sabato 4 dicembre 2010

Cime di Rapa







Dismetto gli aulici panni della scrittrice e passo dalla prosa alla prosaicità culinaria, per quanto entrambe le attività si nutrano del ricordo e della tradizione; entrambe, proiettandosi nel futuro, cercano di esorcizzare la signora con la falce. Sicura che né l’una né l’altra mi sottrarranno alla polvere del tempo ché “tutte cose involve l’oblio nella sua notte”. Ma intanto che siamo qui…
Per ristabilire verità esistenziali, filologiche e operative parlo di Cime di Rapa.
Le cime di rapa sono i racemi non ancora fioriti dell'ortaggio Brassica Campestris, varietà Cymosa di cui si mangiano le foglie più tenere e le infiorescenze.
Tipica verdura invernale, nonostante la grande distribuzione ci abbia abituati a trovarle in quasi tutte le stagioni. Non vi fidate. Le cime di rapa devono prendere i primi freddi, altrimenti non prendono sapore. E poi quelle della Murgia barese, di Minervino Murge per la precisione, sono le migliori.
Il primo taglio è a gambo corto con le infiorescenze ben chiuse. Se vedete minuscoli fiori gialli aprire le loro corolle, potete darle da mangiare ai conigli. Lo stesso dicasi di quelle frasche lunghissime dalle foglie larghe che nei supermercati del Nord vengono spacciate per cime di rapa. In realtà erba per i conigli, appunto.
Vorrei a questo punto chiarire un altro luogo comune indotto dalla divulgazione cinematografico-cabarettistica di qualche pugliese diventato famoso che, forse per esigenze ritmiche e foniche, parla di orecchiette alle cime di rapa.
 Nulla di più falso: le cime di rapa si mangiano con gli “strascinati”, una pasta simile alle orecchiette, ma tenuta piatta, senza formare la classica coppetta rivoltata, ma strascicata sul “tavoliere”. No, non sulla pianura foggiana, ma sull’asse della pasta, chiamata appunto tavoliere, e non a torto.
In una recente pubblicazione distribuita da La Repubblica si afferma che la moderna dietetica consiglia di cucinare la verdura unitamente alla pasta. In Puglia si fa da sempre e senza tante elucubrazioni. Ci ha pensato la sapienza contadina a formalizzare il procedimento. Laddove è la sapienza delle donne che cucinano a decidere esattamente quando arriva il momento di calare la pasta nell’acqua dove già bolle la verdura.
Le cime di rapa devono cuocere, ma l’infiorescenza deve rimanere integra e non perché sia più buona, ma semplicemente più bella.
Condimento semplice: il buon olio d’oliva oppure, per scialare, un’acciuga scaldata nell’olio fino a disfarsi (senza friggere!), oppure con aglio scaldato anch’esso nell’olio. La mollica fritta non s’accompagna bene. Lei appartiene per vocazione alla Cima (un cavolfiore violetto, tipico anch’esso delle stesse terre).
Mi dà fastidio il tributo alla modernità che, come per la rucola, schiaffa la mollica fritta quasi dappertutto.
In tempi di magra, cioè quando la farina era misurata, si sostituivano gli strascinati col pane secco, fatto bollire come fosse pasta. Pan cotto e cime di rapa, olio e una spolverata generosa di pepe o di peperoncino: un piatto principesco. E consente anche di non gettar via il pane secco, sottratto così anche alla pattumiera dell’organico. Esempio perfetto di riciclaggio.
Come per ogni verità: questa è la mia. Dite la vostra, se volete.

2 commenti:

  1. Maria, che bello questo post, soprattutto utilissimo! Seguirò i tuoi consigli. Grazie e bravissima, riesci a rendere letteratura anche una ricetta, che dire: grandiosa!

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  2. Grazie, naimablu. In realtà è semplice cazzeggio travestito!

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