietosamente alle misere entrate della sua famiglia. Con lo stipendio del marito!
‒ Grazia chi? E dov’è che è andata? Fa lo gnorri lui.
Sa benissimo chi sia Grazia e con quali soldi lei e il gentile consorte si siano pagati la crociera. Lei e suo marito sono i titolari un’impresa di pulizie con una trentina di dipendenti, tutti a nero, i soliti provvidenziali extracomunitari irregolari.
Il divano rosso risuona delle risatine della figlia maggiore. Quando i genitori escono, in genere diretti al supermercato, pomeriggio del venerdì, Claudia - sì è un bel nome e anche lei è carina - fa partire lo squillo per Gianluca, il suo ragazzo.
‒ Vieni, via libera, ma fa presto! Il nonno? No, non preoccuparti, lui è nel suo sgabuzzino, dorme.
Quante risate su quei cuscini rossi! Bacini, carezze audaci, turgori sconosciuti e sobbalzi. I due, messi assieme, fanno al massimo una trentina d’anni di spensieratezza e fretta di vivere.

E poi, un giorno, finalmente si vende l’appartamento del nonno. Allora un salotto nuovo e fiammante fa il suo ingresso in quel soggiorno e il vecchio rosso glorioso divano diventa soltanto una macchia colorata nel grigio degli annunci economici.
Dalle righe stampate lancia malinconici richiami col suo colore un po’ stinto  ai lettori dell’inserto gratuito della Gazzetta di Macondo. ‘Trasporto gratuito’: quanta fretta di liberarsi della vecchia gloria!
Volete paragonare l’universo rumoroso e multiforme che si agita negli annunci economici con la noia e la prevedibilità di un resoconto di Nera?

Mi sono accorto che sto indugiando troppo. Il direttore aspetta la mia replica. Tossisco, mi metto educatamente la mano davanti alla bocca.
 ‒ Allora? Non mi faccia perdere tempo! Mi dica qualcosa di sensato? ‒ ruggisce il direttore, con la sua voce catramosa, mentre per l’agitazione della mano la cenere dell’eroica sigaretta cade senza fare rumore e si sparge dispettosa sui fogli affastellati, su una manciata di fermagli,  sulla custodia di pelle color rosso scuro di un'agenda, sul  piattino della tazzina del caffè, ormai vuota, sulla cornice in cui spicca il sorriso di una bionda signora, incantatrice. Insomma, su tutta la scrivania.
‒ Allora io, io ho fatto del mio meglio.  Se a lei non dispiace, preferirei tornare agli annunci.
La mia voce adesso è quasi un sussurro. Le mie guance un po’ più accese.
‒ Vada, si tolga dai piedi e ringrazi l’ingegner Negroni che non la sbatto fuori dal giornale adesso, qui, su due piedi! Guarda tu che razza di figura farò con l’ingegnere. Perle ai porci! ‒  inveisce il direttore.

Sul monitor del mio pc arriva l’ultimo annuncio. State un po’ a sentire: «Vendesi singola ruota di bicicletta, anno 1953. Pezzo da collezione. No perditempo.»
Sarà mica quella del campionissimo, del 

grande Fausto Coppi?

giovedì 20 gennaio 2011

In direzione ostinata e contraria

Trovo sia triste, e anche un po’ patetico, andare in un agriturismo per vedere come si impasta e come si fanno dolcetti tradizionali, per scoprire le verdure dell’orto e i loro nomi. Credo sia anche troppo dispendioso, e i corsi negli agriturismi mi sembrano figli della falsa genuinità dei nostri tempi, anche quando le intenzioni originarie potrebbero essere buone. Accade così che oggi, in molte città, la spesa non si faccia più al supermercato, ma in boutique di prodotti similnaturali, su scaffali HighTech, disposti in bell’ordine. Ho provato a leggere l’etichetta di una gelatina di vino (a che servirà? Apprendo che si tratta di un dessert, da servire fresco), di Negramaro e di Chianti, per la precisione, e gli occhi mi si sono annebbiati per la ricchezza di elementi che con il vino hanno assai poco a che fare. Forse con la gelatina la parentela è più chiara. Il prezzo? Non sto neanche a dirlo. Il mangiar naturale sembrerebbe diventare una sciccheria che pochi potrebbero permettersi.
E così, mentre i poveri, la gente comune, le famiglie operaie fanno la spesa ai discount, dove la cioccolata spesso ha un retrogusto di polvere muffosa e i biscotti un sapore che attinge a tutte le fantasie della sintesi chimica odierna, la passata di pomodoro è cinese, la pasta… non ne parliamo, i ricchi, i borghesi che hanno stile e portafoglio, corrono in questi empori luminosi che ricordano, per la varietà e la disposizione delle merci, i tipici store del Far West, ma più levigati e stilizzati. Depurati dalla polvere degli stivali e dagli odori penetranti.  Da un momento all’altro mi aspetto che compaiano selle di cuoi appese agli angoli e tessuti  di cotonina a fiori, ripiegati sul bancone. Corrono gli sciccosi, dicevo, a comprare o a consumare sul posto cibo genuino e ben presentato. A me un tramezzino al pollo che costa 9 euri fa passare subito la fame.
E allora, invece di portare i pargoli urbanizzati in agriturismo, o a fare un bagno di pseudo genuinità in questi nuovi santuari alla moda, mi sembra più bello e decoroso insegnare loro un po’ di manualità in casa. No, non tutti i giorni. In occasione di feste o ricorrenze, per esempio. Alleveremmo figli meno imbranati, più consapevoli dell’esistenza dei cinque sensi, più capaci di prender in mano un oggetto senza sembrare papere timorose e, soprattutto, meno assuefatti al gusto standardizzato delle merendine industriali e agli hamburger dal sapore di plastica  e ultracalorici dei fast food. Forse li renderemmo più resistenti alle sirene delle mode.

Suggerisco un esercizio: fare insieme gli Occhi di Santa Lucia.
Berrebbero le vostre parole, i vostri gesti, le vostre pause, le vostre occhiate, il vostro calore. Si ciberanno di passione e sapere. Quante cose si imparano cucinando! Aveva ragione Suor Juana Inés de la Cruz: “Se Aristotele avesse cucinato, molto di più avrebbe scritto”. E suor  Juana non era una suora qualsiasi, ma un astro splendente della poesia messicana: a tre anni aveva già imparato di nascosto a leggere e, in seguito, in sole venti lezioni apprese magistralmente il latino ( ringrazio Caterina per avermela fatta conoscere).
Sto divagando, è vero, ma l’etimologia del termine mi fornisce un alibi di ferro: di-vagazione, vagare qua e là, divertirsi, uno dei benefici privilegi dell'Otium.

Occhi di Santa Lucia
Ingredienti:
Farina 00     500 gr.
Zucchero     50 gr.
Olio             0,1 dl
Uova           2
Mezza bustina di ammoniaca per dolci
Latte           0,1dl circa
Buccia grattugiata di 1-2 limoni
Pizzico di sale  1

Per la glassa o giulebbe
Zucchero    200 gr.
Acqua         1 dl
Albume      1

Preparazione
Disporre a fontana la farina sulla spianatoia. Metterci le uova col pizzico di sale, prima battute con una forchetta. Aggiungerci lo zucchero, la buccia del limone, l’ammoniaca disciolta nel latte tiepido e impastare fino a ricavarne una pasta liscia e di media consistenza. Lavorare la pasta in cilindretti dallo spessore di ½ cm e ricavarne dei tarallini del diametro del vostro indice attorno al quale avvolgerete il “lucignolo”. Mettere su una teglia foderata con carta forno e infornate a 200°. Dopo tre minuti abbassare il forno a 170°. Pochi minuti basteranno a renderli dorati, Estrarre dal forno.
Mentre i tarallini (occhi) si raffreddano e i bambini stanchi correranno ai loro divertimenti consueti, potreste occuparvi della glassa. Operazione delicata e non molto semplice.

Glassa cotta (più antica ed elegante nella resa)
Mettere in un pentolino lo zucchero e l’acqua. Se non dovesse sciogliersi del tutto, col calore del fuoco (moderato) lo zucchero si scioglierà benissimo, rimestando un po’ con un cucchiaio di legno.. Fate cuocere lo sciroppo fino a quando, prelevandone una goccia col solito cucchiaio questa “filerà” schiacciata tra l’indice e il pollice. Spegnete subito e trasferite in un recipiente più grande (dovrà contenere anche i tarallini dopo!). Battete con vigore con una forchetta (non vi preoccupate se si addenserà) e poi con un frullino elettrico, aggiungendo qualche goccia di limone e uno o due cucchiaini di albume battuto a neve. Il limone dà il profumo e l’albume un bianco lucido. Sarà pronta quando sarà bella liscia.

Se quest’ultima parte vi mette in ansia, omettete di fare ‘sta benedetta glassa cotta e fatela cruda così:

Due albumi battuti a neve ben ferma.
250 gr. di zucchero a velo (dose approssimativa per la variabile grandezza delle uova).
Sbattete in un ciotola abbastanza capiente, fino a farne una glassa liscia e consistente in cui tufferete i tarallini (Occhi), rigirandoli con delicatezza. Prima di calare i tarallini, fate la prova: se la glassa tende a cadere dalla superficie e a depositarsi alla base vuol dire che è troppo liquida! Aggiugere in questo caso, ancora un po’di zucchero.
Dopodiché li disporrete, avendo avuto cura di bagnarvi le mani con acqua, a mucchietti di due/tre su un’asse di legno e lascerete asciugare almeno per una notte.

Contrariamente a quello che sembra gli Occhi di Santa Lucia non sono eccessivamente dolci, perché nella pasta c’è pochissimo zucchero e la glassa su ciascuno di essi sarà meno calorica di una caramella!




martedì 11 gennaio 2011

Partiamo.





Quando il viaggio sarà terminato
Ci guarderemo sorpresi
impacciati come la prima volta.
Le tue mani e le mie
Stringeranno bagagli diversi
I miei occhi e i tuoi
Avranno visto soli  e lune d’altri mondi

I tuoi piedi e i miei
Avranno calcato terre sconosciute
Lontane,
Dove non portano
passaporti elettronici
aerei veloci
rapidi treni
e automobili a motore turbo.
Il mio cuore e il tuo
Avranno segnato i battiti
Di un ritmo
Dissonante.

Quando il viaggio sarà terminato
Ci accorgeremo
Che il nostro viaggio
Non è mai iniziato.

sabato 1 gennaio 2011

Caterina dei miracoli

Anche oggi giochiamo a scacchi.  Osservo il teatro della battaglia, la scacchiera. Ripasso le regole che Caterina mi ha elencato la prima volta che son salito quassù per incarico del droghiere, quello che sta sull’angolo della piazza del mio paese.
‒ Portale questo pacco, tu che gironzoli da quelle parti.
 È vero, io gironzolo, che altro potrei fare? Mi piace stare da solo, io e la montagna. Non devo dare spiegazioni alla montagna. Lei è lì che ammicca sorniona: prendimi, se puoi. E dopo la montagna, il rifugio della mia biblioteca, dove sogno la vita e vivo vite altrui, accoglie il mio passo felpato.
Caterina un mercoledì mi ha invitato a entrare. Mi ha preso dalle mani il pacchetto del droghiere e mi ha offerto un liquore di ribes. È cominciata così. Da allora, ogni mercoledì, salgo da Caterina, ma prima passo dal droghiere.
 ‒ Devi consegnare qualcosa a Caterina?
Un pretesto, chiaro, ma lui ha capito il mio gioco. Non mi piace tanto la sua condiscendenza, anche se sono anziano, non sono ancora del tutto rimbambito.
‒ Sì. Caterina per telefono mi ha ordinato farina e zucchero. Ecco qua, mi fai proprio un favore.
 La drogheria, in questo piccolo paese, continua ad essere una specie di emporio odoroso di spezie, ma anche di saponina e di caramelle. Puoi trovarci un po’ di tutto. No, non è un supermercato. Il locale non ha uscite di sicurezza, luci a neon, cartelloni pubblicitari. È angusto, ma i contenitori di caramelle a destra e quelli dei legumi a sinistra della cassa sembrano scrigni pieni di antichi tesori. C’è ancora il vecchio Lapo dietro la cassa. L’insegna è sempre la stessa. Non cambia quasi nulla nel mio paese.
Io non ho ancora imparato a giocare bene a scacchi. Caterina ridacchia alla fine di ogni partita.
 ‒ Tu non ti concentri, devi pensare alla mia risposta, alle mie mosse. Tu muovi a caso e negli scacchi non si fa così. Numero uno: "La casa della scacchiera posta nell'angolo a destra del giocatore deve essere di colore chiaro".
È successo qualche mese fa. Caterina interrompe spesso la mia concentrazione: ‒ Sei ancora un principiante ‒ dice e  gira la scacchiera di novanta gradi  per incominciare una nuova partita. Già, sono un principiante.
Caterina è spuntata miracolosamente nella mia vita come un croco sul terreno d’inverno, appena abbandonato dalla neve. Un piccolo sole giallo che ammicca dal basso. Mi sento di nuovo attratto da una donna, dopo tanto tempo di dolore consumato in solitudine. Per vederla affronto due ore di scarpinata in montagna e non per andare a funghi o per cacciare qualche animale che si fa beffe di me da anni, di me che sparo in aria per vederlo fuggire sano e salvo. Pensandoci bene, anche la caccia finora è stata un pretesto per star solo.
 Per questa donna cammino, anzi mi inerpico per due ore sul sentiero impervio che conduce alla sua casa. La casa di Caterina è proprio in alto, su una spianata verde delimitata da larici e abeti rossi. Un gradino nel fianco della montagna che riprende a fuggire quasi  subito verso l’alto da dove osserva impassibile tutto ciò che si muove quaggiù. Al centro del prato attorno alla casa Caterina ha fatto piantare un cedro del Libano che sta crescendo e tra un po’ supererà in altezza larici e abeti.
‒ Non sei mica sulle montagne del Libano ‒ le ho detto il giorno che sul prato si affaccendavano gli operai del vivaio venuti dalla città a piantumare.
‒ Questo sarà il mio Libano ‒ mi ha risposto visibilmente irritata.
Da quel giorno, tutti i mercoledì, arrivando dal sentiero, ogni dieci passi sollevo lo sguardo in direzione della casa di Caterina, ma il bosco lassù impedisce la sua vista, sicché ogni volta mi chiedo se la casa esista davvero, se Caterina esista davvero. Caterina, il miracolo.
Caterina ha settant’anni come me, un caschetto impertinente di capelli bianco argento che scuote con vivaci scatti della testa. Anche a lei piace stare da sola. Altrimenti perché se ne starebbe lontana anche dal paese? Quando nel salutarla l’abbraccio sa di fiori, di cose buone che sentivo quando era piccolo attorno alle donne della mia famiglia. I miei abbracci sono lievi, appena accennati perché Caterina non ama gli abbracci.
‒ Su, su andiamo alla scacchiera.
Mi sottopongo con pazienza alla tortura di rimanere seduto per un’oretta sui cuscini del pavimento. Sono grandi e colorati, di sete sgargianti, isole di lusso sul ruvido pavimento in vecchio cotto. Immagino ondeggiare su di noi la tela bianca di una tenda nel deserto. La tenda di un sultano. Non ho mai visto il deserto, né tantomeno una tenda. Mi sento come lo sceicco bianco del film. Alzo lo sguardo e vedo scintillare tra le travi a vista del soffitto una grossa ragnatela dove è in agguato indisturbato Spider, il ragno di casa. Fila e aspetta.
‒ Sediamoci, allora.
Mi sorprende ancora la sua scontrosità, ma comincio a pensare che anche per lei il mercoledì non venga soltanto per la sua dannata partita a scacchi. Ogni volta che salgo da lei le porto qualcosa, anche se il droghiere non ha nulla da farmi consegnare. Oggi ho raccolto, guardingo come un bracconiere, un mazzetto di genziane. Caterina mette le genziane di un blu sfavillante in una piccola brocca di ceramica dipinta in verde. Una delle sue ultime creazioni. Caterina è un’artista e di colori se ne intende.
‒ Sei stato attento a non superare il numero consentito, bravo ! ‒ mi ha detto Caterina.
 Io so che le sono piaciute. So che non lo ammetterebbe mai. Anche lei mi sembra prigioniera di un antico dolore che fatica a sciogliersi. È la prima volta che io porto fiori a una donna.
Quanti sono i mercoledì che salgo su questa baita? Non lo so, ne ho perso il conto. So che la salita diventa ogni volta più lieve, più breve. Caterina mi aspetta quasi ogni giorno, e io non posso, proprio non voglio farla aspettare. La prima mossa oggi sarà mia, e sono sicuro che lei non si arroccherà.